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La voce che nella notte tra il giorno 1 e 2 ottobre 2025 ha intimato l’alt alle imbarcazioni della Sumud Flotilla, arrivate a 80 miglia da Gaza, era di un ufficiale donna dell’esercito israeliano.

Ascoltare una voce femminile che dà un ordine di guerra ha un effetto straniante: alla voce di donna si associa la seduzione, la tenerezza, la cura – non la violenza.  Quell’ordine è risuonato, per chi l’ha ascoltato nei reportages televisivi, ancora più impositivo che se avessimo visto il volto di chi l’ha pronunciato. Parole nel buio della notte.

Le immagini in diretta, del resto, raccontavano pochissimo: immagini sgranate in bianco e nero, volti irrealmente bianchi perché illuminati da fari potentissimi, i soldati in mimetica armati come in guerra, le mani alzate di persone in giubbotti di salvataggio, immobili, raffiche di acqua, probabilmente gli idranti, che colpivano quei volti e quelle mani. Poi, improvviso, un quadrato nero che significava la fine delle comunicazioni e il vuoto. L’abbordaggio era finito.

Con queste immagini mute contrastava la voce sprezzante, autoritaria e urlata di chi, in tv, esultava alla fine della ‘pagliacciata’ e auspicava che le imbarcazioni fossero colate a picco. Voci da brivido.

Un’altra voce è protagonista di un film, Orso d’argento alla Mostra del cinema di Venezia 2025, da fine settembre nelle sale. Un film che ha commosso, indignato, che ha addirittura suscitato giudizi negativi, non so quanto autorevoli, dal punto di vista estetico. Un film che non è un documentario ma si serve di materiale documentario: ossia della telefonata disperata di una bambina di sei anni, Hind Rajab, rimasta per ore accanto ai cadaveri degli zii e dei cugini, in un’automobile crivellata di colpi in una stazione di servizio in un quartiere di Gaza.

Avvisati da uno zio della bambina che vive in Germania, gli operatori della Luna rossa si sono messi in contatto con la bambina, che rispondeva al cellulare dello zio e che, disperatamente, chiedeva aiuto e soprattutto diceva e diceva ancora: ‘venitemi a salvare’.

Il film racconta la disperazione e l’impotenza degli operatori, le difficoltà insormontabili dovute all’esercito israeliano di mandare qualcuno a salvare la bambina. Un’autoambulanza stazionava a solo 8 minuti da lei, ma non poteva muoversi, perché i ‘corridoi sicuri’ sono stabiliti, con un lunghissimo processo burocratico, dall’esercito israeliano – e sono stabiliti con l’intento preciso di evitare che la Luna rossa o altre organizzazioni umanitarie, come la Croce Rossa o Medici senza frontiere, riescano a portare aiuto alla popolazione palestinese.

Dopo ore e ore, finalmente un’autoambulanza riesce a raggiungere Hind Rajab: ma proprio accanto all’auto dove è nascosta la bambina, probabilmente ferita gravemente, il mezzo di soccorso viene fatto saltare in aria, forse da un missile o da una bomba, con un’operazione militare chirurgica, come si usa con i terroristi (operazioni che abbiamo visto tutti nelle serie televisive israeliane come Fauda).

Alle 19.30, nel buio, la voce di Hind Rajab si spegne per sempre. I cadaveri, quel che resta dei corpi della bambina, dei suoi parenti, degli operatori sanitari saranno ritrovati solo 12 giorni dopo, al momento del ritiro dell’esercito israeliano dalla zona ormai resa terra bruciata.

La protagonista del film è la voce spaventata, urlata, poi flebile, rassegnata, implorante di Hind Rajab alla quale gli operatori danno un volto, chiedendo una foto alla madre, rimasta angosciata a casa e anche lei in contatto telefonico con la bambina.

Le voci delle operatrici sanitarie, la loro difficoltà a non cedere alla disperazione e alla commozione, la tenerezza, e la voce della madre della bambina, rassicurante pur in un tangibile dolore, sono voci femminili che si oppongono a quella impositiva della donna ufficiale che ha fermato le imbarcazioni della Flotilla. Sono voci tragiche che si oppongono tra loro e le cui parole – come diceva Omero – penetrano nel petto, cioè nella mente di chi le ascolta, come frecce acute. Sono voci che ci chiamano in causa, ci sconvolgono, ci accusano di indifferenza.

All’ordine della soldatessa israeliana abbiamo visto opporsi mani alzate in silenzio da parte di chi era sulle imbarcazioni: lo stesso gesto di molti dimostranti pacifici nelle piazze di ieri 3 ottobre, davanti agli scudi, ai caschi e ai lacrimogeni della polizia; alzare le mani non in segno di resa ma di pace e di non violenza. Le mani alzate sono vuote, non portano armi né oggetti, sono mani leggere e non ‘pesanti’, come Omero chiama le mani dei guerrieri che impugnano la lancia. Ma non sono mani senza efficacia: si alzano perché si appellano a un occhio superiore, nell’antichità al Sole divinizzato o a un altro dio, come nella Bibbia, perché guardi l’ingiustizia e venga in aiuto. Le mani alzate sono un gesto di supplica, e i supplici sono sacri.  Raffigurate sulle tombe di chi era morto per un atto violento o prematuramente, le mani alzate sono però anche un avviso per i profanatori e invocano giustizia (e vendetta).

Ma torniamo alla voce di Hind Rajab, alle sue grida disperate. Condividiamo la necessità di renderla protagonista non di un documentario, ma di un prodotto estetico, cioè di un film, perché nessun prodotto estetico – che sia letteratura, teatro, arte, fotografia o cinema – può essere considerato indifferente al proprio tempo, né può essere scisso da una funzione politica che si indirizza a chi fruisce di questo prodotto. Si chiama esperienza estetica, ma non ha nulla a che vedere con l’autonomia dell’arte. Al contrario, è presa di coscienza, è spinta all’attivismo, è capacità di arginare le censure di ogni tipo e le minacce - ormai preoccupantemente diffuse a ogni livello – per incidere nella realtà. Perciò tutti i totalitarismi hanno cercato di asservire l’arte, per la sua immensa potenzialità politica e sociale sovversiva.

La voce di Hind Rajab usa una strategia estetica ed emotiva che è già antica: la voce di un bambino che non si vede, che è in pericolo di vita e chiede aiuto. Il modello è ancora una volta nella tragedia greca: i figli di Medea, nell’omonimo dramma di Euripide, vengono uccisi fuori scena, dietro le quinte. Ma gli spettatori odono distintamente le loro grida d’aiuto e i loro richiami al soccorso, rivolti sia alle donne del coro, che sono in scena, sia allo stesso pubblico, che potrebbe spezzare la quarta parte e irrompere nello spazio scenico. Sono grida strazianti, tanto più perché invocano anche la madre, Medea, che in silenzio li ha afferrati e sta per colpirli a morte.

Non accade niente: le donne del coro restano al di qua della porta chiusa, non tentano nemmeno di entrare nella casa dell’infanticidio. Il pubblico è ammutolito dal terrore e forse anche dalla pietà, dato che queste sono per Aristotele le due emozioni tragiche. Sappiamo che i bambini di Medea muoiono, per mano della madre.

Anche la voce di Hind Rajab si pone su un piano mitico, ossia non della storia evenemenziale. È un grido d’aiuto che supera ogni definizione geografica, ma anche ideologica e storica. Se la voce della soldatessa israeliana che ha intimato l’alt agli attivisti pacifici della Flotilla si spegnerà, come si sono spenti gli echi delle voci forti e stridule insieme che imperavano nelle radio e nell’aria europea dagli anni Venti al 1945, le voci tronfie e impaurenti dei dittatori, la voce di Hind Rajab avrà echi infiniti. Lontano da noi chi non riesce a sentirli, chi resta chiuso nel proprio egoismo vorace, chi cerca rassicurazioni meschine nel denaro e nel benessere, chi crede di stare dalla parte più forte, di chi si sente forte della sua violenza, verbale e psicologica. Per parafrasare i versi dello scrittore e poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008), autore tra l’altro della dichiarazione d’indipendenza della Palestina del 1988, che si guardino dalla nostra fame e dalla nostra ira[1].

https://www.hindrajabfoundation.org/memory/hinds-story

 

[1] “Guardati… Guardati dalla mia fame e dalla mia ira”. Dai versi è tratto il titolo del libro di Milena Agus e Luciana Castellina sulla sanguinosa rivolta di folla di poveri braccianti e delle loro donne a Cerignola, in Puglia, nel dopoguerra, dopo un comizio di Giuseppe di Vittorio.

Immagini dell'abbordaggio della Global Sumud Flotilla