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A distanza di due anni dall’ultima rappresentazione (la Lisistrata per la regia di Tullio Solenghi, luglio 2019), il Teatro greco di Siracusa riapre i battenti per la 56esima stagione. Ci sono molte limitazioni – capienza della cavea ridotta al 50%, obbligo di mascherina, distanziamento sugli spalti più teorico che reale – ma l’importante è ricominciare.

E la macchina dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico si è rimessa rapidamente in moto ed è pronta a correre a pieno regime fino alla fine d’agosto. Si riparte, dunque, e per il nuovo inizio si propone la messinscena di due tragedie eschilee, Coefore ed Eumenidi, rispettivamente la seconda e terza parte dell’Orestea (l’Agamennone, prima parte della trilogia, sarà in cartellone nella stagione 2022).

            La scelta – va spiegato – non è affatto causale, ma intende richiamare un precedente storico: esattamente cento anni, nel 1921, l’INDA ripartì dopo la lunga pausa dovuta alla Grande Guerra e alla pandemia della ‘spagnola’, proprio con quei due drammi di Eschilo. Una mostra multimediale, visitabile nella sede dell’Istituto del Dramma Antico, illustra precisamente quella celebre messinscena, avvenuta con la direzione artistica di Ettore Romagnoli, le scene e i costumi di Duilio Cambellotti, le musiche e i cori di Giuseppe Mulè.

A vedere le immagini e le riprese dell’epoca si rimane esterrefatti dei cambiamenti: il pubblico affollava le gradinate in abito da sera, gli attori recitavano stando quasi immobili, l’italiano delle traduzioni era aulico e prolisso. Nel tragitto da Romagnoli a Livermore è cambiato il mondo. Oggi chi va a sedersi sui gradini di pietra del teatro, prima ancora che la recita cominci, resta colpito dall’affollamento di oggetti disposti sull’orchestra: un paio di pianoforti, una poltrona e un sofà, un tavolino con sopra una bottiglia di spumante e dei calici, un grammofono, i resti di un carro: si tratta del solito “archivio della memoria”, espediente scenico già utilizzato da Livermore per la precedente Elena del 2019. In quella messinscena gli oggetti galleggiavano in un’enorme piscina colma d’acqua. Qui appaiono ricoperti di neve, come a suggerire un paesaggio rimasto a lungo ibernato. Al centro, troneggia lo sferico cippo funebre della tomba di Agamennone. Sullo sfondo la porta della città di Argo, e accanto a questa una grande sfera tecnologica ruotante, simbolo forse della terra, o dell’universo, o di Zeus, a suggerire l’eternità del mito.

            Come si può capire, tutto l’arredo scenico è quello tipico delle regie di Davide Livermore, affermato regista d’opera lirica, da sempre teorico della contaminazione di generi e della sperimentazione più avveniristica. È chiaro che se si affida l’allestimento di una tragedia greca a Livermore, questa nelle sue mani diventa la tragedia di Livermore, con tutta la ricodificazione dei linguaggi e dei significati che ne consegue.

Del resto, è questa linea perseguita – a nostro avviso giustamente e saggiamente – dall’INDA negli ultimi anni: allestire spettacoli che conciliano la fedeltà filologica (qualunque cosa ciò significhi) con le istanze di attualizzazione della tragedia greca. E trattandosi di una regia di Livermore non può mancare quella che è la sua cifra stilistica essenziale, ovvero l’uso di immagini proiettate sullo sfondo che interagiscono con l’azione scenica. Qui le immagini sono quelle che si materializzano via via nella sfera girevole: immagini di mare, fuoco, terra, di sangue, di paesaggi aridi e nevosi, di fantasmi del passato che chiedono vendetta e incutono timore.

            Prima ancora che lo spettacolo inizi una voce registrata pronuncia versi in greco e in italiano, che si ficcano nella testa dello spettatore come un refrain. «Oltraggio chiama oltraggio», e altre sentenze del genere, a suggerire la notoria chiave di lettura della trilogia di Eschilo quale catena di vendette. Nella polis di Argo, rimasta immobile sotto la neve per anni, spadroneggiano soldati in uniforme e armati di fucili: sono le guardie di Clitemnestra ed Egisto, la “coppia tirannica” che ha usurpato il potere.

Oreste (Giuseppe Sartori) e Pilade (Spyros Chamilos), armati di rivoltella, riescono ad arrivare senza essere visti alla tomba di Agamennone: qui la trovata della regia – a dire il vero non molto convincente – consiste nel fare deporre sulla tomba del padre quale dono votivo non già un ricciolo biondo, come da tradizione mitica, bensì un proiettile dorato, simbolo di morte e d vendetta.

Il rituale delle coefore, le donne che versano libagioni, si compie sotto l’occhiuta e minacciosa vigilanza dei soldati di Egisto. Mentre depongono fiori sul sepolcro, si leva il canto funebre, con tonalità eccessivamente ‘gridate’ e rabbiose. Molto più riuscita la preghiera che Elettra (Anna Della Rosa) rivolge a Zeus, accompagnata da musiche sacre. Il coup de théâtre è l’apparizione dentro la sfera dell’effigie di Agamennone, una maschera sfigurata dalla sofferenza, un fantasma che reclama vendetta e giustizia per l’assassinio subito.

            Clitemnestra (Laura Marinoni) è una femme fatale, truccata e sexy, avvolta in un abito da sera tutto lustrini e paillettes. Scende da un’auto anni Cinquanta, si versa copiosamente da bere e, seduta sul divano (quasi fosse una paziente del Dr. Freud), racconta il sogno del serpente. Davanti alla madre Oreste perde gran parte della sua spavalderia pistolera: quando racconta la sua finta morte, spesso balbetta. Giuseppe Sartori è veramente bravo a dar vita a questo Oreste postmoderno, pieno di tic e frustrazioni, nevrotico e insicuro, debole e malato prima ancora che le Erinni lo assalgano.

Il matricidio si compie con una modalità che non sveliamo; basti dire che è Clitemnestra la prima a sparare sul figlio, ma la pistola fa cilecca. E dopo la morte della madre, Oreste non può trattenere le lacrime: la mescolanza dei generi, si diceva, è la cifra stilistica di Livermore, il quale passa dalla tragedia al melodramma in un batter di ciglia. Pilade, inoltre, qui è meno ‘muto’ di quanto risulta nel testo eschileo. È lui, del resto, che abbatte a colpi di revolver Egisto (Stefano Santospago), raffigurato come un boss malavitoso, un macho predatore che si accompagna con un’amante seminuda di cui si sbarazza con una raffica, che palpeggia senza ritegno le donne della reggia.

            Le Erinni sono solo tre, vestite contro ogni aspettativa in abiti sgargianti e luccicanti, armate di un coltello, desiderose di vendicare il sangue di Clitemnestra sgozzandone il figlio. Ma Oreste fugge a Delfi (la corsa di Oreste avviene, in effetti, attraverso un tapis roulant che spunta dalla tomba di Agamennone). E qui la rappresentazione delle Coefore si salda con quella delle Eumenidi, dramma che Livermore rivisita alla sua maniera, escludendo completamente la dimensione politica della vicenda, e puntando tutto sullo scontro emotivo.

Apollo (Giancarlo Judica Cordiglia), in smoking bianco e papillon, dirotta il suo protetto verso Atene, dove è accolto dalla dea Atena, per l’occasione sdoppiata in due figure: una (Federica Cinque) che interpreta la statua cui si aggrappa supplice Oreste, l’altra (Olivia Manescalchi) la vera dea che dietro una voluminosa scrivania di legno guida le operazioni processuali e pronuncia la sentenza di assoluzione.

            Se la messinscena delle Coefore risulta apprezzabile per tanti aspetti (a parte l’insistenza oltre ogni limite delle sparatorie da far west, che potevano essere limitate in quantità, e che finiscono con l’assumere un carattere grottesco), meno riuscita ci è parsa quella delle Eumenidi. Dell’intensità eschilea nel celebrare il difficoltoso passaggio dalla logica della vendetta a quella della giustizia attraverso i tribunali rimane poco o nulla. E gli espedienti di Livermore in questo caso non ‘mordono’ abbastanza. L’idea di rappresentare i giudici dell’Areopago come fantocci di cartone, cui viene dato fuoco subito dopo la votazione, rimane inspiegabile. Anche il finale è inutilmente sovraccarico e poco efficace: mentre i protagonisti tornano tutti in scena, morti compresi, e si uniscono in un canto festoso, si spruzza neve artificiale sul palco e nella sfera magica scorrono immagini varie della cronaca nazionale degli ultimi decenni: si vede tra l’altro il relitto della Costa Concordia affondata, il corpo di Moro nella Renault 4, la strage di Capaci, Peppino Impastato, le violenze al G8 di Genova. Tanti eventi che ancora reclamano vendetta e/o giustizia. Ma è questo il modo giusto per attualizzare la tragedia eschilea?

 

 

Coefore-Eumenidi

Regia: Davide Livermore

Traduttore: Walter Lapini

Musiche: Andrea Chenna

Scene: Davide Livermore, Lorenzo Russo Rainaldi

Costumi: Gianluca Falaschi

Disegno luci: Antonio Castro

Regista assistente: Sax Nicosia

Video design: D-Wok

Direttore di scena: Alberto Giolitti

Assistenti alla regia: Giulio Cavallini, Aurora Trovatello

 

Interpreti: Giuseppe Sartori (Oreste), Spyros Chamilos (Pilade), Anna Della Rosa (Elettra), Gaia Aprea, Alice Giroldini, Valentina Virando, Chiara Osella, Graziana Palazzo, Silvia Piccollo (Coefore), Sax Nicosia (fantasma di Agamennone), Laura Marinoni (Clitemnestra), Maria Grazia Solano (Cilissa), Stefano Santospago (Egisto), Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Erinni), Gabriele Crisafulli, Manfredi Gimigliano, Lorenzo Iacuzio, Roberto Marra, Francesca Piccolo (guardie); Maria Grazia Solano (Pizia), Giancarlo Judica Cordiglia (Apollo), Laila Maria Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca (Eumenidi), Laura Marinoni (fantasma di Clitemnestra), Federica Cinque (statua di Atena), Olivia Manescalchi (Atena).

 

Lo spettacolo andrà in scena al Teatro Greco di Siracusa nelle seguenti date del mese di luglio 2021: 3/5/7/9/11/13/15/17/19/21/23/25/27/29/31.