Cara Antigone,
il tuo nome in greco significa ‘nata contro’, contro chi o cosa non sappiamo, oppure ‘nata al posto di qualcun altro’. Nata al posto di un maschio, forse? O nata al posto di una donna diversa da te? Sono solo alcune delle domande che ci lasci.
Eppure il tuo nome, per quanto oscuro, risuona nella nostra mente ogni volta che si parla di contrapposizione e disubbidienza. Ti immaginiamo come a una giovane donna anti-sistema, anti-capitalista, anti-conformista, anti-fascista, anti-violenza, come una contestataria della rivoluzione studentesca, come un’attivista ecologista. Ma tu, Antigone, agisci anche contro te stessa: nella tragedia di Sofocle ti uccidi, impiccandoti con un filo sottile, nella prigione di pietra dove ti avevano rinchiuso in attesa – senza sole, senza cibo – della morte.
Il tuo nome può suonare anche brutale, perché la seconda parte contiene la radice del verbo che significa ‘nascere, generare’. Sei dunque ‘contro la nascita’, sei forse contro la vita? Come tutti i martiri, coloro che si uccidono o vengono uccisi per un motivo ingiusto, non conosci il dubbio. La tua è un’ostinazione di ferro: agisci, sapendo di dover morire per quell’azione che vuoi compiere. Ma non esiti, non hai paura. Negli ultimi venti anni, il tuo nome ricorre spesso per analogia alla caparbietà mortale e all’ottusità delle giovani terroriste islamiche o palestinesi. Le donne terroriste nei paesi di cultura araba hanno una storia recente, possiamo persino indicare una data, il 20 marzo 2002, quando in un supermercato di Gerusalemme si lasciò esplodere Ayat Al- Alkhras, 18 anni, che veniva da un vicino campo profughi palestinese. Era la seconda Shahida, parola araba che indica una donna che si lascia esplodere, e lasciò un messaggio audio-visivo prima di morire, si può vedere su TikTok. Nel video Ayat è sola, non ci sono segni religiosi, né bandiere, solo una tenda bianca dietro di lei, su cui si staglia la sua figura vestita di nero, in piedi, con in mano dei fogli da cui legge un messaggio: per qualche istante la cinepresa zooma sul viso, sulle ciglia e le pupille nerissime. La voce della donna è decisa, mentre legge accenna persino, con un braccio, dei gesti teatrali. Il comunicato è incisivo, lucido, dettagliato: sono una Shahida, dice Ayrat, compirò un atto in nome di Dio onnipotente, in risposta alle grida delle vittime, dei martiri, in risposta al sangue che è stato versato, per le madri in lutto e per gli orfani, per tutti gli oppressi e i poveri sulla faccia della terra, rispondendo al richiamo della sacra Moschea. Dico ai leader del mondo arabo di smettere di comportarsi in maniera così umiliante e vergognosa, di rispettare i loro obblighi verso la Palestina. Guardano le figlie della Palestina che combattono, e restano a guardare. Voglio che il mio grido venga udito e rispettato da ogni arabo e mussulmano che dovrebbe avere vergogna di sé stesso: Al-Aqsa, Al-Aqsa, Palestina, Palestina. Dio è grande. Dio è più grande di tutti i tiranni del mondo.
Il discorso di Ayat non è il delirio di una mente malata e plagiata. Ha qualcosa di universale, non si nomina nemmeno gli Israeliani che hanno occupato la sua terra, la Palestina, da cui lei proveniva. Ayat dà voce a tutti gli oppressi sulla faccia della terra, chiede aiuto in nome di tutte le donne che vengono violentate nelle guerre, che restano vedove, parla in nome degli indifesi, dei deboli, degli orfani. Il suo non è un messaggio di vendetta nei confronti degli occupanti, ma un grido di dolore. Ayrat era una giovane donna che voleva parlare a nome delle donne, in una cultura in cui le donne sono costrette al silenzio, rivolgendosi ai maschi arabi che sopportano una vergogna così grande. La vergogna: questo sembra guidare il gesto suicida di Ayat Al-Akhras, un criterio morale, dunque, che la porta a compiere un’azione da maschio: lei vuole combattere contro l’ingiustizia subita dal suo paese, e poiché non c’è esercito che la accolga, nella sua solitudine da giovane donna, rende il suo corpo un’arma, si fa esplodere. Quell’attentato fece molto scalpore perché era la seconda volta che una donna, per giunta alla vigilia delle nozze, compiva un’azione da maschio, ma anche perché, per un crudele gioco del destino, nel momento in cui esplodeva vicino a lei, in quel supermercato, c’era una sua coetanea israeliana. Quando scoprirono i corpi, per la loro somiglianza, si pensò che si trattasse di due sorelle.
Forse anche per questo, Ayat, che per i Palestinesi è una ‘martire’, fu subito paragonata a te, Antigone.
Ma cosa aveva a che vedere con te quell’infelice ragazza palestinese, che per rabbia e vergogna si fece esplodere? Mi vengono le vertigini, Antigone, a considerare quanti volti ti sono stati dati: ma tu sei anche contro ogni tentativo di vederti in una sola maniera, di darti un solo significato. Tu sei l’Antigone unica e insieme le infinite Antigoni. Durante il nazismo, la tragedia di Sofocle che porta il tuo nome fu rappresentata nei teatri di Berlino sino a che non furono alle porte i sovietici: e nessuno dei gerarchi nazisti e delle SS vide in te una resistente al potere di Hitler. Nella Parigi occupata, l’Antigone contemporanea di Jean Anouilh fu applaudita sia dai nazisti e sia dai membri della resistenza francese che si nascondevano in sala tramando attentati contro i nemici. Quando Bertolt Brecht, il più celebre drammaturgo tedesco del XX secolo, dopo dodici anni di esilio in America, tornò in Europa alla fine del regime nazista, mise in scena una strana Antigone, un’Antigone colpevole di aver condiviso con il potere la responsabilità della guerra, una ricca, viziata, figlia di una famiglia di industriali che aveva voluto la guerra per guadagnarci. È sempre una questione di soldi, pensava il marxista Bertolt Brecht. E di sfruttamento. Ma l’Antigone del mito era una principessa, apparteneva alla stipe dei padroni e dei potenti.
Ma fra tante chi sei, allora, Antigone?
Della tragedia di Sofocle, ci resta la disperazione della tua volontà: perché tu vuoi, disperatamente vuoi, seppellire suo fratello, non vuoi che il suo corpo resti a putrefare fuori dalle mura della città, non vuoi che divenga pasto per i cani e per gli uccelli. Sarebbe per te una vergogna: ci colpisce il ricorrere di questa emozione nel racconto di te che ci ha lasciato Sofocle e nell’ultimo messaggio della terrorista palestinese Ayrat. Tutte e due volete evitare la vergogna, perché davanti alle ingiustizie bisogna sempre vergognarsi: e noi, Antigone, abbiamo perso il senso della vergogna, guardiamo cose vergognose, bambini uccisi o mutilati dai bombardamenti, donne violentate, soldati insepolti, palazzi sventrati, famiglie sterminate dai padri e dai figli in condomini borghesi, madri che uccidono i loro bambini, guardiamo tutto ciò e non proviamo vergogna, quella vergogna per cui tu, Antigone, hai dato la vita e anche – a torto o a ragione - Ayrat e altri come lei. Non si tratta di stabilire se hai torto o ragione, Antigone, ma di capire perché hai agito.
Perché il tuo gesto, Antigone, è anche un’accusa contro di noi, che restiamo inerti, indifferenti, come i cittadini di Tebe davanti alla tua condanna. Eppure tu, da sola, semplicemente urlando come un uccello ferito e spargendo polvere sul corpo del fratello, sei riuscita a far crollare una città, a far tremare tutta la comunità, a rovesciare l’ordine costituito, a distruggere il potere di quel re che aveva imposto la legge di non seppellire il fratello, quella legge che – tu lo dici – non rispetta gli dei e la giustizia, Dike. ‘In nome di tutti gli oppressi e i poveri sulla faccia della terra’ – afferma la terrorista palestinese nel suo messaggio, ‘in nome della giustizia dei morti’- dici tu, Antigone: tutte e due rinviate a un mondo diverso da questo, un altro mondo, dove regni la giustizia, dove non ci siano donne in lutto per la guerra e orfani senza speranza. In nome di qualcos’altro, quel qualcos’altro che noi cerchiamo in direzioni diverse quando finalmente smettiamo di stare solo a guardare il dolore degli altri.
Ma davvero, cara Antigone, puoi essere paragonata ad una terrorista? Lo è stato fatto a proposito di Ayat Al-Akras, e da allora, negli ultimi vent’anni, tante altre volte, io ne ho parlato con molti esempi in un libro che si intitola proprio Antigone nell’età del terrorismo. Ma era stato fatto anche prima, nel secolo scorso, in quegli anni di stragi che ricordiamo come ‘anni di piombo’, paragonandoti a quelle ragazze di buona famiglia e ben educate che impugnarono le armi e misero bombe, uccidendo innocenti: era la loro guerra contro il sistema, contro il capitalismo, contro lo Stato, contro l’ipocrisia perbenista, contro quel che restava allora – erano gli anni ’70 del Novecento – del fascismo e del nazismo. Ma tu, Antigone, nella tragedia di Sofocle, non rappresenti nessuno se non te stessa: risplendi anzi nella tua solitudine, che usi come arma anche contro chi ti ama. Tua sorella Ismene vorrebbe morire con te, e tu la rifiuti, la condanni alla sopravvivenza di chi non ha più ragioni di vivere nella sua prigione di rimpianti; Emone, il tuo fidanzato, si uccide abbracciando te che ti sei impiccata, per dimostrarti ancora il tuo amore. Ma la città ti lascia sola, non ti capisce, ti accusa di orgoglio, di superbia, di non aver voluto rispettare il tuo ruolo di donna, vergine, promessa sposa; non hai voluto essere inferiore ai maschi, come ti chiedeva la tua cultura; non hai voluto restare in silenzio, non hai voluto camminare sempre un passo indietro all’uomo – come mi diceva mia nonna.
Diventi odiosa, Antigone, nella tua ostinazione. Sei una pazza, lo dice persino Ismene, che ti ama, una pazza da quando sei nata, rincara Creonte, solo che: cosa vuol dire essere ‘pazza’? Chi sono i pazzi? E soprattutto: chi è che ti ha giudicato e definito pazza? Tu, Antigone, sei pazza come tante altre donne, quelle donne che hanno osato entrare nella logica del potere e del dominio e metterla in discussione. Essere donna, diceva Hegel nella sua celebre interpretazione della tragedia di Sofocle, significa appartenere alla sfera della famiglia, che è inconciliabile con quella dello Stato, la sfera dei maschi. Per altri, essere donna significa essere pazza: alla fine dell’‘800 in un ospedale francese dove si studiava la pazzia, l’isteria fu designata come una malattia mentale della donna e si misero in scena veri e propri spettacoli con le isteriche a beneficio di un pubblico esclusivamente maschile. Così nei nostri paesi si assisteva alle danze scomposte delle tarantolate, una forma solo femminile di follia, perché ogni donna che supera i limiti imposti dalla società, dal senso comune del decoro e del pudore, ogni donna che ‘vuole cose impossibili’, ogni donna che ha il cuore che arde per il ghiaccio, come Antigone, è pazza. Nella tragedia greca la pazzia individuale, quella che disturba sostanzialmente l’ordine comunitario, che costituisce una trasgressione eccessiva di tutte le regole sociali, è femminile: come Antigone, anche Medea, Clitemnestra, Fedra sono ‘pazze’.
E cos’altro ci si poteva aspettare da te, Antigone? Hai un passato traumatico. Sei figlia di tuo fratello, tua madre è anche tua nonna, tua sorella è anche tua nipote e tua zia, ami tuo fratello morto di un amore eccessivo, vuoi giacere accanto a lui nella tomba. Esageri sempre. Bertolt Brecht, subito dopo la guerra, ti ha messo in scena mentre porti sulle spalle un fardello pesante, una cassa da morto che non si sa cosa contenga, o una porta, che non si sa dove porti, curva sotto quel peso che devi sostenere, di cui vuoi liberarti, un peso che ti abbiamo imposto noi, attraverso i secoli: il peso di essere la più luminosa delle creature e la più oscura, colei che celebra l’amore in maniera estrema votandosi alla morte, una santa da una parte e persino una criminale, una terrorista, un’egoista – è stato scritto, che pensa solo alla propria famiglia e in fondo solo a sé stessa. Porti sulle spalle il peso di tutto quel che non sappiamo, delle decisioni che non vogliamo prendere, delle parole che non osiamo dire e anche di quelle che non abbiamo il coraggio di ascoltare. Tu, la ribelle e la più devota delle donne. Sei un paradosso vivente.
Sai cosa ci disturba, oltre al gelo del tuo cuore, all’intransigenza, all’incapacità di comprendere le ragioni di Ismene, quelle di Emone, quelle della povera Euridice, che si uccide in silenzio? Ci disturba che non ci parli, che non dici mai con chiarezza perché lo hai fatto, perché hai voluto seppellire tuo fratello se poi, con una sfacciataggine scandalosa, dici anche: ‘se mi fosse morto un marito non l’avrei fatto, me ne sarei trovato un altro; e se mi fosse morto un figlio, ne avrei partorito un altro; ma un fratello no, i miei genitori sono morti, non mi può nascere un altro fratello’, come se i morti non si equivalessero tutti, come se un legame fosse superiore ad altri, come se la possibilità di avere un altro figlio possa sostituire un figlio morto, quasi che un morto fosse un oggetto usato, se lo puoi ricomprare meglio così. E poi ancora dici ‘mi è morto un fratello, non uno schiavo’, perché tu accetti in tutto e per tutto i rapporti di dominio in cui si riconosce il pubblico dell’Atene del V secolo, non sei una rivoluzionaria, non parli a nome di ‘tutti gli oppressi e gli infelici della terra’, a nome di tutte le vittime. No, parli solo a nome della tua disgraziata e incestuosa famiglia. Lì ci sono le radici della tua vergogna, lì la tua macchia, lì il tuo principio ma anche la fine. Valeva proprio la pena rischiare la vita per seppellire tuo fratello?
Valeva proprio la pena di essere condannata a un supplizio atroce per una vergogna così parziale, il cadavere di un nemico, di un maledetto dal suo stesso padre: che marcisca pure, dissero gli altri. Ricorda cosa è accaduto a Piazzale Loreto, cosa a Bill Laden e cosa a Gheddafi. Solo per dare qualche esempio. No, Antigone non ingannarci: tu non sei morta per delle idee, non hai nulla a che fare con le donne che resistettero ad Hitler, con le partigiane, con chi ha combattuto ogni regime ingiusto, tu hai compiuto un gesto che soddisfava te sola e la tua privata ansia di giustizia. Sei malata. Perché ami tanto morbosamente quel fratello? E anche Sofocle non sembra provare alcuna vera pietà o comprensione per te, una ragazza insensata che porta all’esasperazione, con una dialettica da maschio la sorella, il re, i cittadini.
Perché? Antigone, perché? – chiediamo, eppure la risposta è in un verso che ti ha voluto donare Sofocle, un verso che ogni attore certamente trema prima di pronunciare. Possiamo tradurlo: ‘sono nata per condividere amore e non odio’. Questa frase costituisce il tuo nocciolo, il tuo cuore, Antigone: ti possiamo vilipendere o ammirare, considerarti una sventata irrazionale o un’impulsiva autolesionista, ma questo verso, Antigone, non possiamo proprio ignorarlo: sono nata per condividere amore e non odio.
Questa è la tua regola istintiva e si pone agli antipodi di tutto ciò che ispira l’agire del personaggio Creonte, i cui difensori sono ciechi come coloro che producono armi e poi si dichiarano contro la guerra.
Creonte vive con l’odio che lo circonda come nebbia impalpabile, respira l’odio di chi non lo vuole al potere, eredita l’odio e la violenza su cui è costruito ogni regno, esercita l’odio persino su un cadavere, pur di diffondere nella città la paura, il terrore che impedisce di parlare. Creonte è un tiranno, un violento, qualcuno ha detto un capo mafioso, certo ai nostri occhi appare un volgare e pericoloso maschilista, un cattivo padre che vuole plagiare il figlio già adulto, che disprezza i suoi concittadini e il sacerdote. E d’altro canto, come tutti gli uomini che credono di avere tutto il potere nelle loro mani, Creonte è fragile, vulnerabile, angosciato, lui sì isterico in senso clinico, al punto da spingere la sua irritazione per la nipote a condannarla ad essere murata viva, a morire nel supplizio fisico, in una notte eterna, a pensare e ripensare alla gravità di quel che ha fatto contro di lui, il capo, il boss, chi comanda. Se la pazzia è eccesso, anche Creonte è pazzo, glielo dici senza alcun timore anche tu, Antigone. Ma la pazzia di Creonte è la smisuratezza del potere, quella che spinge alcuni capi politici, in questi nostri giorni oscuri, a lanciare minacce apocalittiche a inseguire ancora e ancora una Vittoria senza ali, che si posa sui crani dei morti e sulle teste dei vivi e rende di pietra il cuore degli uomini. Creonte è ‘di quelli che per stare in alto devono gettarsi gli altri quanto più sotto è possibile, anche sottoterra, nel caso che si ribellino’. Gliel’hai detto tu, Antigone. La tua pazzia, Antigone, è di segno opposto, estrema e smisurata anch’essa, è la pazzia dell’amore condiviso.
L’amore, dunque, l’amore: che tu, Antigone, vuoi sentire attorno a te, avvolgerti come in un abbraccio, percorrerti il corpo in un brivido di felicità, quella felicità negata all’odio, al risentimento, allo sguardo torvo di chi dubita. L’amore, questa è la tua legge, Antigone, un amore disturbante come ogni amore che si impone su tutto e ogni cosa vince, un amore che non è o non è solo tra padre e figlio, tra amanti, tra fratelli, che sono tutte specie parziali di amore, riflessi di un amore più grande e diverso, un amore che non ha principio e fine. In un testo prezioso, in cui la filosofa spagnola Maria Zambrano immagina Antigone che pensa chiusa nell’oscurità della tomba, Polinice, tornato chissà da dove, incontra la sorella e le promette: noi fonderemo, in una terra che nessuno ha mai visto, la città dei fratelli, la città nuova, in cui non ci saranno né figli né padri.(…) Io, di questa terra, ho sempre saputo. Non l’ho sognata, ci sono stato (…) In essa non esiste sacrificio e l’amore, sorella, non è accerchiato dalla morte. L’amore, lì, non c’è bisogno di farlo, perché si vive in esso. Non c’è altro che amore’.
Ecco, questa è la tua follia, Antigone, essere nata per condividere amore, per stare nell’amore, in un amore che è terra promessa, un amore dove non esistono gerarchie d’affetti, questa è la tua follia, aver cercato di avvicinarsi a quest’atmosfera di amore, noi che siamo – come Creonte – intrisi d’odio e abbiamo bisogno di leggi scritte che ci dicano quel che dobbiamo e quel che non dobbiamo fare.
Questa è la tua follia, Antigone, il muoverti instancabile, come spola di telaio, per tessere una tela che va dai vivi ai morti, da ‘quella legge dell’amore che tu sola conosci a quella del terrore cui tutti, guarda, sappilo, si attengono’. Questa è la tua sfida ed è questo che ti rende così irraggiungibile, così lontana, perché noi non ce la facciamo a seguirti nei tuoi esili, nel tuo incrollabile ‘no’, nel tuo cercare, esigere, chiedere amore, amore e solo amore.
Cara Antigone,
probabilmente malgrado lo stesso Sofocle, malgrado tutti coloro che sul tuo nome hanno proiettato le loro aspettative e le loro esperienze, malgrado i secoli che sono ormai rughe sul tuo immaginario volto da quasi-bambina, ci sarai sempre, non solo ogni volta che ci sarà un tiranno da combattere, un’ingiustizia da avversare, un morto da seppellire, una sorella da abbracciare; ci sarai ogni volta che, disorientati, cercheremo la terra promessa dell’amore.
E allora ci tenderai, di nuovo, la mano.