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Catarsi (in Friedrich Nietzsche)

Da tempo gli studiosi hanno messo in evidenza come la Nascita della tragedia si caratterizzi nel senso di una sorta di anti-Poetica, come esposizione di una teoria della tragedia sistematicamente costruita su basi anti-aristoteliche.

Gli elementi di contrapposizione sono molteplici e vale la pena ricordarne alcuni dei più significativi.

1) Aristotele decontestualizza gli spettacoli tragici marginalizzando la dimensione politica e sacrale in cui avevano luogo. Viceversa Nietzsche dà grande rilievo alla matrice religioso rituale della tragedia (ditirambo, culto di Dioniso).

2) Aristotele sembra considerare le tragedie come testi di lettura anziché veri e propri pezzi drammatici concepiti per la performance scenica. Nietzsche sottolinea costantemente gli aspetti scenici delle rappresentazioni.

3) Aristotele si concentra fondamentalmente su due soli aspetti dello spettacolo tragico, quelli che chiama praxis e logos.

Altri aspetti come musica, danza, mimica, scenografia sono giudicati come estranei all’arte tragica. Nietzsche invece considera la tragedia greca un Musikdrama, «dramma musicale», anzi un Gesamtkunstwerk, «opera d’arte totale», nel senso che aveva indicato Richard Wagner.

4) Per Aristotele alla radice dell’azione tragica c’è una hamartia (colpa, errore) commessa dal personaggio protagonista. Nietzsche sostiene, per lo meno per quanto riguarda l’Edipo re sofocleo, che tale modello non è applicabile.

Nell’ambito di questa contrapposizione rispetto ad Aristotele un punto molto importante è quello del concetto di catarsi, a proposito del quale si pongono due questioni fondamentali: la prima concerne la posizione di Nietzsche rispetto alla teoria della catarsi aristotelica; la seconda riguarda, invece, il tipo di interpretazione che Nietzsche – anche sulla base delle suggestioni venutegli dalla lettura di Jakob Bernays – diede del concetto di catarsi tragica.

Per rispondere è necessario partire da una pagina del capitolo 22 della Nascita della tragedia, praticamente l’unico punto in cui il giovane professore di Basilea affronta la tematica e l’unico punto in cui è attestato il termine katharsis.

Lì si legge:

Mai ancora, da Aristotele in poi, è stata data una spiegazione dell’effetto tragico, da cui si potessero dedurre stati artistici, un’attività estetica degli ascoltatori. Ora pare che la compassione e la paura debbano essere spinte da eventi gravi verso uno sfogo che dia sollievo (zu einer erleichternden Entladung), ora pare che ci dobbiamo sentire elevati ed esaltati dalla vittoria dei princìpi buoni e morali, dal sacrificio dell’eroe nel senso di una concezione morale del mondo; e poiché certamente credo che per numerosi uomini proprio questo, e solo questo, sia l’effetto della tragedia (die Wirkung der Tragödie), così chiaramente ne risulta che tutti costoro, insieme ai loro interpreti estetici, non hanno sperimentato nulla della tragedia come arte somma. Quella scarica patologica (Jene pathologische Entladung), la catarsi di Aristotele, di cui i filologi non sanno bene se sia da annoverare tra i fenomeni della medicina o tra quelli della morale (von der die Philologen nicht recht wissen, ob sie unter die medizinischen oder die moralischen Phänomene zu rechnen sei), richiama una singolare intuizione di Goethe. «Senza un vivo interesse patologico», egli dice, «non sono del resto mai riuscito a elaborare nessuna situazione tragica, e l’ho quindi piuttosto evitata che cercata. Sarebbe forse stato questo un altro dei privilegi degli antichi, che per loro anche le cose più patetiche fossero solo un giuoco estetico, mentre per noi deve collaborare la verità naturale per produrre una tale opera?». A quest’ultima domanda, così profonda, possiamo ora, dopo le nostre preziose esperienze, rispondere affermativamente, poiché proprio nella tragedia musicale abbiamo sperimentato con stupore che in realtà le cose più patetiche possono essere soltanto un gioco estetico: perciò ci è lecito credere che solo adesso il fenomeno originario del tragico si possa descrivere con un certo successo.

Dall’analisi del brano si possono evincere le seguenti conclusioni:

a) Nietzsche respinge nettamente il modello dominante dell’interpretazione moralistica della catarsi aristotelica intesa come «purificazione» (Reinigung), ovvero il modello fissato canonicamente da Lessing e riassumibile nella nota formula della «trasformazione delle passioni in disposizioni virtuose». In questo rigetto Nietzsche si muove sulla falsariga di Bernays, anche se la ragione principale qui è individuata nel fatto che tale concezione viola i principi dell’autonomia dell’arte in quanto spiega un fenomeno estetico mediante categorie extra-estetiche. Inoltre, l’obiettivo polemico è soprattutto la categoria di Mitleid («pietà», «compassione») che per Nietzsche rappresenta la quintessenza del Cristianesimo.

b) Nietzsche si appropria della terminologia adottata da Bernays – pur senza citarne mai il nome –, come rivela l’uso frequente del tedesco Entladung per la traduzione del termine greco katharsis. Ciò nonostante sembra respingere con una certa ironia anche il modello interpretativo di tipo medico fisiologico proposto da Bernays: una soluzione che Nietzsche non considerava evidentemente in sufficiente antitesi con quello moralistico tradizionale.

c) Nietzsche ha una posizione meno ostile rispetto alla lettura di Goethe (di cui cita un brano da una lettera a Schiller), il quale riferiva la catarsi della tragedia non all’effetto sul pubblico, bensì al l’esito interno del dramma (dunque sui personaggi) e ne dava una lettura tutta giocata in chiave estetica,in cui l’effetto catartico risultava produrre una «conciliante rotondità» (versöhnende Abrundung), ed un «riequilibrio» (Ausgleichung) da in tendere come scioglimento reso necessario dallo sviluppo del l’azione. In effetti Nietzsche utilizza strumentalmente l’interpretazione che dava Goethe a sostegno della propria argomentazione.

Il discorso di Nietzsche sulla katharsis si ferma sostanzialmente qui: solo poche righe finalizzate più che altro a sottolineare l’insufficienza delle spiegazioni date fino ad allora e dunque l’incapacità della filologia erudita – troppo lontana dalla vita e dall’arte – di individuare soluzioni convincenti.

Non c’è nella Nascita della tragedia, come anche nelle opere successive, un’interpretazione organica e sistematica della catarsi. Nietzsche semplicemente non prende posizione nella discussione sul tema katharsis a favore di una delle teorie che erano affiorate e di fatto disconosce le ragioni di quel la discussione.

Nel suo tentativo di scrivere una sorta di anti-Poetica, nel suo accentuato anti-aristotelismo, Nietzsche respinge in toto l’idea di una catarsi, nega la possibilità che possa esistere uno scioglimento della condizione tragica, sia esso inteso come miglioramento morale o come sfogo di natura patologica.

Ma nel momento in cui nega la catarsi, Nietzsche individua e tematizza l’esistenza di un effetto tipico della tragedia greca, un effetto che egli identifica con il dionisiaco.

Si tratta di quel la rottura del principium individuationis che consente di percepire come tutta l’esistenza poggi su «un fondamento – mascherato – di sofferenza e di conoscenza» (auf einem verhüllten Un ter grun de des Leidens und der Erkenntnis). Per spiegare l’effetto prodotto sugli spettatori, Nietzsche utilizza una complessa strategia argomentativa, che si fonda in buona misura su testimonianze antiche e che tralascia volutamente Aristotele.

L’esperienza tragica si caratterizza per lo spettatore in un processo di trasformazione, sollecitato soprattutto dalla musica e dalla danza del coro, che lo portava a cadere in uno status visionario fino ad identificare se stesso come parte di un coro di satiri e a percepire l’analogia profonda tra le sofferenze dell’eroe tragico sulla scena e quelle patite dal dio Dioniso. Naturalmente si trattava di un processo fittizio e non di una realizzazione effettiva.

In altri termini, la tragedia riproduceva in forma artistica l’esperienza estatico-religiosa propria dei rituali orgiastici dionisiaci. L’estasi significa degenerazione del la natura rispetto alle sue forme abituali per svelarsi nella sua dimensione originaria. Significa alienazione, trasfigurazione. In vari punti della Nascita della tragedia, Nietzsche accenna alla produzione di questo effetto.

Si tratta di un movimento a due fasi: nella prima le emozioni vengono suscitate e potenziate sempre di più; nella seconda le medesime emozioni, che hanno raggiunto il culmine dell’intensità, si presentano in una dimensione diversa, quella della visione, corrispondente alla sfera dell’apollineo.

L’effetto consiste, dunque, nel continuo scaricarsi del coro dionisiaco nel mondo di immagini apollineo. La presenza dell’apollineo è precisamente ciò che segna la differenza rispetto a Jakob Bernays: per Nietzsche non si tratta di una “cura” mediante cui eliminare sostanze nocive, ma la tragedia è vista come strumento estetico per uno scopo che solo originariamente poteva essere di tipo medico.

Se si considerano gli scritti più tardi di Nietzsche, la sua idea dell’effetto tragico risulta più esplicita.

Soprattutto in un capitolo del Crepuscolo degli idoli (1888) intitolato Quello che devo agli antichi, tornando sul concetto del dionisiaco, Nietzsche parla del fraintendimento da parte di Aristotele a proposito del sentimento tragico dei Greci e respinge la tesi della Poetica – sempre letta attraverso il filtro moralistico di Lessing – secondo cui l’effetto della tragedia consisterebbe nel l’«affrancarsi dal terrore e dalla compassione» (um von Schrecken und Mitleiden loszukommen), e quindi nel «purificarsi da una pericolosa passione mediante un veemente scaricarsi della medesima (sich von einem gefährlichen Affekt durch dessen vehemente Entladung zu reinigen)». Viceversa, l’effetto proprio del tragico è per Nietzsche quello dionisiaco, quello che porta gli spettatori ad «essere sé stessi, al di là del terrore e della compassione» (um über Schreken und Mitleid hinaus selbst zu sein) e di provare quel la forma unica e peculiare di piacere che viene lì definito come «l’eterno piacere del divenire, quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento (die Lust am Vernichten)».

La stessa critica all’interpretazione aristotelica dell’effetto tragico torna anche nel settimo paragrafo del l’Anticristo a proposito del concetto di Mitleid e dell’idea aristotelica che la tragedia sia fondamentalmente un «rimedio purgativo» (Purgativ) per liberare lo spettatore da tale «stato morboso e pericoloso» (krankhaften und gefährlichen Zustand).

Qui la catarsi aristotelica è tirata in causa in termini sarcastici nell’ambito di un ampio discorso sui valori della civiltà occidentale-cristiana, valori che – come quello di compassione – sono per Nietzsche sintomi inequivocabili di decadenza. Infine, questa impostazione polemica è ripresa in termini ancor più perentori, in un lungo frammento del 1888 intitolato Cosa è tragico, nel quale si parla nuovamente del «fraintendimento» commesso da Aristotele a proposito delle emozioni prodotte dallo spettacolo tragico sullo spettatore e della successiva Entladung.

Vale la pena di citare i punti più significativi di questo lungo passo:

Ho messo ripetute volte il dito sul grande equivoco (Mißverständniß) di Aristotele, là dove egli crede di riconoscere in due affetti deprimenti, la paura e la pietà, gli affetti tragici. Se avesse ragione, la tragedia sarebbe un’arte mortalmente pericolosa: si dovrebbe mettere in guardia da essa come da qualcosa di socialmente dannoso e di malfamato. L’arte, normalmente un grande stimolante di vita, un’ebbrezza di vita, una volontà di vita, diverrebbe qui, al servizio di un movimento discendente, per così dire come ancella del pessimismo, dannosa alla salute. (Giacché, che con l’eccitazione di tali affetti ci si «purghi» di loro, come sembra credere Aristotele, semplicemente non è vero).

Qualcosa che susciti abitualmente paura o pietà, disgrega, indebolisce, scoraggia; [...] La tragedia significherebbe allora un processo di dissoluzione (Auflösungsprozeß), poiché gli istinti della vita si distruggerebbero nell’istinto dell’arte. [...]. Aristotele voleva che la tragedia fosse considerata come purgativo di compassione e paura (Purgativ von Mitleid und Schrecken), – come utile scarico di due affetti morbosi smisuratamente accumulati. [...] Gli altri affetti hanno un’azione tonica: ma solo due affetti depressivi – e questi sono quindi particolarmente dannosi e malsani – la compassione e la paura dovevano, secondo Aristotele, venire espulsi dall’uomo mediante la tragedia come purgante (wie durch ein Purgativ aus dem Menschen hinausgeschafft werden): la tragedia, eccitando a dismisura questi stati pericolosi, ne redime l’uomo – lo rende migliore. La tragedia come cura contro la compassione (Die Tragödie als eine Cur gegen das Mitleid).

 

Queste parole mostrano chiaramente come il tardo Nietzsche da un lato continuasse a riferirsi polemicamente all’interpretazione moralistica della Poetica, quella di stampo lessinghiano che corrispondeva al quadro classicistico della grecità, anche se certa terminologia adottata qui, come per esempio il verbo purgieren («purgare») o i sostantivi Purgativ («purgativo») e Cur («cura») fanno chiaramente pensare alle tesi di Bernays. Dall’altro è chiaro che per Nietzsche l’unico effetto della tragedia non può che essere quello dionisiaco-vitalistico («ebbrezza di vita», «volontà di vita»), e non vi può essere alcuna catarsi con conseguenze morali o edificanti, altrimenti la tragedia si ridurrebbe niente meno che a «un’arte mortalmente pericolosa» e «dannosa alla salute».

Al di là dell’interpretazione di catarsi, l’influenza più consistente che i Lineamenti del trattato perduto di Aristotele sull’effetto della tragedia hanno esercitato su Nietzsche riguardano, comunque, l’idea di connettere il processo catartico con le pratiche estatiche dei riti dionisiaci. Come si è visto, Bernays aveva spiegato la catarsi rifacendosi – sulla base dell’ottavo libro della Politica di Aristotele e di fonti tardo-antiche come Giamblico e Proclo – ai rituali estatici nei quali l’essere fuori di sé era ritenuto un fatto sacro.

Nietzsche recepisce e valorizza fino alle estreme conseguenze precisamente questo punto, trovando il significato originario e autentico della tragedia proprio nelle sue origini legate al culto di Dioniso.

 

(Si ripubblicano qui, senza l’importante apparato delle note a pié di pagina, le pp. 91-100 del saggio di Gherardo Ugolini Jacob Bernays e l’interpretazione medica della catarsi tragica. Con traduzione integrale del saggio di Bernays: Lineamenti del trattato perduto di Aristotele sull’effetto della tragedia, Istituto italiano di Studi filosofici, Napoli, 2020, che si può acquistare qui. Rigraziamo l’autore per averne permesso la ripubblicazione adattata su questo blog.)