Traduciamo e riadattiamo per gli scopi del nostro blog alcune pagine di Anton Bierl, professore di Letteratura greca a Basilea, notissimo studioso della tragedia greca e della sua ricezione, membro del comitato di redazione della nostra rivista.
Si tratta di alcuni stralci di un suo molto più ampio saggio apparso nel volume collettivo: ‘Violenza e sacrificio. Dialogo con Walter Burkert’, a cura dello stesso Bierl e di Wolfgang Braungart, Berlin-New York, De Gruyter, 2010.
Su quest’ultimo volume rinviamo alla dettagliata e istruttiva recensione di Andrea Taddei apparsa su “Lexis” del 2013, e reperibile on-line qui. A ragione Taddei sottolinea come nel ricostruire quel che gli studi sulla tragedia greca debbono a Walter Burkert, Bierl tracci anche una genealogia del proprio stesso lavoro, che però si è ampliato al punto da riuscire a cercare le radici mitico-rituali di tutti i generi letterari greci.
Per Burkert come storico delle religioni rinviamo invece alla prefazione di Giampiera Arrigoni alla traduzione italiana di ‘La religione greca in epoca arcaica e classica’ (Jaca Book), e la relativa recensione di Salvatore Lavecchia, ‘Storia della religione e filologia. La nuova edizione della «Religione greca» di Walter Burkert’, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, 2005. Come abbiamo già premesso in introduzione al contributo di Christoph Riedweg, l’intento del nostro blog è in primo luogo richiamare l’attenzione, come Anton Bierl fa cursoriamente anche all’inizio del suo saggio, su quel che l’interpretazione di Burkert ha portato non solo agli antichisti, ma anche a coloro che si occupano concretamente di messa in scena e adattamento della tragedia greca.
Qui vogliamo ricordare come non solo l'atto sacrificale, su cui Burkert ha imperniato la ricostruzione della storia religiosa dell'umanità, sia atto tragico; ma anche come la violenza, che è alla base della caccia e del sacrificio, costuisca la ragione stessa della riflessione sul tragico e di ogni percorso tetrale tragico. Lo diciamo con le parole degli Anagoor, nella documentazione che accompagna Lingua imperii, reperibile qui:
"Ciò che ci sta a cuore è di operare, con una sorta di in-canto, l’attivazione dei processi del ricordo attorno ad antiche odiose abitudini secondo le quali, nelle forme della caccia, alcuni uomini si sono fatti predatori di altri uomini e, ancora nel XX secolo, hanno intriso il suolo d’Europa del sangue di milioni di persone: tanto il suo cuore civile, quanto le sue vaste e bellissime foreste, fino ai suoi estremi confini montuosi. Sulla scena è sguinzagliato un coro di Erinni della memoria o più semplicemente lamentatori che non vogliono più essere stati cacciatori e che di fronte al riemerso ricordo delle vittime, lamentano il peso della colpa della caccia cruenta. Il Caucaso, limite estremo dell’Europa, confine geografico naturale, montagna delle lingue e intreccio fittissimo di popoli, labirinto che traccia e insieme confonde i confini, i limiti e le distinzioni, si ergerà come epicentro della memoria e luogo mitico di questo giudizio, così come nella poesia di Eschilo. La forma teatrale scelta per questa creazione è quella del coro tragico dove il canto e la musica, il gesto e la visione totemica si intrecciano. Una piccola comunità di donne e uomini di diverse età tende la voce-dardo al confine tra il sussulto al cuore, il lamento e il sogno. Fa parte del coro una cantante di origine armena depositaria di un patrimonio musicale tradizionale antichissimo e vastissimo, e della memoria viva di un popolo offeso da un genocidio non dimenticato ma spesso ancora colpevolmente ignorato. Mentre su un grande schermo emerge il volto molteplice della vittima, su due schermi a cristalli liquidi laterali si consuma l’agone tra due ufficiali nazionalsocialisti campioni di pensieri divergenti. L.I., Lingua Imperii, è la lingua dell’impero inteso come dominio coercitivo. È la lingua povera, bruta ed ingannevole delle propagande fasciste. Sono gli alfabeti e le lingue insegnate a forza. Ma è anche il bavaglio o l’assenza di voce imposti come un dono violento dai dominatori. Infine è il linguaggio stesso della violenza."
Ringraziamo Anton Bierl per aver permesso di estrapolare e tradurre per il nostro blog parti del suo saggio, compresa l’utile bibliografia selettiva. (Sotera Fornaro)
Sia Homo necans. Antropologia del sacrificio nella Grecia antica (prima edizione 1972), sia i saggi precedenti di Walter Burkert, ripubblicati con il titolo Origini selvagge [1], sia gli altri suoi libri e contributi che affermano i legami indissolubili tra biologia e scienze umane, hanno avuto un’influenza che va oltre la ristretta cerchia degli studiosi di scienze dell’antichità.
Walter Burkert è diventato infatti un moderno critico della cultura ed anche fonte di ispirazione nel continuo confronto tra arte contemporanea e antichità, nella letteratura, nella pittura o nelle espressioni artistiche pop, cinema e fumetto. Ma fonte di ispirazione e di riflessione gli scritti di Burkert sono stati soprattutto per il teatro, o meglio per le performances, installazioni e rimesse in scena delle tragedie greche.
La tragedia è infatti, a partire dal celebre saggio sul rituale sacrificale (apparso in inglese per la prima volta nel 1966[2]), il genere letterario per antonomasia in base al quale Walter Burkert va al cuore della tematica del sacrificio indicibile e brutale. Burkert scrive:
Ci si può domandare perché proprio la tragoidia si sia trasformata nella tragedia, e non un’ipotetica booidia (canto per il sacrificio del toro) o krioidia (canto per il sacrificio dell’ariete). Al confronto col toro o con l’ariete il capro appare il meno attraente. Ma la ragione potrebbe essere proprio questa: la vittima ha unicamente una funzione rappresentativa, qui si tratta dell’esplosione e della liberazione di una minaccia ineliminabile in ambito psichico, diretta in effetti contro l’uomo. Nel sacrificio del capro tali impulsi sono assorbiti in misura minima dal simbolo contro cui si dirigono; contenuto e forma non coincidono e di qui sorge il bisogno di nuove forme d’espressione. (…)
La tragoidia si è emancipata dal capro. Eppure l’essenza del sacrificio pervade ancora la tragedia che ha ormai raggiunto la sua forma compiuta. In Eschilo, Sofocle ed Euripide la situazione del sacrificio, l’uccisione rituale, il thyein, è pur sempre sullo sfondo, quando non è al centro.
E ancora:
Perché la tragedia è chiamata proprio così, con una parola che lascia trasparire la smorfia bestiale nell’evoluzione della cultura umana più elevata, il primitivo e il grottesco nella più sublime creazione letteraria? Se cerchiamo una spiegazione della parola, siamo inevitabilmente ricondotti ad un’epoca più antica, alle fondamenta religiose della tragedia, al culto greco in generale, né è possibile stabilire a priori se ciò importi anche alla tragedia attica compiutamente sviluppata alla base religiosa della tragedia, e in generale al culto greco. (…) La teoria oggi dominante risale a Welcker e deve la sua popolarità soprattutto a Wilamowitz, il quale invocò a suo sostegno l’autorità di Aristotele. Questa teoria intende tragedia come ‘canto del capro’, nel senso di ‘canto di danzatori che erano vestiti da capri’. Altri studiosi, in particolare quelli con interessi storico-religiosi, restano fedeli all’etimologia antica, che parlava di ‘canto in occasione del sacrificio del capro’, ovvero ‘in occasione del premio consistente in un capro’. A questo riguardo sarà innanzitutto necessario stabilire che in tale questione la critica filologica delle fonti non consente di giungere a una decisione. Se però si prende in considerazione l’essenza del rito sacrificale, ne risulta una nuova prospettiva entro la quale gli stessi drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide rivelano infine uno sfondo rituale.
La tragedia attica diventa così per Burkert una particolare espressione culturale, che esprime il potenziale drammatico-tragico del mito e del rituale come prodotto teatrale, nel contesto di una festa della polis: insomma la tragedia è il prodotto di uno schema preistorico che si adatta a nuovi contesti culturali.
Dietro lo slittamento e la rielaborazione dello schema permane dunque un sostrato dell’età della pietra, il nocciolo originario del sacrificio animale, che sta alla base del sofisticato teatro attico come, in generale, del dramma della vita.
Nella logica di Burkert, questo significa: tutte le occasioni rituali – i misteri eleusini, le Antesterie, il ciclo delle Bufonie oppure gli skira e le Panatenee, le Agrionie o altre feste cittadine nelle quali si celebravano sacrifici – anche quelle private, ad esempio il divorzio oppure la sepoltura, si rifanno ad un modello che si fonda sul rituale della caccia paleolitico, che contiene un grande potenziale narrativo e teatrale.
Il sacrificio è perciò, per Burkert, il metarituale per antonomasia, che genera racconti e la tragedia, anzi la base vera e propria di ogni produzione tragica.
Così Homo Necans, che avrebbe dovuto essere un libro sull’iniziazione oppure una generale storia della religione e delle feste greche antiche, è diventato invece un libro sul sacrificio nella cultura greca ed umana in generale, in cui le analisi di dati singoli si incastonano perfettamente in uno sguardo d’insieme. Ogni dettaglio, come lo svolgimento di alcune feste, ad esempio la ricostruzione delle Antesterie e dei misteri di Eleusi, viene assoggettato allo schema della rottura dell’ordine, dato dal sacrificio, e dalla ricomposizione che ne consegue.
Nel sacrificio, infatti, l’uomo vive un incontro con la morte, che però si trasforma, subito dopo, nel banchetto, ossia nel godimento della vita e nella sua esaltazione. Il sacrificio è allora per l’uomo greco un fatto religioso paradossale, che afferma la vita attraverso l’esperienza della morte, quindi riesce a trascendere la morte.
Dioniso, che Burkert, coerentemente alla communis opinio degli anni in cui scrive Homo necans, intende come una potenza originaria greca, Dioniso dunque è il dio a cui attribuisce tutto ciò che può definirsi ‘drammatico’. Il dio Dioniso diventa cioè una cifra e un simbolo seriore del cambiamento, della metamorfosi nel dramma dell’esistenza umana, in una lettura del mito di Dioniso che è chiaramente influenzata da Friedrich Nietzsche e Walter F. Otto.
La violenza dionisiaca irrompe nella società e infine, attraverso il rituale, il sacrificio viene ripristinato e l’ordine nuovamente ricostituito. L’elemento teatrale e drammatico di questi rituali e dei racconti che li accompagnano sono intesi come dramma simbolico.
Dietro l'analisi del mito delle Pretidi e Miniadi in Homo Necans c’è dunque implicitamente il modello delle Baccanti euripidee. Anche nella tragedia euripidea, infatti, un gruppo di donne, che si contrappone al dio, viene spinto con la follia fuori dalle case, dall’attività che è loro propria, il tessere al telaio, e condotto su per le montagne. Le seguaci del dio si dividono nelle baccanti asiatiche, che sono il modello positivo, che ha cioè accettato il dio, e nelle Menadi tebane, che sono il modello negativo, perché gli sono state ostili. Ambedue i gruppi si affrontano e si contrappongono, così come Dioniso con Penteo, il suo alter ego.
La persecuzione e il sacrificio cruento dell’avversario, che rientra in un rituale bacchico, appartengono, secondo Burkert e altri, alle polarità che si intrecciano reciprocamente, alla coincidentia oppositorum, caratteristica di Dioniso.
Nell’ambito della tragedia Burkert è passato in minima parte dalla storia e teoria delle religioni all’interpretazione letteraria. Burkert vede il motivo del sacrificio presente nella tragedia greca solo come metafora. Segnala dunque l'uso nel lessico tragico delle metafore legate al sacrificio in alcune tragedie, ad esempio nell'Agamennone di Eschilo, quando Cassandra, nel celebre commo, descrive l'uccisione del re che sta avvenendo nella reggia. Ma d'altro canto, non tenta di applicare il modello sacrificale a tutti i testi tragici superstiti. Del resto, come diremo, un solo modello rituale non basta per spiegare la complessità della tragedia greca, in cui si intrecciano invece una molteplicità di riti.
Il modello di Burkert è stato messo alla prova, continuato e ampliato.
Già contemporaneamente a Burkert, in due saggi del 1965 e del 1966, Froma Zeitlin ha analizzato l’uso del motivo del sacrificio nella tragedia come perversione del rituale. Anche Pierre Vidal-Naquet nel 1969 associò il motivo della caccia con quello del sacrificio. La teoria del 'capro espiatorio‘, in collegamento con il rituale del φαρμακός durante le feste Targhelie, divenne, specialmente dopo l’analisi di René Girard, un altro punto centrale dell’analisi del ruolo del sacrificio nella tragedia. Inoltre, dopo Burkert, si sono analizzati soprattutto gli aspetti strutturali del sacrificio nella rielaborazione letteraria.
Helen Foley, quasi vent’anni dopo l'uscita di Homo necans, ha collegato molti principi di storia delle religioni relativi al sacrificio con la specificità della letteratura, con la sua immediatezza e con il suo essere scissa dalla realtà. Nella tragedia attica – come mostrano ad esempio, dopo Froma Zeitlin, Albert Heinrichs e John Gibert, viene trasformato drammaturgicamente il potenziale violento del sacrificio animale. Morte e uccisione dei personaggi vengono presentati con la terminologia propria del sacrificio, che così viene (ri)-messo in scena.
La tragedia, come la commedia, sarebbe nata dal culto di Dioniso e possiede un legame strettissimo con questa divinità anche sul piano delle istituzioni teatrali. Dioniso costituisce per Burkert - come abbiamo accennato - il protagonista segreto, per così dire, di ogni evento teatrale. Perciò si cominciò subito a indagare la funzione specifica di Dioniso e del dionisismo anche nei testi tragici, andando al di là della discussa questione intorno all’origine della tragedia (vedi i saggi di Bierl e Aaronen citati in bibliografia). Alcuni studiosi, analogamente a Burkert, intendono il legame di Dioniso con la tragedia in un senso antropologico più generale, o meglio nella dissoluzione e nel ristabilimento dell’ordine e dell’equilibrio (p. es. Brelich 1975; Bierl 1991; Aaronen 1992; des Bouvrie 1993)
In connessione con la moderna teoria della letteratura si riconobbe in Dioniso anche una dimensione metadrammatica. Dopo Burkert, inoltre, fu di nuovo possibile una lettura ritualistica della tragedia sulle tracce dei ritualisti di Cambridge. Richard Seaford è uno dei più importanti rappresentanti di una tale tendenza. Seaford ipotizza che nel ricorrere di Dioniso e del dionisiaco nella tragedia ci sia un modello drammatico che ha un’origine politica e sociale, modello che rappresenterebbe la distruzione del regime monarchico e la conseguente formazione dell’ordinamento della polis di tipo collettivistico. Inoltre Seaford enfatizza il ruolo dei misteri come sostrato dell’azione tragica.
Le Baccanti euripidee diventano in queste costruzioni teoriche il testo-chiave, come accade anche inconsapevolmente nella riflessione di Burkert, e da questo testo viene fatta derivare, con un corto circuito ermeneutico, la teoria.
Così Seaford interpreta le Baccanti, che sembrano riflettere l’origine del genere della tragedia da riti di iniziazione bacchici, come drammatizzazione del mito fondante, dell’aition, ossia dell’iniziazione del Dioniso tebano. Accanto a misteri che affondano le radici nell’iniziazione che accompagna il passaggio dalla fanciullezza alla pubertà, secondo Seaford, confluiscono nella composizione delle Baccanti anche costumi legati alla caccia e al sacrificio, riti di compianto, lamento e matrimonio, il rito del 'capro espiatorio' e consuetudini legate ai culti della vegetazione.
Burkert si interessa solo al sacrificio come rito costitutivo della tragedia, e tratta gli altri rituali nella cornice del suo libro La religione greca, aggiornato alle acquisizioni allora più recenti della storia della religioni. Ma si riconosce sempre più che i poeti tragici hanno trasformato, nella redazione dei loro testi, tutta una serie di altri riti, ad esempio quelli del matrimonio, dei funerali, delle sepolture, dell’esperienza della morte; e ancora i riti che accompagnavano la richiesta di ospitalità e la supplica, nonché le purificazioni, le benedizioni, i giuramenti, le maledizioni, riti legati alla caccia e alla guarigione, preghiere e litanie, giuramenti, rituali magici, usi sepolcrali, lamentazioni funebri e threnoi, danza, agoni e processioni (come si mostra in Bierl 2007 e 2010).
L’evento tragico, che viene a sua volta performato in un contesto rituale, integra questi riti per lo più nelle parti del coro, che agisce col corpo e non solo con la parola: così si origina, performativamente, un ‘rito nel rito’, e questa potrebbe valere come una definizione di tragedia.
Rinvii bibliografici a cui si fa riferimento nel testo con il nome dell’autore:
Aronen 1992, J.: “Notes on Athenian Drama as Ritual Myth-Telling within the Cult of Dionysos”, Arctos 26, 1992, 19-37.
Bierl 1991, A. F. H.: Dionysos und die griechische Tragödie. Politische und ‘metatheatralische’ Aspekte im Text, Tübingen 1991.
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Bierl/Lämmle/Wesselmann 2007a, A./R./K. (Hrsg.): Literatur und Religion I. Wege zu einer mythisch-rituellen Poetik bei den Griechen, Berlin/New York 2007.
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Burkert 1987a, W.: “The Problem of Ritual Killing”, in: R. G. Hamerton-Kelly (a cura di), Violent Origins. Walter Burkert, René Girard, and Jonathan Z. Smith on Ritual Killing and Cultural Formation, Stanford 1987, 149-176 (traduzione italiana in: Origini violente. Uccisione rituale e genesi culturale, a cura di Maria Stella barberi e Giuseppe Fornari, Milano, Giuffrè, 2018, pp. 217-280).
des Bouvrie 1993, S.: “Creative Euphoria. Dionysos and the Theatre”, Kernos 6, 1993, 79-112.
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Zeitlin 1965, F. I.: “The Motif of the Corrupted Sacrifice in Aeschylus’ Oresteia”, TAPhA 96, 1965, 463-508.
Zeitlin 1966, F. I.: “Postscript to Sacrificial Imaginary in the Oresteia (Ag. 1235-37)”, TAPhA 97, 1966, 645-653.
Nelle foto: Bob Wilson, Edipo Re, Napoli 2018; Ifigenia, liberata, di Carmelo Rifici, Piccolo Teatro di Milano 2017, qui: https://www.piccoloteatro.org/it/2016-2017/ifigenia-liberata. Al centro il Dioniso delle Baccanti dell'Almedia Theatre di Londra, messo in scena con la traduzione di Anne Carson, di cui abbiamo parlato qui.
[1] In parte raccolti nel volume Origini selvagge. Sacrificio e mito nella Grecia arcaica, 1990, tradotto in italiano per Laterza da Maria Rosaria Falivene nel 1992, con la prefazione di G.W. Most, La ricerca assidua delle origini selvagge. Walter Burkert sul mito e il rito, pp. V-XII.
[2] Traduzione italiana La tragedia greca e il rito del sacrificio, in: Origini selvagge, cit., pp. 3-56.