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Non poteva mancare nella nostra rubrica, dedicata agli studiosi che hanno segnato l'interpretazione del teatro tragico greco, il ricordo della figura poliedrica e imponente di Carlo Diano.

Ci sembra d'ausilio per le giovani generazioni, e non solo, poter mettere a disposizione questo saggio di Giuseppe Serra, apparso nel volume collettivo L'esilio del sapiente. Carlo Diano a cent'anni dalla nascita, Atti del Convegno - Padova, 23 ottobre 2002, a cura di Oddone Longo, Esedra editrice, Padova, 2003, volume purtroppo di non facile reperibilità. Speriamo di poter tornare ulteriormente su Diano; nel frattempo ci sembra che le pagine di Giuseppe Serra costituiscano un'ottima bussola per orientarsi tra gli scritti più significativi di Diano relativi alla tragedia greca e al tragico. Ringraziamo l'autore per averci consentito la ripubblicazione, e Andrea Rodighiero per averci suggerito l'idea. Segnaliamo che tutti gli scritti di Carlo Diano saranno tra poco disponibili nella collana 'Il pensiero occidentale' di Bompiani, a cura di Francesca Diano, con due saggi di Massimo Cacciari e Silvano Tagliagambe che ricostruiscono la figura e il pensiero dello studioso. Francesca Diano è anche curatrice della recente edizione BUR degli 'Scritti morali' di Epicuro. (S.F.) 

 

 

«Il saggio, se c'è qualcuno che E ascolti, e intendendolo ne veneri la parola, è a costui che ne viene il primo bene»[1]

L’interesse di Carlo Diano per i tragici greci fu costante e profondo: li leggeva quasi ogni anno durante i corsi di Letteratura greca che dal 1950 tenne per vent’anni a Padova; lì tradusse molto: Eschilo e soprattutto Euripide, quasi fossero per lui, come per Aristofane, gli unici significativi[2]. Ma, se nell’ amato Euripide - nell’autore dell’Alcesti e, a suo giudizio, nel­l'inventore della catarsi - Diano credette di cogliere quello che era, per lui, il senso ultimo dell’esperienza tragica dei greci, fu l’Edipo re di Sofocle il dramma al quale dedicò il saggio più illuminante, per noi, fra quanti egli scrisse sul teatro greco. Quel saggio, ora raccolto in Saggezza e poetiche degli antichi (volume da troppo tempo esaurito e che intelligenza e pietà vorreb­bero che fosse sùbito ristampato) si intitola Edipo figlio della Tyche, ed era stato pubblicato nella rivista “Dioniso” nel 1952, l’anno stesso in cui Diano esponeva, nella prolusione patavina, Forma ed evento (ristampato da Marsilio nel 1993), i risultati di quella ricerca sul “caso” - tyche, o, come egli anche traduceva, “evento” - che si sarebbe rivelata decisiva per il suo pensiero.

«Una tragedia attica - così la definiva Wilamowitz nella sua celebre Einleitung- è un pezzo in sé concluso della saga eroica, rielaborato poeticamente in stile elevato per essere rappresentato da un coro di cittadini attici e da due o al massimo tre attori, e destinato ad essere eseguito come parte della festa pubblica nel santuario di Dioniso». Spettacolo allestito per una festa cittadina, la tragedia donava con naturale anacronismo a quelli che noi chiamiamo miti, alla "casta concisione" che ne garantiva il ricordo, la ricchezza e la complessità della vita che animava la città. «Attraverso le maschere  - scriveva Cari Schmitt nel 1957" - si intravvede una realtà storica contemporanea. E ciò che io chiamo l'irrompere del tempo nel gioco del dramma (der Einbruch der Zeit in das Spiel) Non sono, per esempio, i casi dell’amato e odiato Alcibiade ad irrompere, come Diano notava, nelle Fenicie, tanto da riplasmare, rispetto ad Eschilo, le figure  dei due fratelli nemici, Eteocle e Polinice,  e le loro reciproche relazioni? O non potrebbe essere stato il ricordo di Pericle, il "monarca democratico", potremmo aggiungere noi seguendo le indicazioni del Maestro, a torcere in maniera stupefacente la vicenda del protagonista nel primo Edipo sofocleo?[3]

Naturalmente, e Diano lo sapeva, nella tragedia, che non è mai "allegorica", ciascun personaggio (non si preoccupino gli storici!) è solo se stesso, almeno per chi si illuda che il nome proprio sia l'essenza di chi. lo porta. Diano non disdegnava di cercare nel testo dei tragici neppure le eventuali allusioni ai fatti del giorno, che per ovvie ragioni sono le più difficili da individuare e nella maggior parte dei casi potevano venir colte solo dai contemporanei. Il saggio sulle Virtù cardinali nell'Ippolito di Euripide, pubblicato nel 1970, e perciò escluso dal volume Saggezza e poetiche degli antichi, che uscì nel 1968, è dedicato al celebre cacciatore di allusioni nel teatro greco, Édouard Delebecque.

E nella Nota introduttiva alla traduzione dell’ Elettra  euripidea per il teatro di Siracusa, che pure è un modello di analisi fenomenologica dello spazio drammatico, ovvero dello spazio suscitai vento teatrale, Diano accoglieva dal Delebecque la motivazione occasionale, della ubicazione della scena in Argo piuttosto che a Micene. caccia all’allusione poteva addirittura combinarsi in Diano con la soluzione di un problema ermeneutico: così l’allusione ai fatti inquietanti del 411, che egli credeva di cogliere in un luogo difficile e tormentato del secondo stasimo dell’ Edipo re (vv. 892-93), gli permetteva d’intendere la lettera del testo, nonché di giustificare l’apparente incongruità dello stasimo con l’azione, ed infine di confermare la data della tragedia che già era stata proposta da Gennaro Perrotta[4]. E tuttavia, neppure per Diano, l’allusione in senso stretto era mai sufficiente ad intendere l’intenzione artistica o, come egli diceva, la “poetica’' dell’opera. Basti rileggere, per convincersene, proprio quanto egli scrive sulla scelta “argolica” per la scena dell’ Elettra:

«Se tutto questo è materia di fatto, ed è vero, noi dobbiamo concludere col Delebecque che fu l’intenzione politica a determinare la scelta del luogo. E poiché questo era tale da condizionare in qualunque caso la forma e l’azione del dramma, fu anch’essa a precedere la ragione poetica. Ciò non significa che, una volta la scel¬ta fatta, il luogo dovesse essere mantenuto nella sua realtà di mera natura, né che questo potesse essere fatto senza essere accompagnato dalla parallela concezione del dramma. Anche tra le montagne Euripide avrebbe potuto conservare lo sfondo di “sacro”, che nella scena dei drammi di Eschilo e di Sofocle rende inevitabile l’a¬zione di Oreste e di Elettra, e riempirle di nume: basta pensare alle Baccanti Se non lo fece, ciò fu per un’intuizione globale, che, pure mantenendo la priorità formale del luogo, gli fece scoprire ad un tempo le strutture dello spazio destinato alla scena e quelle dell’azione».[5]

Dunque, il “luogo” del dramma, che può anche essere scelto per una ragione estrinseca, gode rispetto «alle strutture dello spazio destinato alla scena e a quelle dell'azione» di una «priorità» che è soltanto «formale», perché primo nella sostanza, ovvero nell'intenzione del poeta e nell'esperienza degli spettatori; non è tanto lo spazio nel qualesi svolge l’azione, quanto quello creato dall’azione stessa, e che del primo è, per così dire, l’anima. E ciò vale non solo per il luogo particolare, designato da un nome e indicato da qualche segno – Argo o Micene, Tebe o Colono, oppure (lo spazio della tragedia attica è sempre esterno) la piazza della città o il cortile del palazzo - , ma anche per quello del teatro stesso di Dioniso: Peter Brook non potrà mai essere confutato dall’archeologo che ricostruisce la mappa “qualitativa” del teatro di Dioniso, perché la tragedia non è un dramma simbolico alla stregua del giapponese, che è illeggibile senza la pianta della scena.

«Fra il Diamat e la bella apparenza, al tedesco non resta che un’ansiosa scelta», scriveva provocatoriamente Schmitt nel 1957. Negli stessi anni chi ascoltò Diano a Padova, e lo capì, fu preservato, o si liberò, da quell’ansia che era diffusa anche in Italia.

   La vera “storicità” della tragedia, insegnava Diano, che pure aveva dedicato un saggio allo sfondo sociale della tragedia attica, consiste precisamente nel fatto, già rilevato da Hegel, che i personaggi sulla scena parlano un linguaggio “reale” (wirklich), oltre che “proprio”. («L’esistenza (Dasein) dei caratteri della tragedia – si legge nella Fenomenologia dello spirito – consiste infine di uomini reali, che indossano i personaggi (Personen) degli eroi e li rappresentano con un linguaggio reale, non narrativo, ma proprio»).  Ciò non significa semplicemente che la tragedia, per dirla con Platone e Aristotele, appartiene al genere “mimetico” invece che a quello “diegetico”, ma significa che attraverso il logos del personaggio il “mito” rappresentato si incarna nel presente: il logos del personaggio, ovvero, aristotelicamente, la sua lexis e la sua diànoia, o, come noi diremmo, il suo stile e il suo pensiero, sono forma del presente vissuto dagli autori e dagli spettatori. Perciò la parola del personaggio sulla scena è sempre un gesto ermeneutico, e le vechie storie, che la tragedia rappresenta, diventano lo strumento per l’interpretazione del presente: ovvero, in termini gallicani, la tragedia non “mette in questione’’ il mito, che per definizione, e in assoluto, è il passato, bensì attraverso il mythos (e qui l’accezione “strutturale” aristotelica s’impone da sé) interroga quello stesso presente di cui è figlia, e proprio per questo, e non solo grazie al gioco della cosiddetta intertestualità, fu sempre costretta a criticare se stessa fino a distruggersi. Il mito non è mai ciò di cui la tragedia parla (solo la storia, anche per i Greci, pretende di parlare del passato), bensì ciò che permette che nella tragedia si parli: condizione, non oggetto, del discorso, il mito nella tragedia è sempre struttura (ancora il mythos di Aristotele) e significante, mai significato. Il personaggio tragico, dunque, parla il logos del suo tempo, e spetta al critico descriverne ed analizzarne le forme, da quella propriamente linguistica, a quelle, che Diano nella Poetica dei Feaci (1957) chiamava forme «seconde» e «terze» rispetto alla lingua, che appunto «è in quanto langue la prima di queste forme e la più universale». «A sé, e come oggetto del pensiero riflesso e materia del discorso - precisava Diano -, queste forme sono a volta a volta etica e politica e retorica e poetica, e quanto altro è del genere»: insomma, «le technai nell’accezione dei Greci», alle quali si aggiungono, «a un grado di generalità maggiore» e come «forme terze», le filosofie e le scienze.

A questa esigenza di metodo soddisfa in maniera ancora una volta esemplare, anche per chi ne contestasse nei dettagli il risultato, V Edipo figlio della Tyche. Come intendere il discorso di Edipo che si proclama figlio della Fortuna, o quello di Giocasta che raccomanda al marito angosciato di «vivere a caso»? Bisogna naturalmente ricostruire il sistema al quale quelle singole espressioni appartengono. Tutta la seconda parte del saggio (la terza ed ultima, giustamente, è quella riservata al riscontro delle allusioni che, come abbiamo detto, permettono di datare il dramma; quanto alla prima, la visiteremo dopo) si intitola infatti II tempo, l'intelligenza e la tyche ed illustra il debito di Sofocle alla cultura del suo tempo e al dibattito che ferveva ad Atene intorno ad Anassagora.

Aristotele, nella Poetica, definisce la tragedia come imitazione di azioni (mimesis praxeon). Anche i più avveduti tra i moderni riconoscono nella tragedia il primato dell’azione. Scrive Peter Szondi nel suo Saggio sul tragico: «Poiché il concetto del tragico s’innalza per sua sventura dalla concretezza dei problemi filosofici nel cielo dell’astrazione, esso deve, se pure vuole salvarsi, immergersi in ciò che di più concreto hanno le tragedie. Questo qualcosa è l’azione (die Handlung). Essa viene naturalmente guardata volentieri dall’alto in basso nella riflessione sul tragico, e tuttavia essa è il costituente più importante del dramma (des Dramas), che ad essa deve, e non a caso, il suo nome». Handlung, “azione”, è la traduzione letterale del greco drama: ma che cos’è “azione”? che cosa significa “agire”? e chi è che “agisce”? Per i musulmani, ad esempio, solo Dio agisce, ma non per i Greci - anzi si potrebbe dire che per i Greci Dio non agisce mai in quel senso. Quando Edipo grida alla fine «Apollo è stato, amici, Apollo!», egli dice forse quello che nella disperazione tutti, ovunque, imputano a Dio, se lo conoscono: ma Apollo, l’Apollo di Delfi, non aveva agito, come invece agisce il Dio che “tentò” Abramo, ma semplicemente gli aveva dato un responso, che Edipo, come qualsiasi uomo - si ricordi Erodoto - doveva interpretare. E Edipo lo aveva interpretato quando non era più tornato a Corinto per evitare il parricidio e l’incesto predettigli dal dio; ma i suoi veri genitori, e lui non lo sapeva, vivevano a Tebe, non a Corinto. Certo, doveva succedere: sempre per l’“eroe” tragico il destino è già fissato, la moira già assegnata, il mythos, il canovaccio, già tracciato. Ma a teatro l’“eroe” s’incarna, riceve corpo e parola “reali”, che lo costringono a rivivere per una seconda volta davanti a noi la storia che da sempre si racconta di lui: dunque a prendere su di sé il proprio destino. Certo se fosse un dio a decidere per lui, e l’“eroe” stesso lo affermasse, non con la disperazione dell’Edipo che abbiamo appena evocato, ma con la fredda, disincantata serenità dell’Edipo che nell’esodo delle Fenicie euripidee contempla la propria vita come se fosse un naufragio il cui spettatore è lo stesso naufrago, non ci sarebbe più tragedia: ma quell’Edipo sopravvissuto ad una vita che non è mai stata sua, è morto alla tragedia, è anzi il sintomo inequivocabile della morte della tragedia[6]: lo stesso Euripide, che a quella morte aveva trionfalmente operato, deve invocare la magia, seppur divina, per concedere al personaggio di non essere dov’era[7]. Ma allora, nella vera tragedia, è l’“eroe” ad agire, a decidere?

L’“evento”, la categoria elaborata da Diano al termine delle sue ricerche sul “caso”16, permette una analisi dell’azione tragica che superi sia il livello del mythos aristotelico come systasis ton pragmaton, il quale coincide, se svuotato della metafisica che lo sottende in Aristotele (il mondo sublunare degli “accidenti”: del “questo”, avrebbe detto Diano), con quello della fabula, plot, “intrigo” dei formalismi e strutturalismi moderni; sia l’opposizione tra “azione” e “carattere”, che Aristotele distingue nella Poetica (ma il “carattere”, nella sua connessione col ‘destino”, daimon, aveva già destato l’attenzione di Eraclito), e che nelle tragedia attica compaiono in una combinazione che Kierkegaard descrisse infallibilmente come segue: «Gli individui non agiscono per rappresentare dei caratteri, quanto li assumono a causa dell'azione», e ancora: «La rovina dell’eroe non è solo una conseguenza della sua azione, ma è anche un patire, mentre nella tragedia contemporanea la rovina dell’eroe non è propriamente patire, ma atto». Diano diceva: «Si è sempre in due a decidere»: infatti 1’“evento”, che è ciò che rivela il mistero della libertà e scopre il soggetto che è capace di portare – tlenai si direbbe in greco – la amartia, la faute tragique, l’errore tragico, non è una “cosa”, bensì una “relazione”, un campo magnetico.

   In un intervento a Siracusa del 1965 Diano esaminava il caso di Laio nei Sette a Tebe di Eschilo: Apollo aveva ordinato al re di salvare la città morendo senza figli, ma egli si lasciò vincere dalle «sue abouliai» e generò un figlio, Edipo, innescando la nota catena di sciagure, che avrebbero colpito lui stesso e Tebe.

«Nell’analisi che Aristotele farà dell’atto della volontà - scriveva Diano - farà intervenire a spiegare l’errore pratico la seduzione del piacere, che è lì presente, mentre il bene è futuro, e non è cosa estranea che operi dall’esterno, ma il sì dell’ anima in cui si rivela la boulesis che ciascuno ignora, e in cui attraverso il piacere ritrova se stesso. Quella di Laio è aboulia, ma compiace al desiderio che pure in lui è così naturale di avere un figlio, e gli si mostra amica come non gli si è mostrato amico Apollo. Qui è l’attimo in cui egli trascorre nella colpa, in uno smarrimento della coscienza che gli rende impossibile ogni boulè, e che Eschilo chiama paranoia phrenoles, un pensare fuori strada che toglie e distrugge la mente.

Trascorre nella colpa. Colpa verso Apollo? Verso la città? Sul piano della rappresentazione cosciente sì. Ma nel profondo dell’anima, l’abisso in cui affondano le radici tutti i nostri atti, la colpa, anche se il divieto non fosse stato di Apollo, e quell’ adescamento avesse avuto contro di sé la sola rappresentazione di un fine che la sua coscienza identificava col bene, quel bene che è l’ultimo termine di ogni nostro desiderio, in quell'abisso, dico, la colpa è contro Dio, nella sua accezione più assoluta. Dio, che non ha bisogno di essere conosciuto da una tradizione teologica e definito nei suoi attributi per essere presente nel cuore dell’uomo, perché in ogni decisione che fuorno prenda, egli è lì, come periferia infinita nel seno della quale l’oscillazione da cui il nostro essere ultimo è definito, si chiude in un evento».

 

Diano faceva il nome di Dio: chi non lo volesse nominare, sappia che alla fenomenologia di Diano il polo trascendente - e trattasi d’una trascendenza strutturale prima che, o meglio, invece che, sostanziale -, col quale l’evento mette in relazione queir altro polo, che è ciascuno di noi, e che, se vogliamo, possiamo chiamare “soggetto”, si rivela ora come “estità”, ora come “nulla”: anche questo un nome, come queiraltro che non vogliamo nominare invano, ma anche qualcosa di “solido”, come esperi il poeta più amato da Diano, Giacomo Leopardi. Anche il Nulla, nell’esperienza dell’eroe tragico, assume un volto: per Edipo, quando si trova spogliato di quella che credeva la propria identità, è il volto della madre che distoglie il suo sguardo da lui. Ma il volto che disvela è insieme il velo che inganna:

«Che si scateni quel che vuole. Intendo

 conoscere il mio seme, anche se è umile.

Lei invece è donna, pensa in grande, lei,

ha vergogna perché non sono un nobile.

Mentre io ponendo me tra i figli

della Fortuna, quella che dispensa il bene,

non ne risulterò disonorato.

Nacqui da questa madre,  e i mesi nati

Con me mi han fatto piccolo e poi grande.

Ecco quello che sono, e non potrei

Rivelarmi diverso, tanto da

non domandarmi qual è la mia origine» (Edipo Re, vv. 1076-1085, versione di Andrea Rodighiero)

 

E ora leggiamo dalla prima parte dell’ Edipo figlio della Tyche[8] qualche riga (ma dovrebbe leggerla tutta chi volesse farsi un’idea dello stile ermeneutico di Diano):

«Ma dire: io mi considero figlio della tyche, non è lo stesso che dire: io mi riconosco dysghenes. C’è in più il passaggio dal particolare all’universale [...]. Nella logica del sentimento il fatto è normale. L’evento singolo nella sua immediatezza è incomprensibile e la mente lo rifiuta, ancor di più la volontà, se l’evento è doloroso: l’uomo non ha pace se non chiudendo, così come può, il circolo dell’identità, La  generalizzazione che il ricorso alla tyche comporta, togliendo alla sorte di Edipo quanto essa ha di personale e d’illogico, alla prima trasvalutazione ch’egli le aveva fatto subire affermandola e riconoscendola sua, ne aggiunge una seconda: la giustificazione, per quanto vaga, nell’idea della necessità che in ogni generalizzazione impresa. [...] E tuttavia la generalizzazione non basta: quell’universalità rimane quantitativa, è la ripetizione del medesimo caso, e però è un’universalità vuota e la necessità è indeterminata: l’animo non vi può trovare riposo. I necessari danni diventano nel canto del Leopardi il ‘‘Fato indegno”. L’affetto non conosce astrazioni: piacere e dolore, amore e odio danno nome e volto a ogni cosa: obbedendo a quella che è la categoria prima della mentalità primitiva, di cui perpetuano la logica, non ammettono causa che non sia in vista del fine[9]. L'universalità non è neanche apparsa alla mente, che già si trasforma, si fa qualitativa e si concreta in una personificazione: l’ os etuchen diventa la Tyche. Cogliamo qui un mirabile esempio, in cui intenzione e obiettività psicologica, che è come dire poetica, fanno uno, il processo logico e affettivo onde le personificazioni si generano. Dire che questa personificazione era nell’uso della lingua, non signifca nulla: essa viene qui naturale e spontanea ed è interamente espressiva, risponde cioè ad una necessità psicologica e poetica e ne è la forma adeguata. Dietro la personificazione mettete l’idea d’una potenza e avete varcata la soglia del divino: è da questa matrice che si formano gli dèi: nel IV secolo ne nascerà la Fortuna».

Ma ancora troppo incerta era ad Atene la figura della Fortuna nell’ultimo decennio del V secolo, e se non è una “bestemmia”, come pareva a Diano, quella di Edipo che si ripara, lui intelligente e audace, ma figlio di nessuno, dietro alla Fortuna che lo aveva aiutato, tuttavia il Coro dei Tebani nell’iporchèma famoso canta il suo re come se fosse figlio di un dio e di una ninfa: il fatto è che il vero solo ad occhi innocenti (si ricordi la favola di Andersen) può mostrarsi nudo.

 

 

[1] Epicuro secondo C. Diano, La poetica di Epicuro», in Saggezza e poetiche degli antichi, Vicenza, Neri Pozza 1968, p. 82

[2] Le traduzioni di Diano sono raccolte in un volume da lui stesso curato: Il teatro greco. Tutte le tragedie, Firenze, Sansoni 1970. Le tragedie tradotte da Diano sono: Eschilo, I Sette a Tebe, Euripide, Alcesti, Ippolito, Eracle, Elettra, Elena, Fenicie, Oreste, Baccanti.

[3] Cfr. G. Serra, Edipo e la peste. Tragedia e politica nell ‘Edipo Re’, Venezia 1994; La fine di Edipo, “QS”, 49 (1999), pp. 5-44; La fine dell’ Edipo Re’, in Il dramma sofocleo: testo, lingua, interpretazione , Verona 2003.

[4] La datazione verso cui si propende oggi è quella del 413 circa: cfr. G. Avezzù, Il mito sulla scena. La tragedia di Atene, Venezia, Marsilio, 2003.

[5] Euripide, Elettra, versione di C. Diano, Armando Agalia Editore, Urbino, 1968, p. 10.

[6] È la ‘poetica’, come avrebbe detto Diano, implicita nel discorso di Edipo a Creonte: la prova più sicura della inautenticità dell’esodo delle Fenicie, che non pochi filologi (compreso Diggle) ritengono spuria.

[7] È il caso dell’ Elena, che approfittando di Stesicoro, ci presenta un’Elena che non è mai stata a Troia, dove fu rappresentata da un fantasma: il tema del doppio ha evidente rilevanza drammaturgica (e i critici lo hanno notato), ma esso è anche la figura della crisi del tragico: di quella crisi che il falsario delle  Fenicie, forse sulla scorta di Aristofane, pretende a modo suo di risolvere.

[8] Essa è intitolata I vaticini degli dei, e consiste nell’analisi diretta del dramma di Edipo. Sicché tutto il saggio appare scandito in tre tempi, che vanno dall’universale concreto del primo, e attraverso l’universale astratto del secondo, al particlare dell’ultimo.

[9] Diano conosceva Lévy-Bruhl, e come lui sapeva che, se i cosiddetti prinitivi non ignorano affatto (o dovremmo dire “ignoravano”?) le “cause seconde”, tutto il mondo è zeppodi quella loro supposta mentalità: solo un severo ascetismo permette anche a noi di rinunciare alla “casualità magica”.

 

Nell'ultima immagine : lucido con la trascrizione autografa di Carlo Diano del papiro ercolanese 1098, dal Perì Eusebeias di Filodemo, col. X. L'edizione di alcuni papiri ercolanesi di Filodemo, all'epoca del tutto nuova, venne condotta fra la fine degli anni '30 e i primi anni '40 e sui papiri ercolanesi di Filodemo da lui ricostruiti e integrati Diano basò due importanti studi che verranno ripubblicati dopo molti anni nella nuova edizione BUR degli "Scritti Morali" di Epicuro per la BUR, a cura di Francesca Diano. Nella vecchia edizione BUR infatti non erano stati inclusi.I due studi fecero poi da apripista per tutti i successivi studi sui papiri ercolanesi. L'immagine è tratta dal gruppo facebook https://www.facebook.com/groups/859787370861862, così come quella dell'epigrafe recentemente apposta a Vibo Valentia. Ringraziamo Francesca Diano per avercene concesso la pubblicazione. In copertina: Lapita e centuaro, metopa dal Partenone di Atene, 446-440 a.C., Londra, British Museum. 

Per ulteriori notizie su Carlo Diano rinviamo al blog 'Il ramo di corallo' di Francesca Diano: https://emiliashop.wordpress.com/2010/12/30/carlo-diano-e-la-cattiva-memoria-della-cultura-italiana/