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«Se qualcuno ti vedesse ora, riderebbe di te: ti comporti da donna!».

La battuta che sigilla l’Eracle di Euripide, nella cristallina traduzione di Giorgio Ieranò, è la chiave di lettura della regia orchestrata da Emma Dante per il «54° Festival del Teatro greco di Siracusa». Battuta intrisa di pirandelliano umorismo, pronunciata com’è da un Teseo-donna, mentre trascina Eracle lontano da una Tebe che rigurgita morte, e gli intima di non voltarsi indietro e di non macerarsi nel dolore. Ma anche Eracle è donna. E donne sono tutti i personaggi della tragedia: il tiranno Lica, il padre Anfitrione, i figli, il messaggero. Solo il coro è maschile.

Il ribaltamento della scelta registica è evidente, e coinvolge tanto la semantica del testo e della messinscena, quanto il rapporto col teatro classico (in cui i tutti ruoli erano demandati ad attori maschili) e con la Storia, troppo spesso vista e veicolata dagli uomini. Ma «nessuna provocazione, nessuno scandalo, nessuna denuncia», ha dichiarato la regista, che però precisa: «Dopo di che è vero che, se una prospettiva può essere ribaltata, questa possibilità è politicamente rilevante in quanto tale». Semmai, c’è una buona dose di ironia, ramificata su vari livelli: il grottesco Anfitrione, che su una sedia a rotelle si muove senza direzione sulla scena; le danzatrici al servizio di Lica, ora dervisci rotanti ora maschere apotropaiche dall’espressione canzonatoria; le musiche, che a tratti paiono creare un controcanto beffardo; e naturalmente la battuta finale, che dispiega appieno la carica umoristica di questa rilettura euripidea. Una rilettura all’insegna della ricerca di un lato fragile, inedito, umano dell’ eroe mitologico delle dodici fatiche, del semidio emblema della forza,  con una scelta che non tradisce il senso del testo classico, perché ne coglie una venatura sottesa ma non pienamente dispiegata.  

Così, lo scempio che, folle e inconsapevole, Eracle compie sulle proprie figlie e sulla propria moglie, diviene disperazione materna, intrisa di impotenza e di paura di ciò che l’essere umano può arrivare a compiere, nonché del tutto aliena dalla volontà eroica di reagire alla vendetta di Era, quale poteva apparire nel testo di Euripide: la scelta di desistere al suicidio è espiazione e sacrificio in vita di una colpa immonda e impurificabile. Parallelamente, l’amicizia fraterna di Eracle e Teseo assume le risonanze di un sodalizio sororale nel dolore e nella consapevolezza di essere burattini nelle mani del Fato, come d’altronde sottolineano le armature, velatamente steampunk, e le movenze meccaniche, a scatti, scomposte, del tutto sgraziate dei due eroi, che fanno slittare la tragedia classica nel teatrino dei Pupi siciliani.

Movenze rigide e veloci che richiamano il combattimento di Pupi siciliani con cui Emma Dante apriva Le sorelle Macaluso, subito dopo la marcia/processione funebre con cui la famiglia entrava in scena.  Un corteo dallo statuto ambiguo, dunque, che dà l’avvio anche all’Eracle: attori e danzatori si dispongono sulla scena a battente suon di tamburo, su un ritmo percussivo e perforante, quasi festoso, in stridente contrasto con lo scenario funerario preannunciato dall’imponente scenografia, ideata da Carmine Marincola in simbiosi con la regia: un cimitero marmoreo, puntellato da 256 loculi tombali con le rispettive foto-ritratto (che molto ricordano le foto adagiate sul proscenio delle Sorelle Macaluso durante il combattimento dei pupi siciliani, quasi a creare degli altarini), incorniciato da grandi croci di legno che girano come piccole pale eoliche, nel quale sacro e profano si amalgamano; al centro una vasca colma d’acqua, vivificatrice e letale, ove si sviluppano i due momenti di acme del dramma (senza, però, che mai si giunga alla catarsi, come prescrive atipicamente il testo euripideo).

Il primo è in levare: la madre e le figlie, pronte al proprio sacrificio imposto Lica, si purificano prima di indossare gli abiti funebri: e nel purificarsi giocano con l’acqua, si schizzano, ridono per l’ultima volta. Un riso-pianto che sprigionava anche in MPalermu, durante lo scialo d’acqua in un una Sicilia che ne è priva; un riso-pianto che nelle Macaluso riviveva nel racconto della prima gita al mare delle sorelle, ove il gioco d’acqua si tramutava in gioco di morte, come nell’Eracle: dalla stessa vasca la moglie e le tre figlie usciranno avvolte in drappi bianchi, al termine della tragedia, uccise dal proprio stesso coniuge/padre/madre.

Come in quasi tutti i drammi di Emma Dante, lo spettatore è immerso in un rito funebre; e come in quasi tutti le sue opere, l’acme tragico avviene attraverso il corpo, il ritmo, il movimento attoriale, la musica o il silenzio, che costituiscono il vero fulcro drammaturgico, entro un’orchestrazione registica ferrea, millimetrica, in cui testo, parola, silenzio, musica, ritmo, scenografia, luce e costumi si implementano a vicenda, fino a costituire un unico campo semantico in un teatro totale e totalizzante. Nell’Eracle, però, la parola euripidea determina un’espansione sconosciuta alla drammaturgia dantesca, connotata da un testo sempre rarefatto, ridotto all’essenziale o addirittura assente, come in Bestie di scena: ma di quel silenzio pregnante, si conserva memoria nelle tre figlie di Eracle, che non proferiscono alcuna battuta e che tuttavia, nelle semplici azioni di stringersi alla madre, tra attaccamento alla vita e spasmo verso la morte, sono figure emblematiche, fortissime, che raggrumano in pochi attimi l’amore e la disperazione di Vita mia.

 Così, pur in presenza di un testo pervasivo quale quello euripideo, Emma Dante riesce a rarefarlo: la complanarità dei vari elementi scenici e drammaturgici è tale che si giunge a momenti in cui la parola diviene pura immagine e suono, come nel magistrale monologo del messaggero, o in cui si disgrega fino a slittare nel punto di fuga dei corpi, divenendo parte del movimento del coro, che assurge qui a un’inedita potenza nella compattezza unisona, densa e scenograficamente impattante.

La pervasiva e ficcante rilettura di Emma Dante agisce, perciò, su più livelli, ribaltando i canoni rappresentativi oramai calcificati nel teatro classico e di parola: ne propone una risemantizzazione che spinge lo spettatore a interrogarsi sul senso della tragedia classica nella contemporaneità, e ne rivela un’inedita e scardinante possibilità di interpretazione e attualizzazione.