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I 7 contro Tebe, da Eschilo, è l’ultimo lavoro che la compagnia pisana I Sacchi di Sabbia in collaborazione con Massimiliano Civica ha dedicato al mito, dopo Andromaca e I dialoghi degli dei (produzione Compagnia Lombardo Tiezzi - I Sacchi di Sabbia).

7 contro Tebe, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Sacchi di SabbiaLo spettacolo è arrivato a Roma presso il teatro di Tor Bella Monaca verso la fine di febbraio, proprio nei primi giorni dell’attacco russo in Ucraina. Inevitabilmente, il dramma eschileo “pieno di Ares”, sia pure interpretato comicamente, ha avuto un impatto diverso da quello che potevamo prevedere fino a pochi giorni prima.

Andiamo a vederlo in un venerdì sera funestato dallo sciopero dei mezzi e dalla pioggia, con i ragazzi e le ragazze del liceo E. Amaldi, che è proprio di fronte al teatro. Nel pomeriggio ci siamo incontrati a scuola per prepararci insieme alla visione: un gruppetto di studenti dell’università si è assunto il compito di gestire l’incontro, preparando un documento da condividere e qualche spunto per innescare una discussione. La scheda e le foto dello spettacolo rivelano chiaramente l’intenzione comica, ma ripercorrendo il mito della famiglia dei Labdacidi ci rendiamo conto che c’è poco da ridere, è una guerra tra fratelli.

La parola guerra oggi suona troppo reale, per poter essere presa alla leggera. Una ragazza, di famiglia ucraina, ha fatto sapere che non si sente di venire a teatro, non è venuta neanche a scuola.

La domanda allora è: si può ridere di una guerra?

7 contro Tebe, Lombardi-Tiezzi, Sacchi di Sabbia

La rivolgiamo direttamente a Giovanni Guerrieri, un membro della compagnia, che è venuto a trovarci, e la sua risposta è netta: sì, anche la più antica commedia conservata, gli Acarnesi di Aristofane, parla di guerra.

Arrivati a teatro, ci rendiamo subito conto, in effetti, che la chiave è proprio quella aristofanesca: il gioco del teatro in primo piano, la presa in giro della tragedia. La scena è semplice: alcune sedie, un cerchio colorato di cartone, e 4 persone: prima le due donne del coro (interpretate da Enzo Illiano e Gabriele Carli), piagnucolose, vestite di nero come donne del Sud di altri tempi, poi la corifea (Giulia Gallo), seria, scontrosa, e infine – inquietante con la sua palandrana nera e gli occhiali scuri – niente di meno che lo stesso Eschilo (Giovanni Guerrieri).

L’attacco è subito metateatrale: la corifea incita le donne del coro a ribellarsi al loro autore, che le costringe sempre a piangere, e lo accusa direttamente di essere antiquato (anche Sofocle ed Euripide ormai mettono in scena donne forti e indipendenti!).

Per primo viene messo sul tappeto, insomma, l’aspetto della tragedia eschilea che per un pubblico contemporaneo è più sgradevole e respingente: l’insopportabile misoginia con cui nel testo originale Eteocle rimprovera le donne che piangono in scena, aggrappate alle statue degli dei, invece di starsene buone a casa. Anche lo schema drammaturgico della tragedia, incentrato sulla descrizione dello scontro extrascenico fra i sette eroi argivi e i sette eroi tebani, è apertamente criticato dalla corifea, che aspra e rivendicativa continua a rimproverare il poeta per la sua arretratezza, per la monotonia delle sue trovate («un coup de theatre, Eschilo, un coup de theatre!!!»).

7 contro Tebe, Lombardi-Tiezzi, Sacchi di Sabbia

Ma Eschilo, severo e antiquato, un po’ Brancaleone, impone la sua austera concezione della tragedia: le donne devono piangereNon piangete!! Piangete!») e gli eroi si contrappongono, sette contro sette, in sequenze regolari. I duelli sono rappresentati da pupazzetti di stoffa che la corifea e il poeta animano con movimenti simmetrici, mentre le due coreute, una toscana, l’altra napoletana, elencano i nomi altisonanti (e ridicoli) ed esaltano con enfasi comica le qualità dei guerrieri.

La cadenza degli scontri si trasforma in una specie di partita ai punti fra le due parti e la monotonia dello schema diventa il pretesto per giocare con la tecnica comica del tormentone. A un certo punto la corifea femminista cerca di inserire Antigone nel combattimento: «C’è Antigone tra le mura! Schiera lei, Eschilo!!». Ma il tragediografo rivendica ancora una volta il suo diritto di essere arcaico: «Io una donna non la schiero!».

Non lasciamoci distrarre dal nostro bisogno, un po’ anacronistico, di ‘modernizzare’ Eschilo, di renderlo più appetibile, più politically correct: il poeta sta cercando di parlarci di qualcos’altro. La guerra, appunto. Dopo il sesto duello ‘di pezza’, conclusosi ancora con la vittoria della parte tebana, le due donne del coro vengono alle mani e lanciandosi stracci si spogliano: eccoli diventati Eteocle e Polinice. Il cerchio di cartone si sdoppia, sono due scudi, e i due fratelli si affrontano, in silenzio.7 contro Tebe, Compagnia Lombardi-Tiezzi, Sacchi di Sabbia

 

La corifea, ricorrendo a dettagli delle Fenicie euripidee, descrive il duello: l’uno viene colpito, l’altro credendosi già vittorioso si scopre e viene colpito anche lui, a morte, dal fratello morente.

A ogni colpo, nel racconto, corrisponde un grido indicibile, impressionante: ma sulla scena ognuno dei due eroi, immobile, guardando la morte negli occhi dell’altro, pronuncia una parola quasi impercettibile: mamma. Due fratelli e l’ultima parola di ogni soldato che muore. L’enfatica, agonistica esibizione eroica e virile si conclude così, nella verità nuda della morte: per un momento posano l’uno il braccio su quello dell’altro, sembrano abbracciarsi, ma in un ultimo rapido gesto si fanno l’uno contro l’altro, la luce si spegne.Il pianto delle donne, ridicolo e stucchevole all’inizio, torna, con un senso diverso, nel canto struggente che la corifea, Giulia Gallo, dispiega dolce e dolente, alla fine: «Don’t kill my baby and my son». È una canzone di Woody Guthrie ispirata a un terribile fatto di violenza razzista, le cui parole accompagnano la voce dolente di una madre che implora di risparmiare dal linciaggio il proprio bambino appena nato e il figlio adolescente.

La voce femminile prega e supplica invano contro l’insensatezza della violenza. La cruda realtà della morte diventa scudo contro ogni virile enfasi nazionalista.

Ci commuove, in questa piovosa sera di febbraio.

7 contro Tebe, @Sacchi di Sabbia

 

Intanto, nella sala accanto, un pubblico nutrito sta guardando uno spettacolo con attori televisivi. Appena usciti, ne stiamo parlando, veniamo invitati ad allontanarci per non disturbare. Noi cosa abbiamo visto? Una commedia? Una tragedia? Un ‘classico’? Uno spettacolo per ragazzi? Abbiamo riso, siamo usciti pensosi.

Si tratta dello stesso gioco sapiente di Aristofane, della stessa sofisticata parodia. Proprio negli Acarnesi, evocati non casualmente da Giovanni, Diceopoli ri-metteva in scena il Telefo euripideo, per tentare, come il protagonista tragico, di dire la verità sulla guerra! Ogni re-performance pretende in effetti un riposizionamento rispetto all’originale, e la ri-lettura comica del tragico ci può consentire, ridendo, di andare al cuore ‘serio’ delle questioni.

Il pianto delle donne. A tenere insieme ciò che abbiamo visto, a distanza di giorni, è il pianto delle donne. La televisione e i social non fanno che mostrarci immagini di donne in lacrime in queste ore: fra tutte, la ragazza che ha appena perso il suo bambino, sorretta dal marito, le puerpere strette nel rifugio dell’ospedale, accanto alle culle. Eppure le donne non sono più il “gregge belante” trattato sprezzantemente da Eteocle: le donne governano, decidono, combattono.

Vedo in televisione una giovane appena arrivata con la madre in Polonia su un treno carico di profughi: racconta il suo viaggio e, pur provata, parlando del padre e dei fratelli rimasti a Kiev per combattere, si mostra fiduciosa, confidente nella resistenza dell’esercito ucraino, nelle difficoltà già incontrate dall’esercito russo.

Nel sentirla parlare, pallida, tesa, con parole di speranza venate di propaganda, provo pena, solidarietà, ma anche inquietudine: per un sentimento nazionalista che, per quanto comprensibile, non potrà che alimentare la guerra. Sento in me tutta l’ambiguità e la comodità del mio pacifismo, ma di fronte a questa donna coraggiosa, che non piange (come piacerebbe ad Eteocle) comprendo la verità del coro eschileo.

È il pianto delle donne, che rimane estraneo alle logiche maschili della guerra, che non perde dentro di sé la voce autentica del phobos, l’angoscia, il necessario senso del limite, l’unico atteggiamento, apparentemente rassegnato, potenzialmente rivoluzionario.

È l’Antigone dell’appello pacifista del 1915 di Romain Rolland, appena pubblicato su questo blog: non l’Antigone ‘virile’ che, come la puntigliosa corifea dei Sacchi di Sabbia, vorremmo vedere al posto di uno dei sette eroi tebani, ma «l’Antigone eterna, che rifiuta l’odio e che non sa più distinguere tra i fratelli nemici».

Locandina dello Spettacolo, 7 contro Tebe