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In conseguenza dell’emergenza sanitaria, ‘Visioni del tragico’ è diventata anche una piattaforma di discussione su problemi connessi alle crisi dovute alla pandemia, secondo precise linee di riflessione Da allora, una parte degli interventi di questi mesi si è fermata sulla complessità richiesta all’Università in tempo di crisi e sulle questioni sollevate dall’uso obbligato della didattica a distanza. Si tratta di un aspetto essenziale e vitale per il futuro dell’ Università, non solo nella sua funzione formativa, e siamo perciò onorati e felici di poter pubblicare un intervento in proposito di uno studioso di vaglia ed esperienza come Guido Avezzù (per la cui bibliografia sino al 2018 vedi qui ), che non potrà che sollecitare, si spera, documentate proposte e concrete azioni.  

I

Queste considerazioni riproducono parzialmente il mio intervento, dallo stesso titolo, in occasione del webinar sulla didattica a distanza del Greco tenuto il 20 giugno per iniziativa della Consulta Universitaria del Greco.[1] È ovvio che la questione non riguarda solo il Greco o le discipline dell’antichità, ma l’intero sistema della formazione universitaria. Tuttavia mi pare sia sensato prevedere e possibile dimostrare che, nel caso di un’applicazione sistemica della didattica a distanza (DaD) la macroarea umanistica, in quanto area “debole”, riceverà il contraccolpo più pesante.

Sarà opportuno chiarire di cosa stiamo parlando: della DaD universitaria in un sistema pubblico com’è quello italiano,

  • nel quale la formazione universitaria realizza una funzione capitale dell’istituzione pubblica;
  • che è impostato sul modello dell’università humboldtiana affermatasi nel Continente dopo Sedan: un modello generalista o, per meglio dire, pluralista, che comprende aree disciplinari anche molto diverse all’interno di una cornice nella quale l’alta formazione tecnica e professionale è affidata a scuole superiori, politecnici, università commerciali, eccetera;
  • nel quale i costi sono solo parzialmente coperti dalle contribuzioni studentesche, che non dovrebbero superare il 20% delle entrate; dunque un’istituzione dove l’“utente” non è propriamente un “cliente”;
  • che non è organizzato sul modello del college e nel quale, anzi, la ricettività destinata alla popolazione studentesca (collegi, case dello studente ecc.) è minima;
  • dove il numero degli studenti influisce a vario titolo sulla determinazione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) assegnato annualmente alle singole università, e perciò queste competono fra loro soprattutto per acquisire una platea studentesca sempre più ampia; sotto questo aspetto è evidente che l’autonomia degli atenei non costituisce il toccasana auspicato da alcuni: visto che sono finanziati dallo Stato proporzionalmente da un lato agli immatricolati, dall’altro agli studenti che non superino il 1° anno fuori corso, gareggeranno sui numeri e non sulla qualità – con il corollario che la finzione di una “clientela” comporta una fatale distorsione quanto alla sua “soddisfazione”: chi ha mai letto documenti prodotti dai Presìdi della Qualità che si discostino, nel contenuto e nella forma, dall’imparaticcio diffuso dagli organi centrali, con la sua gergalità vagamente socio-psico-pedagogica racchiusa in una cornice autorassicurante di luoghi comuni burocratici? Eppure sappiamo – in molti se non tutti – cosa servirebbe e cosa chiedono gli studenti più preoccupati del loro futuro;
  • un sistema, dicevamo, dove la potenzialità occupazionale dei titoli conferiti dagli atenei dipende prevalentemente, se non esclusivamente, dal dinamismo economico dell’area nella quale si trovano, piuttosto che dal riconoscimento di un’“eccellenza” ai titoli che essi conferiscono;
  • dove, per finire, le università, sia pubbliche che private, non sono raggruppate in “cartelli”, al contempo marchio di qualità e lobby politico-economica (tipo il Russell Group britannico): in questa guerra di tutti contro tutti ogni colpo è consentito.

È opportuno anche precisare quali sono le prospettive riguardo alle modalità della DaD, da sola o in combinazione con la didattica in presenza – su questo sussistono, mi pare, consistenti ambiguità che ostacolano una valutazione obiettiva. Si prospettano varie alternative; queste, dev’essere chiarito subito, non hanno un significato meramente tecnologico, ma influiscono direttamente sui connotati del lavoro intellettuale, da entrambi lati della cattedra:

1. didattica integralmente in presenza, presumibilmente per gruppi numericamente compatibili con le misure sanitarie; nel caso di una platea studentesca più numerosa si offrono due possibilità: replica della lezione in presenza (ma richiederebbe una radicale riforma del “contratto” dei docenti e/o una ristrutturazione dell’occupazione universitaria – pertanto è impraticabile); registrazione della lezione, fruibile a turni in aula (altamente improbabile) o a distanza: sarebbe la DaD asincrona, vedi (3):

2. DaD sincrona (lezioni accessibili in diretta solo agli studenti iscritti all’insegnamento, in conformità al piano di studio sottoscritto),

3. DaD asincrona (lezioni registrate, accessibili da una piattaforma telematica riservata agli iscritti all’insegnamento, come sopra);

4. DaD mista, definita “blended”, con scarsa chiarezza, finanche nei bandi promulgati per organizzarla; il termine è ambiguo, in quanto “mista” può significare (4a) la coesistenza nello stesso corso di studio di insegnamenti solo in presenza e insegnamenti solo a distanza, (4b) insegnamenti parte in presenza e parte a distanza, con DaDd sincrona e/o asincrona, (4c) insegnamenti a distanza con lezioni sia sincrone che asincrone; dove queste pratiche sono già in uso da tempo, sono designate con “blended” le tipologie (4b) e (4c).

La prassi dell’iscrizione agli insegnamenti, menzionata ai punti (2) e (3), adottata per normalizzare i piani di studio e assicurare una corrispondenza fra insegnamenti ed esami nelle diverse annualità, tende a fare dell’università pubblica italiana un ibrido: spinta a chiudersi con il ricorso a login, password e badge, come quella anglosassone, resta molto lontana da quel modello, se non altro perché il suo non è un pubblico di “clienti”. Corollario: la lezione non sarà più pubblica. E fino a quando saranno pubbliche le biblioteche universitarie?

Le alternative fra le diverse pratiche devono essere commisurate contro lo sfondo che ho cercato di tratteggiare all’inizio.

 II

 In questi mesi di pandemia abbiamo assistito a un intervento concettualmente “estremo” (Giorgio Agamben, L’invenzione di un’epidemia)[2] che alcuni hanno giudicato estremistico o esagerato. Forse vi si dovrebbe distinguere fra quanto c’è di più saldamente motivato e quanto risponde a un’insofferenza non priva, comunque, di buone ragioni; ma l’esortazione a non esagerare ha risonanze sinistre, soprattutto quando la si applichi a un invito alla consapevolezza critica e alla memoria storica. Abbiamo assistito anche a vari interventi – ragionevoli, accorati, talvolta spiritosi – in difesa dei valori di una pedagogia nella quale il dialogo in presenza è irrinunciabile; a lettere al Ministro, che non ci si può esimere dal firmare per dignità, coerenza e responsabilità, anche se tutti sappiamo che ottengono ben poca considerazione non solo presso colui cui sono dirette, ma anche nella stampa; e a dichiarazioni di gruppi di docenti e ricercatori, anche queste più che ragionevoli, che però, se superano il vaglio del Consiglio del loro Dipartimento, restano lettera morta anzitutto nell’istituzione accademica – dobbiamo intenderlo come un sintomo di indifferenza, o di volontaria condivisione delle prospettive aperte dalla DaD?

A costo di passare per estremista, penso che la DaD non sia concepita unicamente come un ripiego emergenziale, bensì come una risorsa permanente, con l’intento di affiancarla sempre più massicciamente o di sostituirla alla didattica in presenza in un sistema universitario che, tranne poche aree in singoli atenei, si adatti a restare in “serie B”, o peggio. Eretta a sistema, non è altro che l’alternativa tra research university e teaching university che si poneva coi reclutamenti post 1999; come allora, nelle aree “deboli” c’è, almeno apparentemente, chi si lascia guidare dalla vocazione a separare didattica e ricerca – magari con la prospettiva illusoria che, collocata la didattica sulle piattaforme delle “nuove tecnologie”, resterà più tempo per la ricerca. In questa prospettiva, la DaD rappresenterà una risorsa decisiva nella gara a ottenere più iscritti e a fidelizzarli nei modi previsti dalla normativa del FFO. Le dichiarazioni ragionevoli, accorate, e spiritose, niente possono in un campo dove chi detiene il potere decisionale è orientato verso la DaD. Anche insistere che altro è la didattica universitaria e altro l’e-commerce potrebbe non sortire alcun effetto. E non soltanto perché si sta già assistendo a una specie di arrembaggio, da parte di editori molto presenti sul mercato universitario, per assicurarsi grazie alla DaD maggiore visibilità, oggi, e una più ampia fetta di mercato con prodotti diversi dal libro, domani. Ma per la propensione della stessa Conferenza dei Rettori (CRUI) a farsi veicolo della mutazione: esplicitamente, da ultimo (per ora) con webinars ad hoc, gestiti da Federica Web Learning, una costola dell’università Federico II – per i conoscenti Federica, tout court. Altamente significativo il titolo del ciclo:

 E-learning: da soluzione di emergenza a innovazione di sistema. Istruzioni per la fase 4.0[3]

 Poco conta che recentemente la CRUI abbia lanciato un messaggio di segno opposto:

 I rettori in coro: studenti in aula a settembre[4]

 Come coro non c’è male – una palintropos (o dystropos?) harmonia – ma chi era, dal 28 maggio al 17 giugno, a cantare nei webinar l’«innovazione di sistema»?

Non meno problematiche certe affermazioni dello stesso Ministro, che sembrano preparare il terreno facendo leva sulla customer satisfaction. Il 12 giugno Sette, supplemento del Corriere della Sera pubblica un’intervista al Ministro MUR; fedele allo stile della testata, la titola così

 Il ministro dell’università Manfredi: «Tutti in aula a febbraio».

 Però la giornalista a un certo punto osserva

 Lei è soddisfatto, ma gli studenti chiedono di tornare in aula a settembre.

 Sarà vero, non sarà vero, chissà? Sappiamo tutti come sono architettate le cosiddette interviste, e questo sembra un assist su misura per l’intervistato, il quale risponde:

 «Dal nostro monitoraggio risulta che ci sono stati picchi di un milione e duecentomila studenti al giorno che hanno seguito le lezioni a distanza: addirittura per alcuni corsi è stata superiore la frequenza online che [sic] quella in presenza» […] «Si sono laureati 70 mila studenti ed è stato fatto un milione di esami [ovviamente: nella sessione invernale, solo sfiorata dalla pandemia, N.d.a.]: si tratta di cifre comparabili con lo stesso trimestre dell’anno scorso».

 Ed ecco l’argomento decisivo:

 «Da quello che è risultato dal nostro monitoraggio quattro studenti su cinque sono stati soddisfatti [scil.: delle lezioni online]».

 Per due volte in poche righe sentiamo parlare di questo monitoraggio MIUR. Ma non viene detto da chi è stato fatto e con quale metodologia. Il Ministro per finire rassicura:

 «andranno per il momento garantite sia lezioni in presenza che lezioni per chi non torna. Poi speriamo che a fine gennaio, al termine della prima parte dell’anno, si possa far tornare tutti in aula»,

 ma, al contempo, prevede sviluppi futuribili: «si lavora a un software che scopra chi copia», che «capisca dalle pause e da altri segnali se lo studente sta copiando». Certo, potrebbe dare qualche qualche problema col Garante della Privacy… E, soprattutto, con tanti software antiplagio che esistono per gli elaborati scritti, perché commissionare la programmazione e lo sviluppo di un’applicazione che misurerà, immagino, anche le esitazioni della voce? Come tutti gli investimenti deve prevedere termini temporali almeno medi e possibilmente lunghi – un “acquisto per l’eternità”.

E il 16 giugno, intervenendo, a distanza, a un’iniziativa dell’Università della Calabria, il suo intervento è intitolato:

 Si torna in aula, ma didattica a distanza servirà ancora.[5]

Il che comporta che «La dimensione fisica è irrinunciabile per l’università. Ma» esorta il Ministro «evitiamo crociate antitecnologiche». Non è soltanto un rimprovero a presunti luddisti, contiene anche una pars construens: «la didattica deve essere più interattiva». Qualche passaggio mi sfugge, a meno che questa “interattività” sia quella concessa dai «device» ai quali accenna il Ministro, e non coincida con il «contatto e l’interazione» che – è sempre il Ministro – nella «storia dell’università occidentale ci sono sempre stati». L’occasione consisteva nella pubblicazione dei risultati di un’indagine congiunta di UniCal e della Baden-Württemberg Cooperative State University (DHBW) che, durante la fase 1 della pandemia, aveva coinvolto 871 studenti dell’Università della Calabria e 751 della DHBW. In sintesi, si veniva edotti che

 «alla domanda sulle aspettative del raggiungimento degli obiettivi e delle competenze il 48% degli studenti italiani ha risposto in maniera più che positiva e il 33% in maniera positiva».

 Mi esimo dal commentare sia i numeri, sia la sostanza. Alla fine il Ministro rassicurava, pur se con qualche dettaglio difforme dall’intervista di quattro giorni prima:

 «Da settembre si tornerà prevalentemente in presenza, ma l’esperienza della didattica a distanza resta un patrimonio».

 Dall’emergenza all’innovazione, dunque. Nel complesso, viene il sospetto che altro venga annunciato, e altro si abbia in programma.

 Non passa qualche giorno che il Ministro bacchetta pubblicamente le tante università (circa l’80% di quelle sulle quali ha giurisdizione) che stanno ancora applicando il lockdown. Sembra prevalere l’intento di rassicurare studenti e famiglie – si tratta della platea dei customers.[6] Ma gli atenei vanno avanti in piena autonomia, e nel frattempo deliberano per l’anno accademico 2020-2021 – del quale fa parte anche il fatidico febbraio dell’agognato ritorno. Porto un esempio:

 «** giugno 2020 […] l’ateneo di *** […] ha ritenuto di dover individuare le modalità di svolgimento delle attività didattiche per l’anno accademico 2020-2021 secondo i seguenti principi: […]

Corsi di laurea Magistrale completamente in modalità duale (presenza e distanza);

Corsi di laurea Triennale in modalità a distanza con l’eccezione del primo anno di corso per il quale verranno proposte anche attività in modalità duale (presenza e distanza);

Corsi di Laurea Magistrale a ciclo unico con modalità articolata tra i diversi anni di corso, in funzione di quanto definito dai singoli corsi di studio.

[…] IL RETTORE»

 In sintesi:

  • nessun corso di laurea magistrale biennale esclusivamente in presenza, a prescindere dalla numerosità delle coorti, che potrebbe anche consentire il rispetto delle precauzioni sanitarie. È evidente che la delibera non risponde a un criterio epidemiologico: prevedendo settimane alterne (studenti A-L e M-Z) in presenza e in DaD sincrona, il problema sarebbe risolto su un piano di parità fra tutti anche nel caso di coorti numerose (la compresenza degli studenti nelle aule e nei corridoi sarebbe dimezzata);
  • al primo anno delle triennali coesistenza di insegnamenti in presenza e a distanza. Qui è tutto abbastanza nebuloso: forse si pensa anche al blended, magari a settimane alterne, considerato che le coorti delle “matricole” sono spesso molto numerose;
  • unicamente DaD, invece, al secondo e terz’anno delle triennali;[7]
  • ma soltanto le lauree magistrali a ciclo unico (Medicina e Chirurgia; Odontoiatria; Giurisprudenza; Formazione primaria) godranno della libertà di scelta sull’intero curriculum, secondo quanto sarà deciso dai competenti Consigli e Collegi didattici. Sarebbe assurdo nasconderci che qui i punti forti sono rappresentati anzitutto dalle lauree dell’area medica e, anche se in misura minore, da Giurispridenza. Cioè dalle ex-Facoltà, oggi spesso consapevolmente e accortamente erette in Scuole, con la più forte e socialmente apprezzata finalità professionale. Ha un peso decisivo il fatto che l’area medica, preclinica e clinica, sia la più forte fra le forti, in quanto vi è insostituibile la presenza, vi si prevede la frequenza di laboratori, esercitazioni, internati e, per il personale universitario, la mansione assistenzale talora con responsabilità apicali nell’ambito di macrostrutture sanitarie non esclusivamente accademiche – tutte attività e modalità non surrogabili con la DaD.

Sospetto che questo orientamento risponda a una più o meno consapevole contestazione di alcuni fra i connotati che ho elencato all’inizio, anzitutto l’eredità pluralista. Mentre lo sfondo è rappresentato dalla progressiva riduzione, apparentemente inarrestabile, delle risorse finanziarie destinate in Italia all’università. Quanto alla scarsa porzione della spesa pubblica dedicata all’istruzione e alla ricerca non è necessario allegare i rilievi statistici che tutti possono agevolmente trovare in internet. Mi limito a riprodurre l’andamento del FFO per l’università dal 2007 al 2019, osservando che oggi siamo allo stesso livello del 2008 (ma solo apparentemente, perché dovremmo tener conto dell’inflazione):

 

Niente fa supporre che sia destinato a salire. Non risulta che vi fosse alcuna volontà politica di incrementarlo prima della pandemia e oggi è, con buoni motivi, impensabile. Aggiungiamo che varie università hanno ormai il fiato corto per mancanza di riserve o per un uso improvvido di quelle che avevano. Diversamente da un passato non troppo lontano e che ora sembra felice, oggi le università dispongono di più punti budget che di soldi per impiegarli. Perciò risorse decurtate, mentre gli atenei sono tenuti a vigilare perché le contribuzioni studentesche non superino la quota legale del 20%; anzi, l’emergenza sta portando alla loro riduzione, con motivazioni più che sensate.

 III

 A questo punto preferisco lasciar parlare il Vecchio Oligarca, l’autore della Costituzione degli Ateniesi:

 Πολὺ δ’ οὐχ οἷόν τε μετακινεῖν, ὥστε μὴ οὐχὶ τῆς δημοκρατίας ἀφαιρεῖν τι. ὥστε μὲν γὰρ βέλτιον ἔχειν τὴν πολιτείαν, οἷόν τε πολλὰ ἐξευρεῖν . . . οὐ ῥᾴδιον, πλήν . . . κατὰ μικρόν τι προσθέντα ἢ ἀφελόντα. (Ps.-Xen. Ath. Resp. 3.8-9)

Il Vecchio Oligarca ammonisce che “grandi cambiamenti non si possono fare senza togliere qualcosa alla democrazia”. Le sue parole comportano “che molte cose si possono fare perché il regime politico migliori” – cioè sia più vicino al modello che gli piacerebbe – ma che “questa operazione non è facile, e può avere successo solo se si toglie o aggiunge qualcosa poco per volta” [enfasi mia].

Il Vecchio Oligarca è stato forse il primo a suggerirci che, anche se non ci piacciono, sia i comportamenti politici, sia l’ideologia che li vela, non sono perciò stesso irragionevoli ma rispondono a logiche che cospirano a soddisfare precise convenienze. Le tre affermazioni provocatoriamente allineate nel titolo del mio intervento coincidono con altrettante argomentazioni che, giocate in modi e in tempi diversi ma sempre con la dovuta souplesse, potranno produrre una radicale ridefinizione dei compiti dell’università italiana, facendone qualcosa che si ritiene più adatto alle “sfide internazionali” – adotto intenzionalmente questo gergo che contempla anche l’“innovazione” e le “nuove tecnologie” come fideistici strumenti di elezione per ottenere il risultato. Penso, al contrario, che quelle “sfide” saranno definitivamente perdute, se perseguiremo questi obiettivi, e le passo rapidamente in rassegna.

 

  1. La didattica a distanza offre gli strumenti per ottimizzare le (scarse) risorse:

a fronte di un investimento abbastanza cospicuo non tanto in piattaforme che distribuiscano lezioni riprese con la webcam a casa propria, quanto in veri propri studi di ripresa, di regia e di produzione (come quelli delle università telematiche) si offriranno varie possibilità, non incompatibili fra loro:

  • produrre unità didattiche fungibili in insegnamenti affini e identiche per più anni di seguito;
  • stipulare contratti diversi da quelli oggi vigenti nell’università pubblica, cioè a tempo definito, quando non addirittura anche determinato – contratti che sono ovviamente compatibili con docenti con attività professionali e reddito autonomo, dunque non certamente con gli umanisti.

È facile prevedere che questo comprimerà la varietà intrinseca e la crescita delle aree disciplinari umanistiche, riducendone il turn-over (nel quale già oggi sono sacrificate) e limitandovi gli investimenti di personale e di mezzi. Questa crisi è già annunciata nel sistema universitario britannico, che gode di ben altre disponibilità.

Con riferimento alla disparità fra punti budget (privi di etichetta disciplinare) e risorse economiche, la DaD potrà offrire la leva per destinare i punti budget e, di riflesso, le risorse umane, verso le aree nelle quali è indispensabile la presenza: verso le aree forti, che ho già nominato.

 

  1. La didattica a distanza è democratica:

in questi giorni abbiamo letto che bar e copisterie sono in agitazione: con un buon fiuto mercantile prevedono un calo delle iscrizioni e uno scarso afflusso degli studenti già iscritti. Non è necessario ricordare quanto costa alla famiglia uno studente che risieda a due ore di distanza dall’università, quanto uno studente costretto a trasferirsi per mesi e anni nel luogo dove studia. Potersi iscrivere a un corso di studio totalmente o prevalentemente telematico comporterà un risparmio sensibile e metterà tutti alla pari, rappresentando un vantaggio per tutti, perfino per lo studente che abita a poca distanza dall’università.

Certo, le sue abitudini dovranno cambiare: non più la frequenza della biblioteca, non più il colloquio diretto coi docenti, non più l’interazione educativa fra coetanei e nel rapporto coi docenti… ma di cosa sto parlando? ci sono ancora anime belle che pensano che l’università pre-pandemia fosse questa? parlo dei grandi numeri. In un’epoca nella quale si assiste alla competizione commerciale fra le università, la DaD non solo soddisfa istanze egualitarie ma è anche allineata alla realtà, e non concede niente alla finzione.

 

  1. La didattica a distanza premia le eccellenze:

se anche lo studente più remoto da una sede universitaria può iscriversi e frequentare un’università tutta o prevalentemente telematica col solo costo di un laptop e di una connessione,[8] perché mai dovrebbe orientare la sua scelta con gli stessi criteri che l’hanno guidato finora? Le ore di corriera più quelle di treno, ogni giorno, oppure il posto letto? Non più, se può scegliere il meglio a ragion veduta: le università si danno battaglia a colpi di ranking nelle classifiche; saranno anche astruse e poco attendibili, ma ranking e prezzo fanno aggio su tutto il resto, come nei prodotti commerciali. Se posso iscrivermi al corso di laurea telematico in A*** o a quello in Z***, classificatisi fra i primi al mondo o anche soltanto fra 13° e 16° Est e 39° e 45° Nord, senza dover pagare un posto letto in una periferia squallida, più la metropolitana, più il cibo, e posso frequentarlo da casa, col profumo tentatore delle lasagne di mamma, perché dovrei iscrivermi a Roccasmeriglia di sotto, solo perché abito a Roccasmeriglia di sopra?

 Si dirà che questa è l’apoteosi della logica commerciale. Ne sono convinto anch’io. Ma temo sia tutto quello che possiamo attenderci in un sistema autolesionista che ha istituzionalizzato l’Email Market delle tesi di laurea.

 

 [1] Ne è stato coordinatore Giuseppe Zanetto, Presidente della CUG, e vi hanno partecipato Andreas Bagordo, Andrea Capra, David Hernández de la Fuente, Vayos Liapis, Massimo Magnani, Aldo Tagliabue, Francesco Tissoni, e Mauro Tulli, Coordinatore del Comitato dell’Area 10 CUN, oltre a chi scrive. A tutti va il mio più vivo ringraziamento per il proficuo scambio di idee e di esperienze in quell’occasione. Alla CUG va riconosciuto di essersi fatta responsabilmente carico di una riflessione cui molti fra gli altri comparti accademici non possono essere obbligati.

[2] In “Una voce. Rubrica di Giorgio Agamben”, presso www.quodlibet.it, il 26 febbraio: (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-l-invenzione-di-un-epidemia). Vi hanno fatto seguito vari interventi, pressoché settimanali, dello stesso Agamben, almeno fino all’11 maggio.

[3] https://www.federica.eu/elearning-webinar-crui-federica/

[4] Questo il testo del comunicato, diffuso da scuola24.ilsole24ore.com il 25 giugno: “I rettori riuniti a Roma e in via telematica confermano il ritorno in aula a settembre. «La didattica a distanza è stato uno strumento indispensabile per garantire il diritto allo studio durante il picco della pandemia. Ma la didattica è un'esperienza formativa sociale, non solo cognitiva. Quindi l'università non può prescindere dall'aula in presenza, ovvero il luogo in cui studenti e docenti si incontrano», è detto in una nota della Conferenza dei rettori. Sempre secondo la CRUI, con questa decisione, «le università confermano la loro responsabilità nei confronti dei territori di appartenenza. Responsabilità che continua a ispirare la progettazione delle misure necessarie a garantire la sicurezza del rientro di studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo». Gli atenei intendono però «tranquillizzare gli studenti nazionali e internazionali che non potranno essere presenti presso i campus, che sarà comunque possibile frequentare grazie alla didattica a distanza», conclude la nota”.

[5] https://www.unical.it/portale/portaltemplates/view/view.cfm?100578

[6] La preoccupazione per studenti e famiglie è più che legittima. Ma il rilancio della famiglia suona sempre piuttosto allarmante, anche perché vi prevale la componente consumistica. È esilarante, mi si consenta, la grande famiglia della rete, quella che in tempi di COVID19 passa il tempo “tutta unita” a parlare, chattare o giocare, ciascuno per proprio conto e con il proprio tablet o smartphone, sotto il marchio di un solo provider.

[7] Per tenerci al Greco, questo significa che nella laurea triennale tutti i corsi avanzati (p. es. una Grammatica greca, o una Filologia greca, o il secondo esame di Letteratura greca), saranno esclusivamente a distanza, a prescindere ancora una volta dalla numerosità delle classi; ma questo vale per tutti i settori disciplinari – certamente nel 2020-2021, e poi?

[8] Sospetto che chi ha ravvisato un elemento di disuguaglianza nel costo di un pc e di un wi-fi non sappia quanto costano (a) un abbonamento ferroviario, (b) un posto letto in una stanza condivisa, (c) un’insalatona + centrifuga in qualsiasi bar, eccetera. E assegni al tempo un costo pari a zero.