La tragedia, nonostante alcuni proclami critici del secolo scorso, non è mai morta, né ha bisogno di essere resuscitata.
Ed infatti le tracce tragiche greche sono costantemente ripercorse e riproposte nei teatri, nel tentativo di rendere rappresentabile e descrivibile, con linguaggi contemporanei, ciò che accade intorno a noi, le grandi questioni del presente e le tragedie del nostro tempo e del nostro vivere.
Vero è che il concetto di ‘destino’ può sembrare all’uomo del XXI secolo, epoca di post-umanesimo, ormai antiquato: eppure da alcune visioni tragiche teatrali, come ad esempio quelle geniali di Robert Wilson, continua a sprigionarsi un’aura, un’atmosfera di fatalità, un confronto continuo e drammatico dell’uomo con sé stesso e con qualcosa che è fuori di lui e che non riesce ad afferrare e a comprendere.
Possiamo pure mettere in soffitta l’idea di ‘destino’ e della tragedia come lotta dell’essere umano con il destino. (Il destino come è concepito nell’Ottocento, invero, nemmeno compare nelle tragedie greche). Lasciamo pure da parte una concezione fatalista della storia umana: non toglieremo nulla all'attualità della tragedia (greca).
Le tragedie greche raccontano, infatti, vicende umane e conflitti sociali, rapporti gerarchici e di potere, contrasti politici e familiari: però la loro tragicità, quella per cui hanno suscitato terrore e pietà sin dal V sec. a.C., appare sbiadita rispetto a quel che accade intorno a noi.
Ciò che riusciamo a vedere e ciò che riusciamo ad immaginare oggi è così abnorme e impaurente che i linguaggi teatrali sono in affanno. La tragedia non è morta, ma fatica a raccontare e rappresentare orrori, catastrofi, disperazioni indicibili e collettive. La domanda è semplice: cosa può la tragedia (genere drammatico) rispetto alla tragedia e alle tragedie del presente?
Può ancora molto. Innanzitutto, può imporre la presenza del corpo umano. La tragedia teatrale mette infatti in gioco il corpo (dell’attore e del pubblico) e lo espone nella sua fragilità, ma anche nelle sue potenzialità e nella capacità di trasformazione, nella forza di dominare e influenzare altri corpi e ciò che lo circonda.
La tragedia, cioè, sposta il focus dai fatti all’uomo che ne è protagonista, e in particolare mette in primo piano il corpo dell’uomo, che non è solo quello della vittima o del capro espiatorio, della cosa vulnerabile in balia della forza, del potere o del destino. L’uomo, nella sua fisicità invadente, è anche l’artefice della distruzione, il tiranno che consapevolmente e con determinazione stermina altri uomini e altre forme di vita. Anthropos, tiranno, recita il titolo di un dramma di Alexander Eisenach, ispirato al mito di Edipo, che abbiamo tradotto e commentato (https://www.visionideltragico.it/index.php/rivista/issue/view/3).
La tragedia può essere intesa allora come allegoria del potenziale tragico dell'essere umano. L’uomo è quella incredibile, immane creatura del primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, capace di meraviglie ma anche di atti mostruosi, creatura ibrida, adattabile, che suscita stupore e insieme sgomento.
Ma anche per un secondo aspetto la tragedia è necessaria, non è mai morta e non ha bisogno di rinascere (con buona pace di un recente e discusso discorso americano di Milo Rau: qui). Non perché stimoli a un ‘pensiero critico’ - anche questa una formula che comincia a puzzare di muffa -, ma perché invita ad agire e ad agire concretamente, perché spinge all’attivismo e alla resistenza. Il concetto di resistenza non va più legato storicamente solo al nazi-fascismo, ma va inteso come forza creatrice, che non cerca necessariamente lo scontro con i poteri, ma vuole stabilire ponti, reti e micro-resistenze che costituiscano alternative ai poteri e alla violenza, fisica e psicologica, imposta dai poteri. La resistenza, insomma, come affermazione di libertà.
Questa resistenza è la resistenza di Antigone.
Il gesto di Antigone, che si oppone a un editto ingiusto e tragico che nega la sepoltura al cadavere di suo fratello, è un gesto di resistenza non violenta ma dirompente, resistenza a un potere tirannico ed egoista. È il gesto forte e irragionevole contro un uso strumentale della ragionevolezza. È il gesto che richiama alla vulnerabilità ed alla dignità del corpo che non può (più) difendersi e ne afferma i diritti contro la violenza inaudita, non solo fisica ma anche verbale, del potere costituito. È un gesto inutile ma simbolico, e perciò capace di sovvertire l’ordine sociale e di capovolgere gerarchie tradizionali. Un gesto immenso.
Ed è lo stesso gesto che in questo momento stanno compiendo le leggere imbarcazioni della Sumud Flotilla navigando nell'azzurro inquietante verso Gaza, nonostante le minacce delle navi da guerra israeliane: un gesto inutile, per alcuni; di fatto un gesto dagli echi indominabili, un gesto che, come quello di Antigone, mette in gioco la vita di chi lo compie.
Un gesto - come quello di Antigone - infinito.
Riferimenti:
Checchi, Marco. 2020. The Primacy of Resistance: Power, Opposition and Becoming. First edition. London: Bloomsbury Academic. https://doi.org/10.5040/9781350124486