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Il primo confronto televisivo delle elezioni presidenziali americane 2024 tra Donald Trump e John Biden si è rivelato, com’è noto, disastroso per quest’ultimo.

Il Presidente in carica e nuovamente candidato non ha tenuto testa all’insistenza del rivale e cercando di rispondere alle domande dei giornalisti ha cominciato a balbettare, a guardare nel vuoto, a non ricordare; è sembrato insomma dare sintomi di una demenza forse legata all’età avanzata al punto da essere costretto, suo malgrado, a lasciare la corsa per la presidenza degli Stati Uniti.

Le esitazioni e lo sbandamento di Biden, trasmessi in mondovisione, hanno offerto uno spettacolo che si potrebbe definire tragico in senso aristotelico: miliardi di persone hanno provato da una parte pietà e compassione per l’uomo Biden, dall’altra paura per le conseguenze politiche della sua condizione. La trasmissione del confronto ha generato anche un altro tipo di paura: i segni evidenti di malessere in uno degli uomini più influenti al mondo hanno lasciato pensare a chiunque che nessun essere umano, per quanto potente e ricco, può evitare la vecchiaia e la malattia o  entrambe.

Tra le varie risposte alla domanda ‘cosa è la tragedia’ una è che questo genere drammatico rappresenti l’esperienza umana oscurata dall’ombra della morte che avanza inevitabilmente, sia che se ne abbia consapevolezza, come se si ha un male incurabile, o meno. Tragica è infatti anche l’ignoranza, il non sapere che abbiamo una ferita invisibile dentro di noi. La follia e la degenerazione cognitiva sono condizioni tragiche.

Come rappresentare, allora, lo stato di chi si trova in quella terra di mezzo nella quale non si è più davvero vivi, essendo dissolto il senso di sé, ma non si è ancora morti, e gli altri assistono talora impotenti, talora con rifiuto se non con disgusto, alla definitiva disgregazione di una mente e di un corpo malato? E se quest’uomo è anche potente, cosa accade del suo potere? Quali meccanismi perversi di tradimento e di malvagità si innescano nel togliergli quello che era suo?

Il racconto di una situazione tragica di questo genere si ha nel Re Lear, ove Shakespeare mette in scena lo spezzarsi dell’io, l’interruzione del tempo nella coscienza, la reificazione dell’essere umano, la realtà della morte. Un’opera ‘intollerabile’ e contemporaneamente la più esemplare delle tragedie, come l’ha definita la scrittrice irlandese Iris Murdoch.

La tragedia, scrive la Murdoch, non ammette consolazione o redenzione: le aspettative finali di Lear, che si illude di poter continuare a vivere in prigione insieme a Cordelia, di trovare una via per espiare i suoi errori, sono tragiche proprio perché irrealizzabili. L’illusione genera illusione, e le illusioni di Lear sono quelle di un uomo oppresso ormai senza scampo dalla demenza e dalla morte. Nemmeno la magia dell’arte può risolvere la tragedia – afferma Murdoch. Non si può guarire un male incurabile, non si può evitare il deterioramento fisico della vecchiaia. La morte di Lear, come la morte di tutti gli eroi tragici, appare piuttosto un artificio poetico per dare sollievo agli spettatori. Molto più tremendo – scrive Murdoch - sarebbe che Lear continuasse a vivere nella sua angoscia, continuando a piangere e a gridare senza tregua, fornendo un’immagine più spaventosa che non il finale convenzionale («image of death which would be more awful than the merciful end conventionally required»).  

La letteratura serve anche a questo: per allontanare da noi la malattia e la morte, attraverso la distanza del racconto e della rappresentazione. La morte dell’eroe tragico è una fine necessaria per non estenuare il pubblico attraverso il perpetuarsi dell’esperienza del soffrire giorno per giorno e della perdita della memoria che costituisce, come ha scritto varie volte Antonio Damasio, il nostro vero sé, il ‘sé autobiografico’. Nella tragedia, cioè, la morte dell’eroe è un escamotage estetico, che mette artificiosamente fine a quel che l’esperienza invece perpetua.

La tragedia di Lear non è perciò la tragedia di un re, ma dell’essere umano che perde se stesso, potenzialmente la tragedia di tutti. La tragedia di Lear è stata la tragedia della stessa Iris Murdoch, ammalatasi di Alzheimer. Il grido continuo di Lear si rispecchia terribilmente nelle grida di Iris Murdoch malata di Alzheimer, nella sua progressiva incapacità di parlare, nella sua perdita di memoria, nella sua inattesa aggressività, e dunque il suo diventare un’altra persona, sconosciuta sia al marito, testimone e narratore della malattia della moglie, sia a tutti coloro che la conoscevano ‘prima’ (Lisa Diedrich).

La tragedia racconta la malattia non solo con il linguaggio, come fanno i testimoni di solito a scopo consolatorio per se stessi, ma anche attraverso il corpo. La tragedia di Lear può perciò essere vista come la messa in scena dell’incarnazione (embodiment) della malattia oltre e al di là del linguaggio. Perciò il corpo dell’attore tragico è così importante. Già la tragedia greca mette in scena tanti casi di perdita di sé, a cui solo genericamente possiamo dare il nome di follia: Oreste e Aiace, ma anche Filottete, che pure soffre di un male in apparenza solo fisico; il Creonte dell’Antigone perde il controllo della realtà e a ragione Antigone può chiamarlo ‘pazzo’; e soprattutto Edipo approda al paradosso di essere un altro rispetto a chi ha sempre creduto di essere: accecandosi rende evidente la consapevolezza del male di cui soffre da sempre, il non saper vedere e conoscere la realtà, e nell’Edipo a Colono esperisce fino in fondo la sua incurabile malattia.

Ho chiamato in causa la tragedia greca anche perché a lungo si è discusso, e si discuterà ancora, sul significato del ricorrere di motivi tragici greci in Shakespeare. Ma la via filologica, in questo come in molti casi, non aiuta molto. Più proficuo è ricorrere ad un’antropologia della corporeità, per cui l’essere umano conosce attraverso il corpo; l’uomo è un corpo sensibile, attraverso il corpo avverte ed esprime le emozioni che sono strumento cognitivo, non sensazioni dovute a stimoli esterni. Ciò che sta intorno all’uomo, agli altri uomini, alla natura, agli oggetti, vale proprio in quanto atmosfera emotiva, come continuo scambio di reciproci flussi energetici, nei quali noi uomini agiamo e sviluppiamo la nostra esperienza.

La tragedia è dramma, azione di corpi in reciproco legame non tanto o solo linguistico, ma emotivo. Le atmosfere tragiche raccontano le esperienze umane della sofferenza, del dolore, della malattia. Shakespeare non aveva bisogno di leggere o di assistere alle tragedie di Sofocle per riprenderne gli elementi tragici, che appartengono alla memoria della corporeità umana.

Perciò val la pena ricordare alcuni tratti comuni tra Re Lear e la saga tebana di Sofocle, ossia Antigone, Edipo Re, Edipo a Colono (per quest’ultimo specificamente si rinvia all’importante fascicolo della rivista Skené)

Le tragedie su Edipo e Re Lear condividono il tema della cecità, sia metaforica, come quella di cui è vittima Lear, sia fisica, come quella che tocca al duca di Gloucester come contrappasso per non aver saputo e voluto vedere il male annidato nella propria famiglia. Edipo, Lear e Gloucester, cioè, sono sullo stesso piano nella loro incapacità di distinguere il vero e il falso, di delimitare realtà e illusione: ma sono soprattutto incapaci di vedere e dunque riconoscere se stessi. Tutto questo è simboleggiato nella celebre tempesta del Re Lear, che è interiore quanto esteriore, è una ‘tempesta della mente’, come dice Lear con un’espressione che ricorda da vicino le parole che Tecmessa ha per descrivere Aiace abbattuto dalla follia.

   Edipo, Lear e Aiace esprimono un ego ipertrofico, che pretende di dominare il mondo, di misurare, dividere e appropiarsi della realtà, il regno per i primi due, le armi di Achille per l’altro. Soffrono di mania di persecuzione, di paranoia, vedendo dappertutto complotti ai loro danni e non accorgendosi della lealtà e della fedeltà di chi è a loro vicino. Incapaci di governare, sono anche incapaci di qualsiasi legame affettivo che implichi altruismo e riconoscimento dell’altro.

 Già August Schlegel aveva notato come Antigone, la figlia devota che accompagna il padre nell’Edipo a Colono, sia il precedente più ‘luminoso’ di Cordelia, ma non è solo l’abnegazione filiale ad accomunare le due figure. L’una e l’altra si ribellano a convenzioni e ipocrisie sociali: Antigone non segue il proclama del Re, Cordelia non obbedisce alla richiesta del padre e non lo lusinga, come fanno le altre sorelle. La sincerità caratterizza queste due figure algide, che seguono ostinatamente una propria legge (autonomos è chiamata dal coro Antigone), anche se questa sincerità le porta all’auto-distruzione. Non si tratta di altruismo, tutt’altro: anche l’ego di Antigone e Cordelia è ipertrofico, la loro azione è inutile ai fini della salvezza degli altri, compreso l’oggetto primo del loro desiderio, il fratello e il padre per Antigone, il padre per Cordelia. L’eros di ambedue le figure è incestuoso perché incapace di rapportarsi a qualcuno che sia davvero diverso rispetto a se stesse.  In questo ambedue le figure sono vicine anche a Elettra e al suo attaccamento morboso al padre Agamennone. Antigone è uno specchio del padre e della sua ostinazione malata così come Cordelia lo è di Lear. Come Antigone, Cordelia viene trovata morta, impiccata nella prigione in cui è ingiustamente rinchiusa (ma si tratta della simulazione di un suicidio). Come Edipo e come Lear, Antigone e Cordelia appartengono inoltre a quella terra di mezzo, a quell’essere tra la vita e la morte che rende la loro esistenza un’aspettativa della morte, l’incarnazione del desiderio di essa (come Lacan ha scritto di Antigone).

 I legami familiari, proprio perché prima espressione dell’intersoggettività, non possono che essere al centro dei racconti e del dramma. La figura di Edgar che in Re Lear accompagna e guida il padre cieco ed esiliato, nonostante questo lo abbia ingiustamente costretto a fuggire e a fingersi pazzo, ha qualcosa anche dell’Antigone dell’Edipo a Colono. Edgar è inoltre figura metateatrale: inscena il suicidio del padre, al quale fa credere di essere sull’orlo di un precipizio, assecondando così la sua richiesta di voler morire da solo, richiesta analoga a quella di Edipo nell’Edipo a Colono. Ma Gloucester non vede, non sa che sotto di lui non c’è alcun precipizio e quindi la sua caduta non avrà conseguenze fatali: l’episodio certo sembra evocare la possibilità di una resurrezione o trasformazione del personaggio, e potrebbe essere addirittura ironico o allusivo nei confronti del finale dell’Edipo a Colono di Sofocle se fossimo sicuri che Shakespeare lo conoscesse. A parte questo possibile e indimostrabile riferimento, il personaggio Edgar esplica in Re Lear una funzione metateatrale, comportandosi come il regista della tragedia di Gloucester, parallela e analoga a quella di Lear, ma anche simulando la follia, nascondendosi cioè sotto i panni di un folle. Insieme alla figura tradizionale del Matto, che accompagna costantemente Lear, il nucleo della tragedia (intesa come genere letterario, non di questa tragedia) viene ‘messo in scena’ all’interno di un’opera.

 La preoccupazione per la lealtà e la fedeltà della stirpe caratterizza i racconti del mondo occidentale a partire dall’Iliade ed è un tema tragico per antonomasia: le vicende mitologiche alla base delle tragedie greche sono tutte interne a una stirpe, sono claustrofobiche perché isolano la famiglia da qualsiasi tessuto sociale.  La maledizione della stirpe si trova ad esempio nell’Edipo a Colono, nelle violente parole di Edipo contro i due figli maschi, e così nel Lear, quando il re si accorge della cattiveria delle due figlie, che gli hanno chiuso le porte delle loro case e lo hanno costretto a vagare in una tremenda notte di tempesta. Anche Edipo, mendico e cieco, è stato cacciato da Tebe dai due figli maschi che vogliono contendersi il trono. Maledire la propria discendenza è considerato dai Greci un atto di imperdonabile hybris. Non vi sono giustificazioni alla maledizione, che appare così un ulteriore sintomo di un io instabile o destabilizzato, che parte da una situazione di esagerata confidenza nelle proprie capacità intellettuali (la risoluzione dell’enigma della Sfinge per Edipo, la divisione del potere per Lear che implica saper giudicare le figlie) e approda a un’ineluttabile degenerazione dovuta alla perdita di sé.

Il conflitto poi origina il racconto e il dramma, sin dall’Iliade. Il conflitto tra fratelli, uno buono, l’altro cattivo, è una costante narrativa da sempre, ma nella tragedia greca il conflitto più celebre sembra essere quello tra Eteocle e Polinice, adombrato nel Re Lear dalla contrapposizione tra i mariti di Goneril e Regan, ma anche, naturalmente, tra Edgar e Edmund. A parte, la figura del leale Kent potrebbe ricordare il ruolo equilibrante – ma infruttuoso – svolto da Emone nell’Antigone.  

  Non solo Edipo, nella tragedia greca, perde consapevolezza di sé, segue un percorso per cui diventa un altro rispetto a chi ha sempre creduto di essere. Per i ‘folli’ della tragedia il tempo si spezza, come per i malati di Alzheimer o di un’altra malattia degenerativa, in un ‘prima’ e in un ‘dopo’. Accade al già ricordato Aiace, ad esempio, ma soprattutto a Oreste dopo il matricidio. Ancora più vicina a quella di Lear è la follia del potente, la cui dissoluzione cognitiva comincia con l’ambizione di farsi misura di ogni norma morale, e trova esempi nel Serse dei Persiani di Eschilo, nell’Agamennone dell’Orestea, nel Creonte dell’Antigone, oltre che in Edipo: lo studio di questo particolare tipo di follia si ha nel Re Lear in Edmund, la cui brama di potere non conosce freni. Eppure anche lui, alla fine, è distrutto, e anche lui tardivamente cerca in qualche maniera di rimediare ad almeno una delle sue malvagità, ordinando di liberare Cordelia e Lear che aveva fatto imprigionare, ma trovando l’una già morta suicida: il ‘troppo tardi’ è un tema tragico greco. Anche nell’Antigone  Creonte vorrebbe rimediare al danno commesso, seppellire Polinice e liberare Antigone dalla prigione, ma arriva troppo tardi. E così Edmund, nell’unico atto vagamente altruistico del suo agire, ordina di liberare Cordelia, che però si è già tolta la vita. Lear rientra in scena reggendo sulle braccia, come in una pietà, il cadavere della figlia, in questo straordinariamente simile a Creonte che nell’Antigone rientra in scena reggendo tra le braccia il figlio Emone. La scena prelude alla catastrofe, perché Lear muore sul cadavere di Cordelia.

Possiamo dare una sintesi delle nostre considerazioni: un nucleo della tragedia, forse il nucleo essenziale e originario del genere, è la rappresentazione di una malattia che prende corpo e mente. Non c’è tragedia senza quella che solo genericamente possiamo definire ‘follia’, parola che indica complessivamente un processo molteplice, come attesta la pratica clinica, di frantumazione e perdita dell’‘io’. La tragedia greca rappresenta questo processo in vari personaggi, tra cui Edipo, mostrando come un apparente percorso di riconoscimento e di conoscenza sia invece una strada senza via d’uscita verso lo spezzarsi della consapevolezza di sé. Edipo è malato: non ricorda chi è stato. Quando questo ricordo è sollecitato, si acceca. Così come l’omicida di un racconto di Oliver Sacks in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello vive in una inconsapevole tranquillità, sino a che un fatto esterno non scatena il ricordo e quindi la reazione violenta e autolesionista alla sua azione criminale commessa in passato e rimossa.

L’eroe tragico è un uomo che ad un certo punto della sua esistenza diviene altro da quello che era prima; come ogni malato incurabile, il suo tempo è scandito da un ‘prima’ e da un ‘dopo’;  e quanto più la sua condizione di partenza è quella del potente e del privilegiato, tanto più questo processo è doloroso: la tragedia è il racconto di questa malattia, e perciò sia Re Lear che l’Edipo Re possono essere considerate tragedie esemplari. Accanto al disfacimento fisico e mentale, che sono aspetti congiunti e non separabili, la tragedia registra le reazioni emotive degli altri, le dinamiche dell’atmosfera sentimentale del nucleo familiare, che è il microcosmo relazionale del genere tragico. Da qui gli intrecci tra i caratteri e le azioni del Re Lear e quelli della tragedia greca, in particolare delle tragedie sofoclee del ciclo tebano. Ne consegue che la tragedia, come ogni espressione dell’arte umana, è un ripercorrere l’esperienza dell’uomo, una drammatizzazione della sua fragilità rispetto alla malattia, ma anche delle conseguenze del suo rifiuto patologico di un rapporto altruistico con il mondo, del suo rinchiudersi nei limiti del proprio ‘io’.

Per riflettere su tutto questo, la messa in scena del Re Lear per la regia di Bruni/Frongia è semplicemente perfetta. Perfetta la traduzione, di cui si dà conto con intelligenza e sensibilità nel libretto di sala, perfetto Elio De Capitani nella parte di Lear, perfetti gli altri interpreti, perfetta la scenografia che riesce a rendere l’atmosfera di obnubilamento, ossessione e delirio dei caratteri messi in scena, perfette le musiche, le luci, i costumi.

Una serata di grande teatro, ma soprattutto  una serata di riflessione sulla natura della tragedia e sul bisogno che abbiamo di andare a teatro per ritrovarvi riflessi delle nostre paure e per provare anche compassione e pietà per noi stessi, proprio in quanto esseri umani. La morte non rientra nell'esperienza umana ma la vita sì, giorno per giorno. 

RE LEAR
di William Shakespeare
traduzione Ferdinando Bruni
uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia

Elio De Capitani LEAR
Umberto Terruso KENT / MESSAGGERO
Giancarlo Previati GLOUCESTER
Mauro Bernardi EDGAR / BORGOGNA
Simone Tudda EDMUND
Elena Ghiaurov GONERIL
Elena Russo Arman REGAN
Viola Marietti CORDELIA / VECCHIA
Giuseppe Lanino / ALBANY
Alessandro Quattro CORNWALL / CAPITANO
Mauro Lamantia MATTO
Nicola Stravalaci OSWALD / FRANCIA

luci di Michele Ceglia
suono di Gianfranco Turco
movimenti coreografici Stefania Ballone
pittura scene Ferdinando Bruni

assistente regia Alessandro Frigerio, Fabrizio Gallo (tirocinante)
assistente scene Marina Conti
assistente costumi Elena Rossi

capo macchinista Giancarlo Centola
macchinisti Gianluigi Guarino, Tommaso Serra

Laboratorio scene Marina Conti, Giancarlo Centola, Tommaso Serra
Sara Gaggi, Daria Gislon (tirocinanti pittori scenografi)
Laboratorio costumi Ortensia Mazzei, Elena Rossi
Elisa Riccio, Alessia Rigassio, Luciano Cappiello (tirocinanti realizzatori)
Le uniformi sono state fornite da Sartoria Nori s.n.c.di Nori Marco e C.

foto Laila Pozzo
grafica Plumdesign

coproduzione Teatro dell’Elfo - Teatro Stabile dell’Umbria

 

Bibliografia:

John Bayley,  Iris: A Memoir of Iris Murdoch. London 1998.

Silvia Bigliazzi (ed. by), Oedipus at Colonus and King Lear: Classical and Early Modern Intersections, Skenè Studies I • 2, 2019, open-access qui: Oedipus at Colonus and King Lear: Classical and Early Modern Intersections | Skenè. Texts and Studies

Antonio D’Amasio, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, trad. italiana, Milano 2012.

Lisa Diedrich, Treatments. Language, Politics, and the Culture of Illness, Minneapolis London 2007.

Gregor Etzelmüller, Thomas Fuchs, Christian Tewes (Hrsg.), Verkörperung – Eine neue interdisziplinäre Anthropologie, Berlin/Boston 2017.

David Lucking, Lear and the learned Theban,  Lingue e Linguaggi Lingue Linguaggi 11 (2014), 123-141, http://siba-ese.unisalento.it

Iris Murdoch, Metaphysics as a Guide to Morals, London and New York 1992.

Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, trad. italiana Milano 1985.