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 «Ecce ubi sum»: note rapsodiche sulla tenebra (in)avvertita 

 In fuga dalla peste, in un mondo invaso da cadaveri abbandonati lungo le strade o composti in feretri talmente numerosi da ingombrare le chiese, Francesco Petrarca affidò a una celebre Epystola metrica (I, 14, Ad seipsum) una sofferta analisi interiore.[1] Con la solita acutezza (e inclinando come d’abitudine a una compiaciuta macerazione nell’anelito a traguardi inarrivabili), Petrarca consente qui una vertiginosa osservazione della ricerca di un bandolo tra i viluppi della sua anima.

Nulla che possa sorprendere i lettori del Secretum o dei Rerum vulgarium fragmenta: familiari vi appaiono la topica, i ricorsi metaforici, la propensione all’agone intimo, la contemplazione delle proprie catene adamantine. Né insolito risulta il flusso narrativo del testo: da una descrizione degli effetti del pestifer annus, il trapasso alle sofferenze personali conduce a un vasto bilancio esistenziale. Marca il passaggio una breve osservazione, ovvia solo all’apparenza: «Ecce ubi sum; gelida sic me formidine dense/texerunt tenebre».[2] «Ecco dove sono»: fitte, le tenebre scendono sul poeta come solidificandosi in prigione di terrore agghiacciante.[3]

A rendere tutt’altro che banale l’immagine è l’aspetto della coalescenza (implicito, ma prodromico al texerunt del v. 53), che non delinea un generico brancolare nel buio, mirando piuttosto a sottolineare il carattere materico e individuale dell’oscurità, da cui deriva una cecità feconda, perché propulsiva a un’indagine articolata di sé. In altre parole, la trasposizione metaforica degli effetti di una condizione epidemica, esito evidente di un conflitto,[4] diventa strumento seminale per la ponderazione dei propri conflitti, che non si colmano attraverso il semplice ricorso a un paragone con gli eventi esterni, ed esigono invece un percorso di ricomposizione articolato e doloroso. Che l’esito di un tale tentativo possa essere insoddisfacente, o almeno provvisorio, è altra questione (tipicamente petrarchesca), che non deve porre in ombra l’aspetto cruciale del percorso: il riconoscimento del conflitto (della cecità interiore) e la sua definizione attraverso il ricorso a una metaforica percettiva che, dall’esterno e dalla materia, conduce all’interno e allo spirito.

In tempi dominati dal SARS-CoV-2, non sorprende che insieme ai riusi di paradigmi storici tenda a presentarsi, con frequenza significativa, anche la metaforica delle tenebre. Pur declinata in modo non omogeneo, essa appare pervasiva: ne sono interessate la comunicazione religiosa, quella dei media vecchi e nuovi, le conversazioni a distanza tra cittadini, tra docenti e studenti, gli scontri tra politici di segno opposto. Tenebra è il tempo che stiamo vivendo, tenebra è il distanziamento sociale, tenebra è il vuoto delle piazze, tenebra è la solitudine dell’isolamento forzato, tenebra è il non-luogo in cui si pretende che i politici danzino (ovvero non danzino, secondo il segno di chi si esprime) il loro sozzo trescone.[5] Tenebra, insomma, è qualunque cosa.

Forse meno dannoso della metaforica bellica e bellicista che permea pressoché ogni comunicazione pubblica o privata, ingenerando di proposito derive isteriche e assensi irrazionali (con ciò stesso prefigurando una fase di ritorno alla «normalità» tutt’altro che priva di turbolenze), il ricorso all’immaginario delle tenebre si configura in termini più ambigui, applicandosi anzitutto all’altro-da-sé, sia persona, luogo, oggetto o astrazione. Nulla a che vedere con la prigione oscura, inespugnabile e asfissiante di Petrarca, talmente forte da imporre l’introspezione come sola via di fuga, còlta la parentela tra la tenebra percepita e quella interna.

 Tempi diversi, si dirà, reazioni diverse. È certo possibile, e tuttavia non trovo che questo autorizzi a prescindere da alcune considerazioni: la proiezione esterna delle tenebre (la loro Austreibung, «espulsione», se si preferisce)[6] vanta in realtà un’illustre ascendenza – e richiama alla mente un paradigma ben più lontano dell’antitetica Epystola I, 14 di Petrarca. Al ripiegamento interiore, alla ricerca di un lume che fenda la tenebra, e conduca il conflitto a ricomposizione, sembra infatti sostituirsi oggi un inconsapevole accecamento, da cui consegue l’impaniarsi esiziale nelle trappole di un’oscurità interiore tanto più perigliosa quanto meno è avvertita.

All’inapplicabile paradigma petrarchesco, perciò, è inevitabile sostituirne un altro: quello tragico – ammessa la definizione forse non esaustiva (ma a oggi ineguagliata) fornita da Goethe al cancelliere Friedrich von Müller (6 giugno 1824): «Ogni tragico si fonda su un’opposizione non ricomponibile. Non appena si profili o {divenga} possibile una composizione, il tragico viene meno»[7].

La premessa consente di stabilire che se, nell’Ad seipsum, è tragica la conflittualità alla base della pestilenza, e tragica è forse la posizione di Petrarca nello spazio e nel tempo, non-tragica è invece (e anzi antitragica ‘programmaticamente’, si vorrebbe dire) la via del rischiaramento intrapresa dal poeta: la ricomposizione del conflitto interiore, infatti, è non solo lumeggiata ma ponderata in ogni suo aspetto.

Ben altra, evidentemente, è la condizione di chi colga una tenebra ma, non riconoscendola quale parte di sé, se ne faccia contemplatore, denunziante o persecutore senza intuire la tabe, frutto di cecità interiore, che inavvertita lo consuma. A rendere tragica e a definire l’incolmabile conflittualità di una simile posizione sono aspetti diversi, su almeno due dei quali può essere opportuno soffermarsi: da un lato l’errore, la hamartía,[8] che si configura in termini di confusione prospettica, calcolo improprio, inadeguata decodifica di sé e della realtà circostante, al punto da condurre a una percezione distorta dello stato conflittuale; dall’altro, il conseguente tentativo – sovente spasmodico – di colmare il conflitto, ostinatamente percepito come esterno, con succedanei inutili e dannosi, nella vana ricerca di una via di fuga destinata invece a sancire l’annientamento lungo una strada che si credeva salvifica.[9]

Può forse risultare banale, o irritante, dichiarare a questo punto l’archetipo finora sotteso: la versione sofoclea delle vicende di Edipo.[10] Banale o irritante che sia, in ogni caso, uno sguardo nello specchio deformante dell’Edipo re non sembra differibile, pur se con la cautela che deve necessariamente imporre ogni riuso paradigmatico.

Non mette conto ripercorrere qui i punti salienti della trama della tragedia di Sofocle, se non per puntualizzarne alcuni aspetti cruciali. Essa si inizia in una Tebe ridotta allo stremo da una grave pestilenza, la cui causa, fa sapere l’oracolo, è da ricercarsi nella presenza di un agente corruttore. È il cognato (e zio) di Edipo, Creonte, ad apportare la notizia:[11] Anche la cattiva ventura può giungere a buon esito – sostiene quest’ultimo – solo che ci si incammini per la via giusta.[12] A buon esito, però, la vicenda non giunge, come si sa, perché il possibile agente di ricomposizione del conflitto è, allo stesso tempo, l’agente di rottura dell’equilibrio: risolutore degli enigmi della Sfinge, savio reggitore di Tebe, Edipo ne è l’inconsapevole contaminatore. Il duplice corso degli eventi – esteriore e interiore – conduce a un punto di conflagrazione di sconcertante violenza al momento dell’agnizione – quando, cioè, Edipo giunge alla comprensione di essere tabe della città e macchina di morte e orrore. Ma tutto ciò era sotto i suoi occhi sin dall’inizio: solo la sua cieca ricerca di un colpevole all’esterno, ignorando con cura ogni possibile traccia della propria tenebra interiore, ha potuto rendergli inattingibile una verità che il pur cieco Tiresia gli aveva dichiarato in modo inequivocabile. Al momento dell’agnizione, quando cioè il sommerso riaffiora, e affrontarlo diviene ineluttabile, infliggendosi la cecità fisica – correlato oggettivo di quella interiore – Edipo ratifica la contiguità della tenebra della materia e di quella dello spirito.[13]

Di qui ad affermare che il cittadino medio del 2020 sia come Edipo, e che sia tarato da una cecità interiore destinata a condurlo a catastrofe tragica dopo aver ucciso il padre ed essersi giaciuto con la madre, il passo è ampio, e il rischio di sprofondare nelle sabbie mobili dell’idiozia ermeneutica è certo elevato; ma non si intende, in effetti, spingersi a tanto: solo rimarcare un problema che, a giudicare dalle interazioni sui nuovi media e dall’incessante chiacchiericcio di quelli vecchi, appare urgente. Ché indubbiamente la via petrarchesca non sembra la più battuta (mi riferisco all’Occidente e, nella fattispecie, all’Europa). Il ripiegamento introspettivo (così come la preliminare ammissione dell’esistenza di un conflitto interiore, forse risvegliato, ma non necessariamente causato, dal conflitto esterno) è rito solipsistico che non si celebra troppo volentieri.

 Come proprio Petrarca chiarisce, nell’Ad seipsum ma anche altrove, il riconoscimento della tenebra interiore implica l’ammissione di un fallimento in corso, e meglio ancora di un naufragio prossimo: la vita-nave (o anima-nave, secondo i passi) cede agli elementi, e per il navigante non è certo piacevole riscontrarne le condizioni:[14] «stanca, senza governo in mar che frange» scriverà Petrarca in un sonetto[15] successivo alla morte di Laura, citando Dante[16] e variandolo in modo da far rimare gli effetti della tempesta (il «mar che frange») con «cange», «ange», «piange»: rime assai eloquenti, si voglia o non si voglia dar peso all’impatto semantico degli apparentamenti fonici. L’operazione di attraversamento della tenebra e l’ammissione di essere su quella nave, o addirittura di essere quella nave, non si può insomma differire, nonostante il dilaceramento e le lacrime che ne sono il prezzo: l’oscura prigione del morbo (esterno) lo rende necessario – disperatamente necessario.[17]

Mentre il SARS-CoV-2 «vien dietro a gran giornate», non si ha tuttavia la percezione che la maggioranza degli individui sia sostanzialmente propensa a considerarsi nave «senza governo in mar che frange». Non, però, perché non vi sia qualcosa di assimilabile a un mare agitato (e tenebroso), ma perché l’uomo contemporaneo non ne pare toccato: il naufragio c’è, è presente, ma interessa gli altri; la condizione epidemica, perfettamente estrinseca ed estranea, diviene così spettacolo, come il naufragio che dà il titolo a un celeberrimo libro di Hans Blumenberg,[18] vettore di una sicurezza solo apparente, e tuttavia sufficiente a distogliere lo sguardo dall’interiorità.

Non che i media si siano sottratti al compito di rendere spettatore l’individuo, producendo infinite testimonianze di orrore, premiate da letture e visite molteplici e indefesse, commenti a profusione, in un frastuono cognitivo tale da rendere certo poco appetibile la prospettiva di lasciarsi distrarre da un simile spettacolo per dedicarsi all’osservazione dei propri tenebrosi recessi. Che poi le contemplazioni malsane si alternino senza apparenti frizioni o soluzioni di continuità ad approfondite esegesi di ricette culinarie o a produzioni di meme a soggetto felino è problema impossibile da sviluppare qui, ma di indubbia rilevanza sociologica.  

Se operazioni consimili siano del tutto innocenti è dubbio: spiega Montaigne, nel saggio De l’utile et de l’honnête (III, 1), come il nostro essere sia cementato da qualità morbose, e tuttavia costitutive al punto che si ritrovano persino nei fanciulli; riferendosi alla celebre immagine su cui si apre il secondo libro del De rerum natura – il naufragio con spettatore, appunto – egli osserva come sia inevitabile provare, insieme alla compassione, «non so quale punta agrodolce di maligna voluttà».[19] Difficile dire se Montaigne colga nel segno, ma va da sé che un simile sentimento, applicato a una tragedia in scena (anche sulla scena della realtà), rafforza la sensazione di estraneità dello spettatore, facendosi complice dello scarto improvviso che ne interrompe l’identificazione prospettica nel personaggio tragico.

 Il mare tenebroso in cui cola a picco la nave, insomma, sta lontano, è parte di uno spettacolo che osserviamo dal koîlon, dalla platea, dal palco o dalla galleria: a rendere ancor più credibile una simile, distorta percezione, giungono i richiami alla serenità, alla gioia dell’«andrà tutto bene», possibilmente accompagnati da canti e gioiosi schiamazzi dai balconi. Le tenebre, in altre parole, si rischiarano con lividi fuochi fatui, la cui imbarazzante inadeguatezza sembra porsi a misura dell’oscura vischiosità interiore di chi sprofonda senza averne la minima contezza.

Né, d’altro canto, le tenebre si accantonano con la sola illusione di farsene osservatori compiaciuti e rumorosi: caduta la speranza che tutto potesse «andare bene», all’auspicato silenzio – e al conseguente ritiro in sé – si è sostituito un espediente diverso, più torvo e non meno decettivo – la caccia, nelle tenebre, ai tenebrosi agenti del contagio. Simile a Edipo, ma privo della sua grandezza, il cittadino[20] confinato e tormentato dall’incombere della pestilenza indaga e combatte: nelle tenebre esteriori i nemici sono ben visibili, come del resto sapeva anche Guillaume de Machaut, che della pestilenza («une merdaille») accusava volentieri «Judée la honnie,/la mauvaise, la desloyal». Così, dimentico per un istante dei suoi bersagli prediletti, i migranti, il cittadino odierno concentra cattivi sentimenti sull’identico, ora alla maniera dei Telchini, ora ricorrendo alla sinistra arte della delazione. In casi invero non rari, avviene anche che i paladini del nulla scaccino le tenebre dall’alto dei balconi o dai propri giardini, aggredendo verbalmente i presunti portatori della tabe, colpevoli di passeggiare liberamente (si fa per dire), magari per andare al lavoro (se consentito), per fare le spese, per portare medicinali agli infermi; diverse sono le armi utilizzate: il sermone, il dileggio, l’insulto; né si esclude la possibilità di irrorare d’acqua o altri liquami i colpevoli, o addirittura passare alle vie di fatto.[21]

 Va per altro puntualizzato che il cittadino desideroso di dissipare la tenebra esteriore non è aiutato dalle nuove figure oracolari, e si trova anzi in una posizione ancor più sfavorevole del già non troppo fortunato Edipo, che a rischiararsi poteva contare sui pronunciamenti ambigui del Lossia. Nel dilagare del SARS-CoV-2, invece, l’ambiguità non ha molto spazio, mentre ne hanno moltissimo l’antinomia e la perentorietà, propalate l’una e l’altra persino da rappresentanti di una comunità scientifica in radicale disaccordo, onnipresente sui teleschermi e sulle pagine dei giornali. Ripetuti come mantra e ridotti a poco più che chiacchiericcio semicolto, i discordi imperativi dei cosiddetti esperti sono facile esca per i fuochi dei cacciatori di tenebre: voci che si dovrebbero censurare da sé, a fronte del sommitale disorientamento (si spera momentaneo) della scienza. Il silenzio, anche per gli scienziati, gioverebbe grandemente alla riflessione e, ovviamente, alla ricerca, come fino all’ultimo ha ricordato il teorico della «morte della tragedia» George Steiner.[22]

 Invece, nel profluvio di dati e numeri, rigurgitati in modo acritico e senza ratio apparente, il frastuono si incrementa a dismisura, creando una sorta di eccitazione autoipnotica e costante, che congiura con tutto quanto si è osservato fin qui. E dai canti, ai proclami ottimistici, al fastidio per la clausura imposta, al malanimo, all’odio franco, alla scienza fattasi strumento d’intrattenimento, si giunge recta via alla retorica vittimaria, senza che per un solo istante la ponderazione abbia avuto qualche parte nelle infinite giornate di clausura forzata. Di nuovo, sono gli oracoli a parlare, certo sostenuti dal meccanismo mediatico, sempre prodigo di apologhi drammatici e strappalacrime: oracoli derivati, in realtà, cascame di quelli della scienza o delle sue parvenze, che assumono la fisionomia di accorati appelli dei politici di turno, che con improntitudine senza eguali brandiscono numeri e percentuali per stabilire primati di mortalità e contagi, senza che in effetti sia minimamente possibile una verifica nel merito, e al puro scopo di infiammare di nuovo l’emotività.

 

L’operazione, spesso accompagnata da immagini di feretri accatastati, di mezzi di trasporto colmi di bare, e ancora di cimiteri e forni crematorî, si potrebbe liquidare facilmente come abominio pornografico, dagli scopi tutt’altro che oscuri. Quel che importa osservare, però, è la ricaduta cognitiva sui destinatari: lo scatenamento, cioè, di un meccanismo vittimario i cui esiti sono, ancora una volta, decettivi e accecanti. Abbacinato dal numero dei morti del proprio paese, il confinato comincia a istituire paragoni con altre città e regioni, a compulsare la rete per verificare quante volte la propria provincia sia stata menzionata nelle cronache nazionali, in preda a un’allucinazione «regressiv[a], precritic[a], prearistotelic[a]»[23] che annienta qualunque possibilità di ragionamento e comprensione, mutandosi in una spietata non-logica del campanile o, nei casi più evoluti, in ideologia inane. «La contesa per il primato delle vittime»[24] completa così il quadro di un accecamento risultante dal concorso di elementi eterogenei, e tuttavia miranti in ugual modo a stornare lo sguardo dall’interiorità, che ne risulta pienamente obliterata.

In simili condizioni, appare evidente come la presa di coscienza di una conflittualità – e dunque la possibilità di migliorarsi – sia meno che aborto, dal momento che non si profila lontanamente all’orizzonte. La nave beccheggia paurosamente e ormai imbarca acqua «in mar che frange», e neppure ci si accorge di quel che accade. La nave è altro da noi, immersa in una tenebra che con noi non ha e non può avere a che fare. La «guerra» si combatte fuori, negli ospedali, e ci riguarda solo nella misura in cui possiamo lamentarci dei morti (senza sapere, né capire, perché siano morti), ovvero nella misura in cui noi stessi possiamo illuderci di combattere lontano da noi stessi, facendoci sceriffi o delatori, o danzando in funzione apotropaica sui balconi, ripetendo come automi le chiacchiere propalate dai media, che prontamente abbiamo commentato con modalità vomitorie. Nessuna progettualità e nessuna direzione etica appaiono plausibili, a simili condizioni, né in termini generali, né in termini particolari.

L’aria si fa veleno non a causa del SARS-CoV-2, che comunque nessuno è ancora in grado di debellare, ma perché ogni impulso costruttivo risulta annientato dalla crescita scomposta di un malanimo accecante e incontenibile, irrazionale e fomentato ad arte da una politica (spesso locale) priva di scrupoli e responsabilità, che nasconde la propria irredimibile inettitudine – oltre all’oggettivamente problematica gestione dell’epidemia – con appelli alle emozioni recepiti con entusiasmo da chi avrebbe potuto approfittare del silenzio e della tenebra esterna per confrontarsi con quella interna e – se non rischiararla – provare a instaurare con essa un dialogo costruttivo.

Se dunque l’epidemia che stiamo vivendo configuri un periodo «tragico» o si possa definire «tragedia» è, a mio parere, questione affatto oziosa, cui l’uomo può forse dispensarsi dal rispondere. Che tragici siano alcuni (molti?) approcci, invece, è problema che merita di essere indagato, non tanto perché il rapporto dell’individuo con la malattia tenda a delineare aspetti di tragedia, ma perché la «tenebra» che incalza può contribuire, se non alla risoluzione dei conflitti interiori – che esplodono e a tale scopo vengono imprudentemente sollecitati –, almeno a una presa di coscienza e a una rimeditazione dell’oscurità che alligna in ciascuno. Non farlo, a mio parere, può rappresentare un’occasione tragicamente, ciecamente mancata, ché il tragico ha sede dentro l’uomo, non al difuori: «Non Zeus, neppure il Fato – ricorda Goethe –, hanno spinto Achille e Agamennone, precipiti, nell’abisso».[25]    

 

[1] Francesco Petrarca, Epystole Metrice, I, 14, 7-10: «Funera crebra quidem, quocunque paventia flecto/lumina, conturbant aciem; perplexa feretris/templa gemunt passimque simul sine honore cadaver/nobile plebeiumque iacet. Qui e oltre, il testo dell’Ad seipsum è citato seguendone la recente revisione critica di Enrico Fenzi, in appendice a (Id.) Sul tempo della composizione dell’Epyst. I, 14, Ad seipsum, di Francesco Petrarca, in C. Cocco, C. Fossati, A. Grisafi, F. Mosetti Casaretto, G. Boiani (a cura di), Itinerari del testo. Per Stefano Pittaluga, Ledizioni, Milano, 2018, I, pp. 397-430 (il testo dell’Ad seipsum si trova alle pp. 423-426); sempre utile resta l’edizione ricciardiana di Enrico Bianchi [1951], riprodotta parzialmente in Francesco Petrarca, Poesie latine, a cura di G. Martellotti ed E. Bianchi, Einaudi, Torino 1976). Tutt’altro che risolta appare l’annosa problematica della datazione dell’Ad seipsum: al 1348, come tutto lascerebbe intendere, o al 1340 (peste [?] fiorentina), come indicherebbe la mano stessa di Boccaccio nello Zibaldone Laurenziano? Per un inquadramento ponderato e aggiornato del problema si rimanda all’articolo di Fenzi sopra citato.

[2] Petrarca, Epyst., I, 14, 52-53.

[3] Di grande interesse, al riguardo, la citazione di Virgilio, Aen., VI, 733-734, nel primo libro del Secretum, ove i riferimenti alle tenebre e alle tenebrose carceri non sono scarsi.

[4] Petrarca, Epyst, I, 14, 10-20: Subit ultima vite/hora animum, casusque mei meminisse coactus/heu caros abiisse greges et amica retracto/colloquia et dulces subito vanescere vultus/telluremque sacram adsiduis iam deesse sepulcris./Hoc gemit Italie populus tot mortibus impar,/hoc exausta viris defectaque Gallia plorat,/hoc alie quocunque iacent sub sidere gentes,/sive est ira Dei, quod crimina nostri mereri/certe ego crediderim, seu sola iniuria celi,/natura variante vices.

[5] Di «fitte tenebre» ha parlato il Pontefice (cfr., a puro titolo d’esempio, Paolo Rodari, Papa Francesco prega nella piazza San Pietro vuota: “Fitte tenebre si sono addensate, scenda la benedizione di Dio”, «Repubblica», 27 marzo 2020), seguito dal cardinale Sepe la domenica di Pasqua. Alla «fine del freddo e dell’oscurità» accenna Silvio Berlusconi dalla bacheca della sua pagina Facebook; a «oscurità» si riferisce ancora il presidente del Consiglio regionale della Liguria Alessandro Piana durante la seduta solenne per il settantacinquesimo anniversario della Liberazione. Di maneggi compiuti con il favore delle tenebre hanno parlato – battibeccando – noti politici della maggioranza e dell’opposizione attuali. Di interesse anche il riferimento all’uscita dalle tenebre (con evidente allusione al dettato dantesco) nel messaggio di una docente di scuola secondaria ai suoi allievi, in occasione della Giornata di Dante, pubblicato il 23 marzo su «L’Adige» (La giornata di Dante e le nostre tenebre).  

[6] Per l’espressione, cfr. Byung-Chul Han, Die Austreibung des Anderen, Fischer, Frankfurt am Main, 2016.

[7] «Alles Tragische beruht auf einem unausgleichbaren Gegensatz. So wie die Ausgleichung eintritt, oder möglich {wird}, schwindet das Tragische», Kanzler von Müller, Unterhaltungen mit Goethe, kritische Ausgabe besorgt von E. Grumach, Böhlau, Weimar, 1956, p. 118 (cfr. ora però Goethe, Begegnungen und Gespräche [herausgegeben von Renate Grumach, bearbeitet von Angelika Reimann], De Gruyter, Berlin/Boston 2011, p. 429). La definizione anticipa di tre anni quella, più celebre (28 marzo 1827), secondo cui: «il conflitto tragico non consente alcuna ricomposizione».

[8] Così Aristotele, Poet., 1453a (allà di’ hamartían tiná). Per l’hamartía come condizione ontologica, cfr. Northrop Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton University Press, Princeton and Oxford 2000 (prima ed. 1957), p. 213.

[9] Cfr. soprattutto Peter Szondi, Versuch über das Tragische, Insel, Frankfurt am Main 1961 (trad. it., Saggio sul tragico, Einaudi, Torino 1999, pp. 79-80).

[10] Specifico che il paradigma cui mi riferisco è quello sofocleo, perché vasto ed eterogeneo è quello che, con Genette, potremmo chiamare l’ipotesto mitico dell’Edipo re (cfr. per esempio Ettore Cingano, The Death of Oedipus in the Epic Tradition, «Poenix», 46/1 [1992], pp. 1-11 e Id., La tragedia in Grecia, in G. Guastella (a cura di), Le rinascite della tragedia, Carocci, Roma, 2006, pp. 29-82 [qui alle pp. 55-59])

[11] Sofocle, Edipo re, 69 ss.

[12] Ibid., 87-88.

[13] Ibid., 1273-1274 («all’en skótōi tò loipòn hoùs mèn ouk édei /opsoíath’ hoùs ékhrēizen ou gnōsoíato»); e inoltre 1313-1315.

[14] Epyst. 14, 1, 34-39.

[15] Rvf CCLXXVII, 7.

[16] Ammettendone l’ipotesto in Dante, Pg, VI, 77 («nave sanza nocchiere in gran tempesta»).

[17] Si consideri, per un confronto fra tanti possibili, anche il vicino Rvf CCLXXII (soprattutto la terzina conclusiva).

[18] Hans Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer, Suhrkampf, Frankfurt am Main, 1979.

[19] Michel de Montaigne, Essais, III, 1 : «Notre être est cimenté de qualités maladives. L’ambition, la jalousie, l’envie, la vengeance, la superstition, le désespoir, logent en nous, d’une si naturelle possession que l’image s’en reconnaît aussi aux bêtes : Voire la cruauté, vice si dénaturé : Car au milieu de la compassion, nous sentons au-dedans je ne sais quelle aigre-douce pointe de volupté maligne, à voir souffrir autrui : Et les enfants le sentent, suave mari magno turbantibus aequora ventis,/E terra magnum alterius spectare laborem. Desquelles qualités qui ôterait les semences en l’homme, détruirait les fondamentales conditions de notre vie». Sul passo, si veda anche l’illuminante Blumenberg, Schiffbruch, cit., pp. 21 ss.

[20] Non solo italiano: cfr. per esempio Margaux D’Ahdhémar, Quand le confinement réveille le vieux démon de la délation, «Le Figaro», 25 aprile 2020, con sguardo ad ampio raggio sulla Francia; e Madeline Chambers, Germans Snitch on Neighbours Flouting Virus Rules, in Echo of the Stasi Past, Reuters, 2 aprile 2020.

[21] Qualche esempio: Coronavirus, isteria a Salerno, «Repubblica» (Napoli), 20 marzo 2020 (notizia ripresa dall’Ansa); Il coronavirus e la nostra irresistibile voglia di fare i delatori su Facebook, «L’Espresso», 31 marzo 2020; Cesare Monetti, Coronavirus: runner con cane picchiato a sangue, «Corriere dello sport», 19 aprile 2020.

[22] Sparse un po’ ovunque, le considerazioni di Steiner sugli esiti devastanti (tragici?) del rumore di fondo sembrano aggiornare quelle di Adorno sull’inestirpabile mala pianta della «ciarla semicolta» («halbgebildet»), e si trovano espresse nel modo più compiuto sia in formulazioni degli anni ’70 (per esempio In Bluebeard’s Castle. Some Notes Towards the rhe Re-definition of Culture, Yale University Press, New Haven, 1971, pp. 115-116), sia nei colloqui degli ultimi anni (cfr. per esempio Id. Un long samedi, Paris, Flammarion, 2014, [trad. it. La passione per l’assoluto, Garzanti, Milano, 2015, pp. 87-88]).

[23] Daniele Giglioli, Critica della vittima, Nottetempo, Roma, 2014, p. 78.

[24] Ibid., p. 35.

[25] Prolog zur Eröffnung des Berliner Theaters am 26. Mai 1821; cfr., inoltre, il precedente (1813) Shakespeare und kein Ende (citati entrambi dalle ormai invecchiate, ma in tempi di confino e chiusura di biblioteche sempre utili, Schriften zur Kunst, Schriften zur Literatur, Maximen und Reflexionen [Goethes Werke. Band XII], Christian Wegner Verlag, Hamburg 1963 [1953], rispettivamente pp. 677-678 e 287-297); fondamentale il commento di Szondi, op. cit., pp. 33-35.

 

Nicola Montenz, diplomato in Organo e composizione organistica è inoltre laureato in Letteratura greca con dottorato di ricerca in Filologia Classica. Tra le sue pubblicazioni con Archinto: Gli specchi di cenere (2005),  Parsifal e l'Incantatore. Ludwig e Richard Wagner (2010), L' armonia delle tenebre. Musica e politica nella Germania nazista (2013) e L' eterna primavera. Libertas Schulze-Boysen e l'«Orchestra rossa» (2019).