Dalle prime pagine è già scomparsa la notizia, di appena una settimana fa, delle proteste di piazza, in Georgia, contro l’adozione da parte del governo di leggi considerate filo-russe.
Si tratta, in realtà, di uno scontro interno alla società georgiana che dura da 12 anni, ora esacerbato dalla guerra in Ucraina. Per semplificare al massimo, i disordini, degenerati da ultimo in scontri con la polizia davanti al Parlamento, testimoniano di una pericolosa e incolmabile spaccatura nel paese tra coloro che aspirano all’ingresso nell’Unione Europea, anche traendo profitto dai forti finanziamenti statunitensi e europei, e una linea sovranista e indipendentista, espressa dal governo del ‘Sogno georgiano’, di orientamento filo-russo.
Cosa c’entra in questa storia Medea? Il mito greco serve anche a raccontare la società dilaniata della Georgia e il nuovo infiammarsi della situazione nella repubblica caucasica, in conseguenza della guerra in Ucraina. La Georgia è infatti anche il paese da cui, nel racconto mitologico, viene Medea. Come è noto, nella ricezione occidentale del mito, la figlia del re della Colchide è considerata la straniera che, innamorata follemente del greco Giasone, gli procura il vello d'oro, tradisce la sua patria (e la sua famiglia) e uccide persino il proprio fratello per seguire finalmente Giasone in Grecia. Tutti conoscono come va terribilmente a finire la storia e la vendetta di Medea sui figli avuti da Giasone, dopo che questi l’ha abbandonata e tradita. Medea, la terribile madre infanticida, nelle narrazioni occidentali rappresenta dunque la ‘barbara’ non integrata né integrabile nella società greca, la vittima del patriarcato, dell’espansionismo, della colonizzazione capitalistica occidentale. Questi sono i contenuti della ricezione del mito greco nel XX secolo, soprattutto a partire dall’influente romanzo di Christa Wolf, Medea. Voci, scritto dopo la caduta del muro di Berlino (1996). Un testo, tra l’altro, non sempre correttamente compreso e che anima le scene italiane forse più della tragedia di Euripide.
Torniamo alla Georgia, dove Medea è una figura simbolica, che significa il legame del Paese post-sovietico con la cultura occidentale e con le sue radici antiche. La Colchide si trova infatti sulla costa georgiana del Mar Nero: così uno slogan utilizzato per promuovere il turismo georgiano può magnificare ‘la terra del Vello d’oro’ e così un'importante marca di birra, prodotta dopo la proclamazione dell’indipendenza, può chiamarsi "Argo", cioè come la nave su cui Giasone, nel mito, giunge in Colchide insieme ai suoi uomini, gli Argonauti. Nella città portuale georgiana di Batumi, sul Mar Nero, è stato persino eretto nel 2007 un monumento a Medea (immagine sotto), da alcuni considerato un gigantesco orrore nazionalista, dato che Batumi non si trova nemmeno sul sito dell'antica Colchide. Chi si occupa del mito di Medea in Georgia, dunque, deve cercare di salvarlo non solo dalle interpretazioni occidentali, ma anche dalle appropriazioni da parte dei nazionalisti georgiani.
A questi temi si riallaccia il drammaturgo e regista Paata Tsikolia (nato nel 1976) con Medea s01e06 - A Play for Three Actors and a Silent Chorus, in scena come spettacolo ospite al Deutsches Theater di Berlino nell’ambito del festival ‘Radar-Ost’, prodotto dall’innovativo Royal District Theatre di Tbilisi (qui tutte le informazioni). La pièce vuole suggerire una visione del mito alternativa, sia a quella nazionalista georgiana sia a quella occidentale, ma non offre una narrazione coerente e conclusa. Si tratta piuttosto della rappresentazione di frammenti del mito, di schegge di una vicenda che sta prima del mito greco, affidata più che alla parola dei tre attori in scena alle coreografie dei quattro danzatori ‘muti’.
Il titolo significa infatti: Medea, stagione prima, episodio 6, e richiama, naturalmente, le serie televisive. Solo che l’episodio messo in scena, il sesto appunto, inizia 40 anni dopo il precedente, il quinto della serie, che lo spettatore non può conoscere (e che non è mai stato ‘trasmesso’). Per chi assiste allo spettacolo, dunque, mancano le premesse narrative, ma è proprio quest’effetto frammentario che viene perseguito dal drammaturgo, come dicevamo, che d’altro canto vuole così dimostrare come non esista mai un mito o una narrazione di esso, ma infinite variazioni della stessa vicenda, considerate da diversi punti di vista. La ricostruzione del contesto e l’attribuzione di significato sono dunque lasciati al pubblico, che si trova ad ascoltare e vedere una storia di cui conosce solo il nome del personaggio principale, Medea.
Il palco è buio, spoglio; lo spettatore si immerge in un atmosfera emotiva minacciosa e arcaica, grazie soprattutto alla colonna sonora minimalista della compositrice georgiana Tamar Putkaradze. Sono undici scene, che progressivamente si focalizzano su ciò che è accaduto in Colchide prima dell’arrivo di Giasone, volendo offrire uno scavo sinora inedito della vicenda. La linea narrativa avanza dunque a ritroso e tra le differenti scene può esserci una distanza anche di decenni che, come nelle serie televisive, viene colmata dalla proiezione di didascalie in scena prima dell’inizio di ogni nuovo ‘quadro’. Ma ai cambiamenti cronologici della narrazione si oppone il tempo teatrale sempre identico a se stesso, in cui cioè gli attori non subiscono alcun cambiamento e in cui agisce soprattutto il coro ‘muto’, che racconta le differenti ‘verità’ del mito, in una specie di caleidoscopio di immagini. Si ottiene così una pièce che è insieme narrazione che scava nel tempo e narrazione simbolica di situazioni astratte e universali.
Questa Medea non è quella del mito greco, o meglio non è una vergine accecata dalla passione, ma l’erede al trono che vuole il potere e che perciò combatte aspramente con il padre e con il fratello Absirto. Non ha mai lasciato la sua patria, perché il suo scopo non è certo il matrimonio con Giasone, ma distruggere la famiglia di suo padre e la cultura della Colchide.
Dei, allontanate da me ogni dolore.
Ho sofferto abbastanza.
Sono Medea, l’assassina senza cuore.
Sono quella che non si dà per vinta,
Non mi lascerò spezzare.
Adesso mi conoscete, dei!
Sono Medea, la principessa della Colchide.
La prima mondiale di questa decostruzione del mito di Medea di Tsikolia ebbe luogo all'inizio di settembre 2020, nell'ambito del 6° Festival internazionale dei teatri regionali di Poti, in una rappresentazione all’aperto, causa pandemia, sulla spiaggia di Maltakva, che porta le tracce del passato sovietico, quando era una stazione balneare per gli oligarchi. Al festival di Poti, il luogo si adattava perfettamente al tema: la foce del fiume Rioni, che qui raggiunge il Mar Nero, è il luogo in cui, secondo il mito, la nave Argo di Giasone sbarcò in Colchide e poi ripartì per la Grecia con Medea e il vello d'oro. In quell’ambientazione, la scena finale lasciava adito a dubbi e a incubi: Medea smembra il fratello ucciso e lo getta in mare mentre Giasone e gli Argonauti dormono; Medea distrugge e uccide per egoismo e sete di potere, ma è anche la Medea che, disprezzando la propria origine, si orienta verso la Grecia, verso l’Occidente, e perciò non può essere vista come una figura positiva o identitaria della Georgia. Da che parte sta, dunque, Medea? Dalla parte dei ‘colonizzatori’ occidentali? Dalla parte dei nazionalisti? Chi ha torto e chi ha ragione in questo acerbo dissidio sociale e storico?
A Berlino, in un contesto ormai unanimemente anti-putiniano, la messa in scena si è conclusa con la bandiera europea tra la bandiera georgiana e quella ucraina, con sullo sfondo una foto delle attuali proteste a Tbilisi contro le leggi, volute dal governo, di orientamento filo-russo. Un’immagine emblematica di come la tragedia greca entri spesso di diritto nelle questioni politiche e sociali più scottanti del nostro tempo e come riesca a comunicare, a seconda dei luoghi e delle occasioni, messaggi ambigui, se non addirittura contrastanti.