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[Traduciamo in italiano, adattandola, la parte iniziale di un saggio di Patrick Primavesi, professore di Scienza del teatro presso l’Università di Leipzig, un contributo di estremo interesse per il nostro blog.

Primavesi distingue tra rappresentazione della violenza e violenza insita nella rappresentazione stessa.

La rappresentazione della violenza risponde alle esigenze di un voyerismo quotidiano ed esasperato, conseguenza della diffusione inarrestabile di immagini in tutti i possibili media, rappresentatzione mimetica della realtà, che si avvale di mezzi tecnici molto sofisticati, amplificando così anche la richiesta da parte di un pubblico progressivamente assuefatto a crudeltà, orrori, atti sanguinari sempre più eccessivi e sempre più realistici e perciò ne chiede sempre di nuovi. Il pubblico prova piacere nel guardare questa violenza, secondo una norma dell'estetica per cui gli esseri umani provano piacere davanti all'orrore: ma chi guarda resta nascosto, protetto dallo schermo, invisibile, anche quando tale violenza viene performata in sua presenza, perché lo spettatore vuole coscientemente restare non visto anche per evitare la vergogna del piacere provato davanti all'orrore. 

Il secondo tipo di violenza è propria invece del teatro, poiché si fonda sulla compresenza tra attori e pubblico, e sul fatto che quest'ultimo non rimane e non può rimanere inerte spettatore, ma viene tirato in causa dal performer con vari mezzi: in questo caso, la violenza si inquadra in una situazione momentanea, transitoria, scaturisce insomma da tutti gli elementi che concorrono all'evento teatrale, che in quanto evento violento è tragico.  La violenza della rappresentazione tragica non consiste però sempre e solo nel mettere in scena l'atto violento, anzi, può essere determinata proprio dalla sua assenza. 

Credo si possa dire che la tragedia consista nel saper istituire un atmosfera di violenza, nel creare una tensione emotiva e fisica che accomuna tutti coloro che sono presenti all'evento teatrale, nel suscitare reazioni contrastanti di piacere e  paura, reazioni a loro volta violente, che non dipendono dalla crudeltà di ciò che viene rappresentato, quanto dall'aspettativa di quel che di violento sta per accadere, che si sa che accadrà, e non si può evitare che accada. Nell'evento teatrale è possibile verificare l'effetto di violenza sul pubblico, che è una cominità; nel cinema il processo corrisponde invece a un'esperienza individuale, ma è stato il cinema a sperimentare più frequentemente l'efficacia emotiva dell'aspettativa della violenza, già dal lontanissimo Un chien andalou  (di cui abbiamo posto in 'copertina' un'immagine celebre).

Questa violenza che potremmo chiamare interna al genere tragico, ci interessa qui perché, in quanto violenza insita nella stessa forma estetica, è propria della tragedia greca, colma sì di violenza ma in cui l’atto di sangue e l’omicidio non è mai rappresentato, solo raccontato, e lo spettatore è indotto a usare tutta la sua capacità immaginativa per ricostruire il fatto violento che non vede, ma ascolta solamente.

Proprio i meccanismi del teatro contemporaneo ci possono aiutare, dunque, a comprendere la tensione che si stabiliva tra attori e pubblico pur in mancanza della violenza agita. Il ripensamento della tragedia greca sulle scene contemporanee può apportare perciò molto alla ricerca di cosa il pubblico provava e sentiva assistendo alla sola evocazione della violenza e non alla sua realizzazione.

Si apre così una questione essenziale anche per gli studiosi del testo, che riguarda la specificità della parola tragica greca, la sua violenza implicita ma non per questo meno effettiva. Forse a tale potenza della parola greca intendeva alludere Friedrich Hölderlin nelle sue enigmatiche note alla traduzioni da Sofocle, scrivendo che la parola tragica greca 'uccide il corpo che afferra': il corpo degli attori, ma anche il corpo degli spettatori e ascoltatori. La parola greca poteva forse indurre a uccidere, facendo leva sulla violenza di ognuno di noi, poteva portare all'assassinio e al suicidio? Per quanto possa essere una posizione estrema, fenomeni contemporanei di persuasione verbale alla violenza indurrebbero a rispondere di sì. 

La potenza della parola tragica greca può essere performata nel teatro contemporaneo? La questione resta aperta, tanto più che tale parola arriva al pubblico contemporaneo per il tramite della traduzione e senza il ritmo originario. Sicuramente la tragedia sulla scena contemporanea spesso cerca le radici del tragico nel gesto, più che nella parola, e ha l'ambizione di rendere visibile quel che per i Greci restava invisibile, ossia, come ha detto Romeo Castellucci, la violenza assoluta, con la quale, tra l'altro, si identifica il sublime.  

Le considerazioni di Patrick Primavesi problematizzano, dunque, tutta la costellazione della 'violenza' tra scena antica e contemporanea, e ci serve da guida per intendere molto teatro tragico contemporaneo, in cui la riflessione sulla violenza diventa parte stessa dell'atto teatrale, ad esempio nel teatro degli Anagoor, in particolare in Lingua imperii, che è la proposizione di frammenti e scene sul linguaggio, verbale e non verbale, della violenza. O ancora nel cinema di Yorgos Lanthimos (soprattutto Dogthoot, del 2009). 

Il saggio di Primavesi  è apparso in un volume ormai di 15 anni fa, che meriterebbe però tutt’ora una traduzione italiana: Gewalt und Ästhetik. Zur Gewalt und ihrer Darstellung in der griechischen Klassik (Violenza e estetica. Sulla violenza e la sua rappresentazione nella Grecia classica), a cura di Bernd Seidenticker e Martin Vöhler, uno dei volumi scaturiti da un gruppo di ricerca interdisciplinare finanziato dal ministero per la ricerca tedesca da titolo L’esperienza estetica nel segno dello sconfinamento tra le arti (2003-2015) che tanto ha portato anche alla ricerca antichistica. La traduzione è mia (Sotera Fornaro)].    

 

Uno sguardo retrospettivo rivela quanto il teatro del XX secolo sia stato influenzato in maniera determinante dall’elaborazione delle tragedie greche antiche. Il loro confronto con la violenza del mito resta attuale quando e dove civiltà e barbarie sembrano ancora indissolubilmente legate tra loro, e quando e dove le minacce di violenze di ogni tipo diventano sempre più anche fonte di fascinazione e consumo. La rappresentazione teatrale della violenza oggi non risponde solo al piacere che si prova nel guardare cose orribili e tremende, un piacere che caratterizza il genere umano e che non si è riusciti a controllare nemmeno in epoche anteriori alla nostra. Da quando Schiller ha diagnosticato il ‘piacere per argomenti tragici’ come parte costitutiva anche dell’estetica moderna, il ruolo della rappresentazione della violenza in tutte le arti e in tutti i media è però cresciuto in maniera esponenziale.  Il teatro oggi viene rappresentato davanti a spettatori e con la partecipazione di spettatori molto influenzati dalle tecniche e dalle convenzioni del cinema e dei nuovi media –  un pubblico a cui sono familiari, più che i miti greci, Talksshows e Infotainement, film dell’orrore, pornografici, fantascientifici.

‘Tragedia’, intanto, è un termine emblematico dell’orrore e della violenza.  Lo specifico significato del concetto e del termine ‘tragedia’ nel senso di ‘forma teatrale’ e di ‘genere poetico’ è scaduto perciò progressivamente in secondo piano. Parallelamente allo sviluppo di una filosofia del tragico e all’incessante lavoro al paradigma di una tragedia moderna c’è perciò l’abitudine di parlare di ‘tragedia’ a proposito di un puro e scioccante eccesso di violenza o se la concatenazione di circostanze fatali si trasforma in catastrofe. Sembra quasi che i  concetti ‘tragico’ e ‘tragedia’, così generalizzati, possano costituire in certo qual modo un’argine alla violenza stessa,  poiché contengono l’ eco lontana di una cultura classica nella quale l’orrore veniva incastonato in un contesto di senso più grande, che stava al centro di dispendiosi festival annuali, ossia le feste della città di Atene.

Ma fin dove arriva questo apparentemente continuo, ambiguo interesse per la tragedia? Per i registi di teatro si tratta solo del riflesso della violenza onnipresente e quotidiana, oppure si tratta di dare un senso a quella violenza? La messa in scena di tragedie si esaurisce nell’inserimento di effetti thrill, oppure può valere come rielaborazione di una forma estetica tradizionale, appunto la tragedia greca, rielaborazione che consiste proprio nel confronto critico con la sua particolare rappresentazione della violenza?

Fondamentale per la discussione della problematica sin qui tracciata è il dato di fatto che – diversamente rispetto ai media attuali, in cui la rappresentazione della violenza fisica diventa un feticcio – la tragedia greca antica è una forma artistica complessa, che rinuncia a rappresentare immediatamente atti di violenza.

La tragedia greca adotta invece una maniera sottile, indiretta di rappresentare la violenza, che va dai discorsi dei messaggeri a forme codificate dell’orrore, sino a canti di lutto e compianto. La messa in scena non degli atti di violenza in sé stessi, ma del loro resoconto, e dunque dell’ ascolto di quegli avvenimenti e del lamento su di essi, rende possibile quel che nella prospettiva moderna scaturisce invece da un processo di riflessione e dall’ esperienza estetica della tragedia –  ossia il crescere della capacità immaginativa del pubblico, dovuto proprio alla limitazione di quel che è possibile rappresentare, alla limitazione di ciò che è spettacolare.

Per una ricerca sull’estetica della violenza nel V sec. a.C., però, anche la prassi della messa in scena contemporanea può essere ricca di indicazioni, come diremo.

Le più recenti rappresentazioni teatrali della tragedia greca, infatti, nel momento in cui riflettono sulla loro specifica forma rappresentativa e sulle potenzialità immaginative dei loro spettatori, contribuiscono a scoprire la particolare economia drammatica per la quale la tragedia antica, rinunciando a rappresentare i fatti di sangue del mito, è riuscita a intensificare l’esperienza collettiva del tragico.

Certo, la rappresentazione tragica della violenza poteva in alcuni casi essere drasticamente efficace anche secondo il nostro metro di misura: ad esempio la ripetuta esposizione dei cadaveri insanguinati nell’ Agamennone di Eschilo, o nelle Coefore, può valere come esempio di una drammaturgia dello choc differito, data da quella tensione tra ‘l’angoscia dell’attesa e l’orrore dell’apparizione’ descritta da Karl Heinz Bohrer.  Anche in questo caso, però, la rappresentazione della violenza non è limitata solo a quel che si vede, ma si gioca ancor più sul piano dell’espressione vocale, del suono, del lamento e anche del silenzio.

Che il momento dell’esercizio della violenza resti sottratto allo sguardo, insomma, non è spiegabile solo con un tabù religioso o con l’argomento pragmatico che in una morte o uccisione rappresentata in scena si sarebbe avuta la rottura dell’illusione, ma piuttosto con la volontà di accrescere la tensione attraverso la capacità immaginativa propria dello spettatore. Proprio in questo c’è un problema elementare nell’ approccio contemporaneo alle tragedie greche.

Si è infatti sempre costantemente cercato di riprodurre la violenza della tragedia greca.  Le grandi messe in scena della tragedia del XX secolo, da Max Reinhardt e Leopold Jessner al ‘Modello Antigone’ di Bertolt Brecht sino ai più recenti progetti sulla tragedia antica della Schaubühne di Berlino (e molti altri) hanno tuttavia mostrato quanto sia diventato obsoleto il dibattito sulla ‘fedeltà’ all’originale, dato che è impossibile una riproposizione anche solo approssimativa di quelli che erano i contesti teatrali antichi.

Anche se una tragedia antica potesse essere rappresentata nel teatro di Dioniso di Atene ricostruito, e con il suono delle parole riprodotto nella maniera migliore possibile, e anche se il pubblico fosse in familiarità con la metrica complessa dei canti corali – anche in quel caso l’ideale della ricostruzione di un evento teatrale antico resterebbe fantasmatico, spettrale.

La tragedia antica non è solo un’opera letteraria, che doveva essere letta per poter ogni volta rivivere, ma è una prassi culturale estremamente complessa e storicamente connotata. Il principio pragmatico inaugurato da  Oliver Taplin nel 1978, in analogia con la ricerca su Shakespeare, che consiste nel cercare nei testi indicazioni sul quel che accadeva in scena, ha certamente ha sciolto le tragedie greche dai limiti di un’interpretazione legata solo ai testi: e tuttavia, anche se considerati spettacoli, le tragedie greche continuano a restare testi e a essere interpretati come tali. “Performance does not efface the textuality of drama, la performance non cancella la testualità del dramma” – ha scritto Simon Goldhill.  

D’altro canto,  il processo della rappresentazione originaria di ogni singola opera si può ricostruire solo in maniera vaga, tanto più che il pubblico contemporaneo non può essere trasferito nelle condizioni e nelle abitudini percettive dell’antichità. E tuttavia: il teatro conta sempre sulla possibilità di trasportare il suo pubblico in un viaggio temporale e spaziale, di trasferirlo cioè in un’altra realtà.

La polemica sulla finzione degli eventi teatrali antichi è infinita: ma la causa di questo fenomeno non risiede solo, in generale, nella frattura tra la prassi teatrale e lo stato delle conoscenze filologiche e culturali sull’antichità;  ma anche concretamente nel conflitto, su cui ancora troppo poco si è riflettuto, tra le aspettative di una rappresentazione più o meno diretta della violenza, e una violenza della rappresentazione propria del teatro, che cerca di disattendere proprio le prime aspettative. Detto in sintesi: con la messa in scena di tragedie antiche si tratta soprattutto di trasformare forme convenzionali della rappresentazione della violenza, troppo facilmente decifrabili, in violenza della rappresentazione, che può coinvolgere il pubblico in una maniera nuova e inabituale.

Il senso della parola tedesca Gewalt ( = ‘violenza’) lega il comandare (walten), cioè la funzione ordinatrice di una istanza di potere (potestas), all’azione violenta, al ferimento del corpo, della libertà o degli interessi di una persona o di un gruppo (violentia).  Anche se i due significati si possono limitare reciprocamente a seconda del contesto, si mostra proprio nel discorso sulla violenza della tragedia una continua compenetrazione e interazione di questi campi semantici.

Le forme di violenza verbale e scenica che si trovano nei testi tragici non servono solo alla rappresentazione e alla realizzazione della violenza fisica e psichica che si trova nel mito.  Tali forme di violenza sviluppano una propria dinamica, che è sostanzialmente legata alla situazione della rappresentazione stessa, quindi anche al ruolo del pubblico. Nella messa in scena della tragedia greca, cioè, non c’è solo la violenza contenuta nel mito e nel testo; ma anche la violenza che si sviluppa nel momento stesso della rappresentazione, e nella quale è coinvolto il pubblico. A differenza di tutte le forme di ‘violenza mediale’, ad esempio la violenza dei film, che ha un effetto sulla percezione individuale e mira a sollecitare la reazione del singolo, la violenza situativa, ossia quella rappresentata in una data situazione ed esercitata nel processo di una rappresentazione pubblica di teatro,  è connessa alle circostanze della sua percezione, dunque si lega alla presenza simultanea di attori e di pubblico: questa violenza viene impartita al pubblico nell’ambito di un’esecuzione momentanea. Diversamente, però, da un rito cultuale o religioso, le regole dell’esecuzione non sono fisse, ma cambiano con ogni messa in scena.

Perciò non si può rispondere con certezza alla domanda quali siano le forme della rappresentazione della violenza proprie delle rappresentazioni contemporanee delle tragedie greche, oltre al fatto che la percezione della violenza dipende da fattori culturali, sociali e individuali sempre variabili. E non si possono fissare a priori nemmeno i criteri per stabilire come si debbano ‘violentare’ le stesse opere antiche.

 

Premesse: la tragedia come prassi culturale.

Il teatro della tragedia greca antica era una istituzione del ‘passaggio’, della transizione, in modo particolare e  difficilmente comprensibile dalle epoche posteriori. Come ha scritto Christian Meier, vi si rispecchiò l’ascesa di Atene ‘da città di provincia a potenza mondiale’.  Il V sec. a. C. fu per Atene un’epoca sia di espansione militare che di formazione e di consolidamento del dominio democratico. A partire dalla esautorazione dell’Areopago e dell’aristocrazia sino ad allora al potere (intorno al 462), Meier osserva un ‘cambiamento accelerato di tutti i rapporti’, ma anche la tendenza a ‘incapsulare’ i cambiamenti e a ‘relegarli nel passato, per salvare la durata dell’esistente’. Questa tendenza influenza profondamente soprattutto la tragedia, nella quale gli avvenimenti contemporanei sono riflessi solo in maniera mediata.

L’evocazione della violenza nell’immaginazione dello spettatore ha lo stesso rapporto che le rappresentazioni teatrali in generale hanno col contesto della vita quotidiana, compresa l’attività militare di gran parte della cittadinanza, per assicurare l’egemonia di Atene nel Mediterraneo.  I concorsi delle grandi Dionisie erano aperti con l’esposizione dei tributi che si erano ricevuti dalle città alleate e sottomesse, nonché dalla parata degli orfani di guerra divenuti maggiorenni; la maggior parte degli spettatori erano cittadini-opliti, che dovevano combattere ancora per la loro città. Più o meno esplicitamente il teatro allude ai conflitti che si svolgono lontani da Atene, ma che pure da molti punti di vista sono assai importanti per i suoi cittadini.

Il fatto che l’azione delle tragedie avvenga sempre in scenari lontani sortiva anche un altro effetto: poiché  la loro presentazione era mediata dai discorsi dei messaggeri, questo aiutava gli spettatori a  dominare le loro angosce, dovute alla minacciose conseguenze che potevano scaturire dalla violenza della polis.  Il discorso sulla violenza aveva bisogno di questo trasferimento su altri scenari, sul tempo altro del mito e sulla variazione agonale di argomenti conosciuti, proprio per potersi sviluppare indipendentemente dai dibattiti e le contese politiche dell’attualità.

Così il teatro della tragedia si dimostra una prassi culturale che in maniera molto sottile ha fatto da specchio dei rapporti di forza politici e militari contemporanei e dei loro cambiamenti.

La tragedia fu una istituzione della transizione anche in senso strutturale, nel momento in cui poteva mediare tra i discorsi della religione, dell’ arte e  della politica: mediava cioè tra culto arcaico, religione olimpica e filosofia, tra lirica corale, gioco di ruoli e contese verbali, tra la vendetta di sangue, rituali sacrificali, giudizi divini e voto democratico (esemplare in questo senso è la trasformazione delle Erinni in Eumenidi alla fine dell’ Orestea di Eschilo). In questa prospettiva non è tanto decisiva la derivazione causale della forma estetica della tragedia e dell’istituzione culturale del teatro da un cambiamento storico cosciente, nella realtà o nella mentalità. Piuttosto qui di tratta di comprendere ciò che sta ‘in mezzo’ – del processo cioè nel quale diversi stadi della transizione culturale erano compresenti.

Anche per l’esperienza della tragedia bisogna partire soprattutto da una ambivalenza degli affetti che vi erano coinvolti: il piacere di assistere a cose orribili poteva anche significare avere orrore di questo stesso piacere, conoscenza di sé e realizzazione parziale di ciò che era culturalmente represso.

L ‘eccesso’ di violenza si dimostra un problema passeggero della tragedia, che trova spiegazioni o soluzioni contradittorie, e lega la costituzione del soggetto ad un’esperienza di impotenza. Un effetto elementare della rappresentazione di tragedie è perciò, come si può anche ipotizzare a proposito della percezione del pubblico antico, lo spavento davanti all’ improvvisa crescita di violenza in avvenimenti che possono essere previsti, ma non possono essere impediti.

Se si prescinde dall’idealizzazione della paura in compassione, a cui si approda sulla scia dell’illuminismo tedesco, compassione che dovrebbe migliorare moralmente lo spettatore, la catarsi significa un’esperienza fisiologicamente liberatoria di stati emotivi critici.

Ciò ha un diretto legame col fatto che nelle tragedie vengono messi in scena non tanto gli eventi terribili (conosciuti dai miti) quanto piuttosto la loro preparazione e le loro conseguenze. Gli spettatori si confrontano, attraverso il coro, con la necessità di testimoniare l’esperienza scioccante e di interpretarla: infatti le tragedie mettono in discussione il mito e le strutture rituali che lì si manifestano. Questo riguarda soprattutto il legame tra violenza e sacralità nel rito sacrificale, sulla cui idea si basa la tragedia, come ha constatato Walter Benjamin. 

L’idea che questa  violenza sia collettiva, che non si può scindere dalla specifica presenza del coro, spiega anche la distanza che c’è tra il teatro antico e quello moderno, nel quale l’orchestra, il luogo della danza con al centro l’altare,  separato dalla skené,   va perduto: “questo abisso, che tra tutti gli elementi della scena  porta nella maniera più difficilmente cancellabile le tracce della sua origine sacrale, ha perso sempre più di significato”- scrive Benjamin.

Il dibattito centenario sull’origine dell’antica tragedia da processi cultuali e rituali porta sempre di più all’idea,  formulata in maniera pregnante da Bertolt Brecht, che il teatro, proprio derivando dal culto, e separandosi da esso, è divenuto per la prima volta teatro, cioè riflessione scenica  e superamento giocoso del culto.  La tragedia è un confronto con ordinamenti mitici e rituali non ancora superati, ma nemmeno più acriticamente accettati. «Quando si dice che il teatro ha la sua origine nel culto, si dice appunto che divenne teatro per selezione; dei misteri non si appropriò la missione liturgica, ma il puro e semplice piacere che procuravano», scrive Bertolt Brecht nel suo Breviario di estetica teatrale.

Le tragedie antiche esigono tuttavia che il teatro venga inteso come un luogo di spettacolo sia della lingua che del corpo. Non è un caso che nel mondo contemporaneo un rinnovamento del teatro della tragedia viene tentato di continuo anche orientandosi a forme teatrali tradizionali asiatiche, in cui si sia conservato un legame stretto tra rituale, cerimonia, e rappresentazione teatrale.

Un posto particolare assumono in questo contesto le opere teatrali di Antonin Artaud, che – ispirato dal teatro balinese – chiedeva la liberazione del teatro dalle soverchianti ambizioni delle opere drammatiche. Una lingua ‘sacra’ del teatro, nella sua concretezza sensuale doveva restituire alla lingua parlata le sue ‘possibilità di eccitazione corporea’. Così Artaud mirava ad un’attivazione dell’energia latente, inconsapevole, l’energia che scaturisce da angosce e desideri nonché dall’aggressività dell’uomo moderno attraverso un rapporto mutato con la corporeità, la voce e il ritmo. Per il suo ‘teatro della crudeltà’, che gli appariva necessario proprio nell’epoca della crudeltà massima, quella della prima guerra mondiale, voleva utilizzare pezzi di teatro e sacre scritture come materiale, senza limitazioni imposte dal contenuto oppure dalla qualità poetica dei testi:

se noi oggi ci dimostriamo incapaci di trasmettere un’adeguata immagine di Eschilo, Sofocle o Shakespeare, il motivo molto verosimilmente è che noi non abbiamo più alcuna percezione per l’elemento corporeo del loro teatro. Nel fatto che ci sfugge il lato immediatamente umano, vivente di una maniera di parlare, del gioco con un gesto, di un ritmo totalmente scenico. Un lato che dovrebbe avere almeno lo stesso peso, se non di più, dell’ammirata parte parlata (…) Ma anche se così fosse, anche se questo lato corporeo fosse davvero disponibile, penserei ancora che nessuno di questi grandi autori tragici è il teatro stesso, che è un’occasione della realizzazione scenica e vive solo attraverso tale realizzazione.

Gli aspetti qui abbozzati della tragedia esplicitano nel complesso la differenza tra teatro antico e moderno, poiché per un pubblico contemporaneo proprio in considerazione di tutti i fenomeni della violenza fisica, psichica, strutturale e divina non possono più essere ricostruite le specifiche condizioni di percezione e di riflessione della tragedia del V sec. a.C. L’interesse alla riproduzione della tragedia antica come ‘opera d’arte totale’ non è più conciliabile con l’ugualmente legittimo interesse ad una riproduzione degli effetti che il teatro antico deve aver provocato.

Ambedue gli estremi, il tentativo di insistere su un esercizio artistico museale per esperti, così come la tendenza di adattarsi alle maniere attuali di percepire la violenza e di mettere in scena le tragedie come un massacro sanguinoso, mancano la realtà del teatro della tragedia.

Se si abbandona la pretesa della ricostruzione, resta ugualmente stringente la questione della tragedia come modello di processi teatrali. Il lavoro alla messa inscena delle tragedie antiche obbliga all’esame critico delle convenzioni del teatro borghese, che si basano sull’illusionismo, immedesimazione e psicologia, e su una divisione frontale tra pubblico e scena.

Già  attraverso il continuo confronto critico tra coro e individuo e la rappresentazione di stati di crisi, che espongono gli spettatori alle contraddizioni della loro propria emozionalità, la tragedia antica si sottrae alla comprensione contemporanea del fatto drammatico. Contemporaneamente però rende consapevoli di un elementare condizione del processo teatrale: la compresenza di attori e spettatori. In più si aggiungono le rappresentazioni della corporeità presenti nei testi, che tanto più diventano problemi di messa in scena, quanto più si impone il corto circuito con le forme contemporanee di rappresentazione della violenza.

Una sollecitazione per il lavoro teatrale contemporaneo con le tragedie greche resta perciò proprio la specifica potenzialità della violenza, che veniva portata al pubblico antico attraverso la mutevole attività della parola e dell’ascolto.  Così il teatro della tragedia antica vive della tensione tra l’estrema violenza corporea contenuta nel mito e la formalizzazione di tutti i mezzi di rappresentazione poetici e teatrali. Lo spettatore è sempre testimone e anche complice di questa violenza, e prende parte alla sua immaginaria produzione.

Se già il teatro dell’inizio del XX secolo è stato segnato dalla messa in discussione dei propri mezzi rappresentativi, negli ultimi anni lo sviluppo di nuove forme di teatro ha portato con forza ad una riflessione sulla funzione dello spettatore. Decisiva per questo processo di riflessione è stata la dissoluzione del primato dell’opera drammatica, ma anche l’estetica del perfomativo, così com’è descritta da Erika Fisher-Lichte. Quest’ultima si occupa, per dirla in breve, del significato assunto dall’arte performativa, a partire dagli anni cinquanta del Novecento, nell’attuale cultura dei media, che è divenuta cultura dell’autorappresentazione eccessiva e della messa in scena dei corpi. Anche nei teatri istituzionali si può sempre più osservare l’uso di elementi dell’arte performativa. La penetrazione della performance in di tutti gli ambiti dell’esistenza riflette una prassi rappresentativa autoreferenziale, che in collegamento con i nuovi media ha prodotto un nuovo voyerismo quotidiano. Si consuma quel che si vede, ma non vi si prende parte, la voglia di prendervi parte rimane nascosta: come al cinema, o davanti alla televisione, lo spettatore resta non visto. Nuove forme di teatro reagiscono a questa tendenza in maniera sempre più aggressiva, nel momento in cui espongono lo spettatore proprio in quanto spettatore. Non si tratta di interpellare didatticamente lo spettatore nell’azione teatrale (tua res agitur); e nemmeno di orientare il ‘cliente’ assecondandone i gusti; oppure di aiutare il ‘consumatore’ a comprendere classici che sono difficili, ma al contrario di esperienze di dis-illusione. 

Anche qui sono chiari i paralleli con la ricezione dei film: analisi dei relativi generi cinematografici hanno mostrato non solo un’ intensificazione della rappresentazione della violenza, ma anche uno spostamento dell’interesse sul procedimento tecnico-estetico, con il quale il carattere di copia di ciò che viene mostrato limita e priva di realtà l’orrore. Hanno un effetto scioccante proprio alcuni film, la cui rappresentazione della violenza - come ad esempio il taglio di un globo oculare con una lametta in Le Chien Andalou (1928) di Buñuel – si sottrae alla tradizione del genere e riflette su di essa in maniera ironica, e soprattutto lascia all’osservatore l’interpretazione del senso. Molto istruttiva per la percezione di questi momenti di eccesso è la categoria estetica del sublime, che già nello scritto dello Pseudo-Longino ruota attorno alla violenza della rappresentazione.

 La maniera di rappresentare e percepire il sublime è sempre legato agli oggetti della rappresentazione: al sublime si arriva solo quando argomenti violenti o motivi violenti vengono rappresentati in maniera violenta, cioè né in maniera puramente bella né in maniera puramente armoniosa. L’ambivalenza sottolineata da Kant, per il quale la percezione del sublime suscita dispiacere e contemporaneamente un piacere più alto, in rapporto alle idee di grandezza, infinità e libertà, sottratte alla rappresentazione, gioca un ruolo fondamentale in tutte le più recenti teorie del sublime. Da questo punto di vista, quanto più nella tragedia si verifica l’orrore e la violenza della rappresentazione, tanto più la tragedia stessa perde in significato generale e in valore universale, trascendente. Considerando la tragedia come genere esemplare del sublime questa crisi si mostra già in Hölderlin, che in occasione delle sue traduzioni da Sofocle abbozza l’idea di un evento che nell’immaginazione dello spettatore doveva produrre qualcosa di non rappresentabile, anzi addirittura di impensabile. La violenza della tragedia è perciò proprio una violenza della rappresentazione, se il suo ‘calcolo’, come scrive Hölderlin, si indirizza al ‘cambiamento delle rappresentazioni’ e infine all’apparizione della ‘rappresentazione stessa’. Questo momento della cesura non produce una certezza religiosa o, come in Schiller, l’ideale della libertà e della fratellanza di tutti gli uomini, ma una specie di orrore assoluto, l’inumano, che è l’inevitabile altra faccia dell’idealismo.

Dalla contesa sul senso della tragedia, che si è sempre mossa nell’ambito delle idee sul sublime, è influenzata anche la discussione sulle possibilità e sui limiti dell’attuale prassi della messa in scena. Ci si lamenta, ora come prima, del fatto che ai registi non interessa una adeguata interpretazione delle opere, ma solo gli effetti horror che sortiscono un effetto sicuro sul pubblico, così come un forte ma insensato e perciò riprovevole sfogo di violenza. Quel che al contrario si vorrebbe, in nome delle opere, non è necessariamente una interpretazione ‘fedele’ storica e filologica del testo, ma spesso solo una estetica convenzionale del pathos, del sublime e della trascendenza, nel momento di una violenza giudicata se non pura, sacra e piena di senso, perlomeno chiara ed evidente. Il teatro della tragedia manifesta però, nonostante tutte le interpretazioni idealistiche, sempre una impurità di ciò che è sacro, fragilità nel pensiero dell’assoluto e nell’ordine simbolico della legge. In maniera esemplare Hölderlin ha definito la violenza come atto linguistico, letterale, della tragedia, distinguendo tra parola ‘fattivamente mortale’ e ‘fattivamente omicida’. Così anche l’assurdità della violenza nei drammi più tardi di Euripide attestano una dinamica propria nel progresso della rappresentazione tragica: “L’immediatezza non attenuata di tutto questo parlare su violenza e assassinio deve trapanare dolorosamente l’orecchio”, ha scritto Walter Burkert. La voglia del pubblico di violenza scaturisce dall’esperienza di questo dispiacere specifico, di questo dolore particolare, e porta a pensare che tale violenza è sopportabile, se non viene subito compensata e respinta con l’indignazione morale o la compassione commossa.

A differenza della prospettiva contemporanea, nelle tragedie antiche la violenza agita non era considerata di per sé moralmente  riprovevole, anche se poteva sembrare controversa, almeno se collegata ai rapporti di potere politico. La rappresentazione teatrale della violenza segue, in maniera analoga all’arte figurativa di quest’epoca, leggi proprie, innanzitutto estetiche, che la sottraggono ad una valutazione morale senza però abbracciare, per questo motivo, unicamente il punto di vista dei più forti.

Il discorso sulla violenza della tragedia, in sintesi,  non riguarda solo come realizzare un quantitativo più grande di violenza, crudeltà e sangue sulla scena, ma verte anche sulla violenza specifica della rappresentazione propria delle antiche tragedie greche. Questa violenza tira in causa la forza immaginativa e la responsabilità dello spettatore in teatro, che deve inserire nella sua propria immaginazione l’atto violento sottratto allo sguardo, al limite tra il possibile e il reale. Così la produzione di una rappresentazione della violenza in maniera ‘impura’, cioè non necessariamente sanguinaria, può essere considerata una qualità specifica, e niente affatto scontata, della messa in scena delle tragedie antiche. E così viene decostruito anche il tradizionale pathos del sublime tragico, come mostrano alcune produzioni contemporanee della tragedia greca.  

 Immagine di copertina dal film 'Il cane andaluso' di Buñuel;  le altre immagini dal film Doogtooth (2009) di Yorgos Lanthimos, da Lingua Imperii e Orestea degli Anagoor, da Giulio Cesare. Pezzi staccati, Tragedia endogonidia,  Orestea (2015), di Romeo Castellucci