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 «Ma ora che ho trovato in te una guida e un messaggero insieme, salvami tu, abbi pietà di me: vedi come tutto per i mortali è insidioso ed esposto al rischio, tanto la prosperità quanto la sfortuna. Chi è fuori dai mali bisogna che pensi alle disgrazie, e quando è felice, allora più che mai deve vegliare sulla propria vita, perché non vada in rovina senza che egli se ne accorga.»[1] (S. Phil. 500-506)

 

 Grido della visione e silenzio della parola

 Vista e parola, opsis e logos: due campi semantici fondamentali, due motivi cardine attorno ai quali ruota il Filottete, la tragedia di Sofocle rappresentata alle Grandi Dionisie del 409 a.C.

Il Filottete è la storia di un guerriero greco abbandonato dal suo esercito presso l'isola di Lemno durante la navigazione verso Troia. Filottete è stato lasciato a Lemno, perché morso al piede da un serpente sacro durante una sosta della navigazione. Dieci anni dopo l'abbandono, mentre l'esercito acheo assedia senza sosta Ilio, una profezia annuncia ai Greci che le mura di Troia non cadranno se non con l'aiuto di Filottete e del suo arco, dono divino di Eracle. Odisseo e Neottolemo, il giovane figlio di Achille, vengono allora inviati a Lemno, perché imbarchino Filottete sulla propria nave e lo portino a Troia, dove è destino che l'eroe combatta al fianco del figlio di Achille e conquisti la città. Certo, convincere Filottete a recarsi a Troia non sarà facile, poiché il fiero guerriero, a causa del torto subito, ha maturato negli anni un profondo odio nei confronti dei capi achei e di Odisseo loro complice, quest'ultimo effettivo esecutore dell'abbandono voluto dai capi. Vani si riveleranno gli inganni escogitati da Odisseo e messi in atto da Neottolemo: solo alla fine della tragedia, grazie all'intervento ex machina di Eracle, Filottete si convincerà a lasciare la sua solitaria isola per imbarcarsi verso Troia.

Il mondo in cui si muovono i personaggi della tragedia sofoclea è un mondo fatto essenzialmente di parole[2]: la parola che contraddistingue il furbo Odisseo è l'epos sophon, la parola astuta, ingannevole, ambigua e continuamente volta alla frode. La parola che caratterizza Filottete, uno degli ultimi eroi antichi rimasti in vita dopo che la guerra di Troia ha decimato gli altri modelli epici di valore guerresco – quali Achille, Aiace e Patroclo –, è l'epos gennaion, la parola nobile, della virtù e della fama guerriera, dell'inflessibilità e del timore per la derisione da parte dei nemici.

Tra questi due modelli espressivi si muove il giovane Neottolemo, figlio del grande Achille ed educato al mondo epico contraddistinto dal nobile valore paterno, eppure ora pericolosamente insidiato dalla parola ingannevole di Odisseo: è quest'ultimo infatti che, all'inizio della tragedia, istruisce Neottolemo nell'arte del dolo, cosicché il giovane possa «raggirare la mente di Filottete parlandogli con accorti discorsi» (vv. 54s.) e impossessarsi dell'arco dell'eroe e della sua stessa persona[3].

 Nel mondo del Filottete l'accorta parola del sofista ha ormai vinto sulla virtuosa parola del guerriero, cosicché il modello comportamentale dell'uomo antico viene maliziosamente confuso con le esigenze dei tempi nuovi: Neottolemo, dice Odisseo, deve pensare a essere uomo sophos e agathos «accorto e [...] valoroso» (v. 119). Per la vittoria, per ottenere ciò che desidera, l'uomo deve essere pronto a tutto, finanche a rinnegare la propria natura (vv. 79-85):

               Odisseo: So bene che non sei incline per natura a mentire né a tramare tali inganni; ma è dolce cosa la conquista della vittoria e tu devi avere questo coraggio. Giusti ci riveleremo in un'altra occasione. Ora, per il breve spazio di un giorno, concediti a me scordando il pudore; e poi, per il resto della vita potrai farti chiamare il più onesto fra tutti gli uomini.

Suo malgrado, Neottolemo è costretto a cedere: seguendo i consigli di Odisseo raggirerà Filottete, gli sottrarrà l'arco e ingannerà l'eroe, affinché si rechi con lui a Troia. Eppure, sin dai primi versi della tragedia, un'invincibile forza, più potente di ogni parola, ha iniziato prepotentemente a pungere l'animo di Neottolemo. La vista delle misere condizioni in cui vive Filottete sembra scuotere profondamente l'animo del giovane eroe (vv. 31-39):

               Neottolemo: Vedo un'abitazione vuota, senza anima viva. [...] Un giaciglio di foglie compresse, come per qualcuno che vi dimori. [...] Una ciotola di legno greggio, opera di un  inesperto artigiano, e inoltre questi arnesi per accendere il fuoco. [...] Uh, uh! Stesi ad asciugare ci sono anche questi stracci intrisi di un ripugnante marciume.   

La tragedia del Filottete torna costantemente alla descrizione materiale, fisica del disperato stato di salute in cui versa l'eroe abbandonato sull'isola di Lemno. Il dolore del protagonista è una sofferenza tangibile, tragicamente concreta, corporea, che si manifesta nelle urla di Filottete, nell'«umore sanguinolento che scaturisce dal profondo della piaga» (vv. 784s.) e nel fetore che emana il piede ferito. Questa estrema fisicità e visibilità della malattia di Filottete non doveva colpire solo Neottolemo, ma anche gli spettatori che nel teatro di Dioniso assistevano alla rappresentazione, suscitando in loro un forte coinvolgimento emotivo.

L'arrivo in scena di Filottete è di grande impatto. Prima giungono le sue urla fuori scena, che nelle parole del canto del coro si caricano di una tangibilità concreta (vv. 201-209):

            Si è levato improvviso un suono, / quale si accompagna / a persona che soffre, / da questo, forse, o da quel lato. / Sì, mi percuote, mi percuote / la viva voce di qualcuno / che strascina a fatica: / non m'inganna, di lontano / il grido affannoso / di un uomo spossato. /Ecco, risuona distinto.

Poi appare l'eroe greco, visibile ora nella sua fisicità degradata: così malridotto, tanto sfigurato nell'aspetto e inselvatichito nel portamento, sembra un animale. Il disorientamento di Neottolemo è riconoscibile dal suo iniziale silenzio alle domande che Filottete gli porge, quasi gli urla contro (vv. 229-231):

               Filottete: Parlate, se venite come amici, ad uno sventurato che vi invoca. Rispondete, dunque. Non è giusto che mi neghiate questo, né che io lo neghi a voi.

 

Lentamente Neottolemo si riprende dallo shock di una così orrenda visione, e allora inizia a parlare. Le sue parole sono figlie della parola di Odisseo, la parola insidiosa e ambigua che mischia il vero con il falso. Filottete deve constatare con tristezza che la sua fama, il kleos che racconta del suo valore e della sua malattia, è andato perduto tra i Greci, dopo dieci anni di isolamento. L'epos gennaion che prometteva a Filottete una gloria perenne, giace ormai inascoltato. Ai vv. 249-256 abbiamo una prima riflessione sul valore dell'opsis[4], della vista che porta conoscenza e che vince ogni parola, sia essa la parola del sofista o quella del guerriero:

             Filottete:  Figlio mio, non sai chi hai davanti agli occhi?

             Neottolemo: Come posso conoscere uno che non ho mai visto?

             Filottete:  Nemmeno il mio nome hai mai sentito? Neppure la fama dei mali in cui mi consumavo?

             Neottolemo:  Credimi, non so nulla di ciò che dici.

             Filottete: Quanto sono sventurato e inviso agli dèi, se nemmeno la notizia dello stato in cui sono è mai giunta nella mia patria né in altro luogo della Grecia!

Per sapere, per conoscere, l'uomo deve vedere, deve confrontarsi con l'oggetto di cui intende fare esperienza. Il più forte desiderio che aveva spinto Neottolemo a raggiungere i Greci a Troia, prima ancora della brama di gloria, era stato «il desiderio di vedere prima della sepoltura il padre morto, dal momento che non l'avevo mai visto [...]» (vv. 350s.).

Confronto visivo, nel mondo della tragedia antica, significa soprattutto confronto con il dolore, sia esso propriamente nostro o di qualcun altro. Per quanto penoso possa rivelarsi, l'uomo ha bisogno di esperire il dolore. Quando il dolore non è vissuto sulla propria pelle, diviene un imperativo categorico quello di esperire la sofferenza altrui, innanzitutto visivamente. Perché il dolore spesso è indicibile, nessuna parola basta a descriverlo. Per conoscere il dolore, l'uomo deve vederlo.

E in questo il greco antico si rivela, diremmo, maestro di vita: al perfetto – il tempo che indica il risultato di un'azione conclusa – il verbo vedere significa conoscere, sapere. Conosco perché ho visto. Non posso dire di conoscere prima di aver visto con i miei occhi. Su questa linea si pongono i vv. 751-756, in cui Filottete prova a descrivere al giovane Neottolemo, che mai ha avuto diretta esperienza del male del protagonista, l'attacco improvviso della propria malattia, del morbo che gli divora la carne.

           Neottolemo:     Ma che c'è di nuovo, così all'improvviso, per cui tu gridi e gemi tanto su te stesso?

            Filottete:       Lo sai, o figlio.

            Neottolemo:     Di che si tratta?

            Filottete:       Lo sai, figliolo.

            Neottolemo:     Che ti succede? Non lo so.

            Filottete:         Come non lo sai? Ah, ah, ah, ah, ahi!

            Neottolemo:     Tremendo è il peso della tua malattia!

            Filottete:         Si, tremendo, indicibile! [...]

 Filottete si agita, delira, grida per il dolore, invoca gli dèi, chiede addirittura a Neottolemo che gli amputi il piede. Allora l'eroe consegna l'arco al giovane compagno, perché vegli su questo mentre egli è colpito dal male. Le urla di Filottete invadono la scena insieme alla vivida descrizione del male, che come una bestia si avventa sull'eroe e lo dilania, mentre la ferita purulenta perde nero umore. Inizia allora il cortocircuito del personaggio Neottolemo, che dopo una visione così tremenda, appreso finalmente il significato della sofferenza di Filottete, non è più in grado di perpetrare l'inganno di parole per il quale è stato istruito da Odisseo. Come alla prima visione di Filottete, ricominciano i silenzi di Neottolemo:

Filottete:       Che dici, figlio mio? Che dici? Perché taci? Dove sei, figlio mio? (vv. 804s.)

Filottete infine, colto da un'improvvisa stanchezza, si addormenta, forse sviene, sulla scena. Al suo risveglio, la crisi di Neottolemo è al culmine (vv. 895-897):

Neottolemo:     Ahimè! Ed ora, che debbo fare?

        Filottete:       Che c'è, figliolo? Che intendi dire?

        Neottolemo:    Non so dove rivolgere le mie parole, che non hanno vie d'uscita.

 Il giovane figlio di Achille crolla: rivela a Filottete l'inganno che si sta perpetrando nei suoi confronti e si chiude in un silenzio di piombo, diviene come un fantasma sulla scena. Ormai non riesce a sostenere neanche lo sguardo di Filottete, che al colmo dell'ira e della disperazione, trovatosi improvvisamente tradito e senza più neanche il sostentamento del suo arco divino, rivolge le sue parole, il suo infelice epos agli oggetti naturali che lo circondano e con i quali ha convissuto per dieci anni, segno profondo della sua solitudine fisica e psicologica.

Nei versi che seguono, tra l'intervento di Odisseo e gli insulti a lui rivolti da Filottete, Neottolemo continua a essere una silenziosa ombra sulla scena. Le poche volte in cui parla, lo fa rivolgendosi al coro, mai a Filottete. Solo verso la fine della tragedia il giovane eroe ritroverà il coraggioso uso della parola e di nuovo tornerà a rivolgersi a Filottete, questa volta per riconsegnargli le armi che gli appartengono.

L'esperienza diretta, visiva, del dolore che divora Filottete, dopo una profonda crisi, ha spinto Neottolemo ad agire consapevolmente in favore dell'eroe. Si compie la massima greca che vede nella sofferenza il presupposto essenziale per avviare il processo di conoscenza che porta all'azione consapevole. Tuttavia, il dolore di cui Neottolemo ha fatto esperienza non è il proprio, ma è dolore altrui. Ciò non di meno il confronto diretto con il dolore d'altri – che certo ha generato sofferenza personale – ha permesso a Neottolemo di raggiungere per l'appunto una conoscenza che genera consapevolezza: è giusto che l'arco torni nelle mani di Filottete, e che quest'ultimo decida liberamente del proprio destino.

Esperienza diretta del dolore altrui: non è forse esattamente in questo che Aristotele ravvisava il senso precipuo della tragedia antica? Esperienza visiva che provoca emozioni di paura e pietà nello spettatore messo a contatto con le sofferenze degli eroi del mito sulla scena. Qui di certo non tenteremo di definire il concetto aristotelico di catarsi che dovrebbe seguire all'esperienza della paura e della pietà, ma certo possiamo immaginare che vi sia insito il presupposto dell'apprendimento.

Torniamo allora alla sentenza gnomica con cui si è aperto questo intervento, il monito che Filottete rivolge a Neottolemo per convincerlo ad accoglierlo presso la sua nave e a imbarcarlo verso la sua patria: Neottolemo deve avere pietà di Filottete, osservando come ogni pathos umano, ogni accidente, sia esso prospero o infausto, è esposto al pericolo di una sovversione improvvisa. Per questo chi vive una vita felice, ancor più di chi soffre, deve essere in grado di esperire, di guardare (horan, v. 504)[5] il dolore altrui e di farlo proprio, per imparare da esso, forse proprio al posto di chi soffre. Effettivamente, la sofferenza del protagonista si rivelerà in qualche modo benigna e fonte di apprendimento per Neottolemo, più che per lo stesso Filottete: se alla fine della tragedia l'eroe deciderà di partire per Troia sarà solo per obbedire alle parole divine di Eracle. Ciò che Sofocle sembra dirci in questi versi, è che ogni uomo – prima o poi – è destinato a soffrire, e che l'esperienza del dolore altrui molto ci potrà insegnare sul nostro stesso dolore.

Nel Filottete lo stadio primo e fondamentale per avviare il processo di apprendimento risulta essere l'opsis, la visione disarmante in grado di ammutolire qualsiasi epos, sia esso gennaion o sophon. L'osservazione diretta di Filottete sofferente doveva apportare, tanto per Neottolemo sulla scena, quanto per lo spettatore seduto a teatro, un profondo turbamento.Chi si recava a vedere la tragedia antica decideva consapevolmente di divenire spettatore della sofferenza, di dedicare del tempo per assistere al dolore, dolore sacro e comune poiché inserito all'interno di un contesto – quello teatrale – profondamente permeato di religiosità e di comunità. La rappresentazione doveva essere di certo in grado di destare stupore, orrore, pietà, dunque riflessione personale e dibattito civile.

Viene da domandarci allora se oggi – e in questi mesi più che mai – in una contemporaneità in cui si è stati circondati da visioni in modo incessante, da immagini e da parole concernenti la sofferenza, ma filtrate dagli schermi piatti dei media, si possa ancora parlare di "sacralità" e di "comunione" della visione. L'impressione è che si sia piuttosto divenuti spettatori inermi, pubblico civilmente distaccato e forse anche emotivamente disinteressato di una tragedia reale, fino a quando da essa non si venga colpiti in modo diretto. E' decaduto il contesto rituale, collettivo e civile nel quale l'uomo greco assisteva, condividendola, alla rappresentazione del dolore. Venuta meno la cornice fondamentale all'interno della quale si realizzava il teatro greco antico, sappiamo ancora 'apprendere' dalla visione della sofferenza altrui? E se sì, quale l'apprendimento?

                                                                                                                     

Nicola Mancini

 

 

Vegliare sulla vita, salvare la vita

La sezione dei vv. 500-506 conclude enfaticamente una dolente e accorata rhesis, nella quale Filottete supplica Neottolemo di ricondurlo in patria.

Prima di conoscere di persona l’eroe, il giovane non aveva in effetti le idee chiare su quale spettacolo si sarebbe trovato davanti agli occhi. Armato di coraggio e di una educazione eroica da dimostrare coi fatti, famoso solo in quanto figlio di Achille e dunque ansioso di guadagnarsi la sua parte di gloria con la distruzione di Troia, egli approda sull’isola di Lemno determinato a recuperare l’arco e il suo possessore. Inizialmente si mostra restio a raggiungere tale scopo con mezzi diversi da quelli che l’etica aristocratica gli suggerisce, ossia un’abile ma onesta persuasione o in alternativa il fiero uso guerresco della forza.

Tanto risulta versato nel suo ruolo di agathos che preferirebbe soccombere in un nobile scontro con l’avversario, piuttosto che vincere con un raggiro.

Accetta quindi con riluttanza di porre in essere il sophisma di Odisseo, perché i suoi scrupoli investono principalmente l’integrità del suo ethos: la sua preoccupazione è di non apparire vigliacco nell’impresa. Neottolemo tuttavia non conosce, dell’eroe esperto con l’arco, che quanto gli è stato raccontato da Odisseo stesso, non si aspetta cioè di assistere a quella realtà dolorosa di degradazione materiale e spirituale, indegna dell’uomo, nella quale Filottete è stato confinato, benché la intraveda concretamente, e ne risenta emotivamente, dai diversi segnali che precedono l’incontro (l’antro spoglio, gli stracci purulenti, una misera tazza).

Non sembra fuori luogo osservare, in aggiunta a quanto formulato nell’intervento precedente, come tanto lo spettatore, quanto il personaggio Neottolemo si muovano di pari passo nella progressiva scoperta della dimensione esistenziale di Filottete: l’eroe infatti non compare fisicamente sulla scena, e dunque non è visto dal pubblico, prima della “scoperta” che ne fa il figlio di Achille: in altre parole lo spettatore sa e vede, di Filottete, le stesse cose che gradualmente sa e vede Neottolemo.

Questo procedimento drammaturgico sembra quindi intensificare la compartecipazione dello spettatore all’evoluzione che il giovane vive nel corso del dramma, istituendo un legame di visione euristica tra pubblico e personaggio, grazie al quale determinati messaggi di cui Neottolemo è destinatario risultano implicitamente suggeriti anche a quanti assistono alla rappresentazione.

La conoscenza diretta, visiva, dell’isolamento e delle sofferenze che Filottete si trova a patire in conseguenza della crudeltà e dell’opportunismo dei capi degli Achei, nonché l’ascolto dei suoi discorsi, scanditi da suppliche e lamenti, precipitano Neottolemo in un dilemma morale, nel quale le sue certezze sulla necessità del proprio compito e sulla sua stessa identità di guerriero virtuoso verranno scosse dalle fondamenta. L’aposiopesi è lo strumento retorico su cui si imperniano le argomentazioni di ciascuno dei due eroi verso il figlio di Achille: se Odisseo aveva tentato sofisticamente di persuaderlo che gennaios è chi in una data circostanza sa obbedire ad un suo superiore, in vista di un utile che trascende l’indole e l’etica personale, Filottete invece, ignaro dell’inganno, gli prospetta come azione veramente nobile e degna dei suoi natali, in quello stesso frangente, la decisione di soccorrere un supplice che soffre.

L’emergere a poco a poco dei valori della philia e della solidarietà umana (una delle cifre essenziali del dramma), grazie all’esperienza diretta del dolore e all’approfondita confidenza che si instaura tra l’eroe ferito e il giovane guerriero, porranno Neottolemo di fronte ad un bivio: tradire un uomo, lungamente afflitto da travagli e sciagure, che si affida alla sua pietà, ricoprendosi così di vergogna, o venir meno al proprio dovere, mandando in rovina l’esercito acheo e il proprio destino di grandezza; se il suo carattere di giovane aristocratico vincolato a schemi di comportamento eroico era stato inizialmente intaccato dall’assenso a compiere l’inganno, ora il pericolo della negazione di se stesso e della propria natura è totale. 

Pertanto, i vv. 500-506 sembrano costituire contemporaneamente un richiamo al passato, una constatazione del presente e un monito per il futuro. «…salvami tu, abbi pietà di me, vedi come tutto per i mortali è insidioso ed esposto al rischio, tanto la prosperità quanto la sfortuna.» Neottolemo ha davanti agli occhi l’esempio lampante di quanto afferma Filottete: il destino stesso dell’eroe testimonia come il pericolo di un rivolgimento della sorte, o il verificarsi di un evento inatteso e imprevisto, siano per ciascun uomo dietro l’angolo in ogni momento.

Queste parole, nel sottolineare le insidie insite nella condizione umana, valgono allora anche per Neottolemo, che si appresta a sperimentarne la verità proprio nel corso della vicenda drammatica, dal momento che gli eventi si svolgono in un modo per lui del tutto inatteso. Perciò è assolutamente necessario che nelle fasi favorevoli dell’esistenza si abbia consapevolezza di ciò che accade, e che potrebbe avvenire: «chi è fuori dai mali bisogna che pensi alle disgrazie», bisogna cioè che veda quanto di deinon succede intorno a lui, che non resti indifferente; un vedere, uno sforzo di conoscenza e di comprensione, che però implica e suggerisce un “provvedere”, esorta ad una azione conseguente - la sentenza di Filottete è appunto strumentale a rinforzare la richiesta di aiuto da lui avanzata nei versi precedenti. Poi continua: «e quando è felice, allora più che mai deve vegliare sulla propria vita, perché non vada in rovina senza che egli se ne accorga».

Il dovere di sorvegliare sulla vita, sia la propria che l’altrui, si pone allo stesso tempo come un imperativo morale e una necessità pratica, perché ha lo scopo di preservare dalla rovina da un lato la vita in sé, dall’altro un determinato modo di essere e di esistere. Neottolemo, che agli occhi di Filottete conduce fino a quel momento un’esistenza fortunata, sia perché lontano dal tipo di sofferenze che invece l’eroe patisce, sia perché eticamente incorrotto nella sua natura di gennaios retto e valente, deve quindi aiutare l’uomo che ha di fronte, perché ciò significa allo stesso tempo salvare la vita altrui e mantenere integro sé stesso, il modello d’uomo a cui deve aderire, la propria specifica forma di vita.

Sentenze di questo genere, presenti già in Omero e ampiamente impiegate da Sofocle, l’omerikotatos dei tre tragici maggiori, spingono di frequente verso una certa complessità di interpretazione, stante la difficoltà di individuare, nel tenore generale della loro formulazione, il senso più aderente all’insieme discorsivo di cui costituiscono la conclusione, e dunque di coglierne il valore argomentativo. Nella cornice tragica poi, come in questo caso, possono assumere anche l’aspetto di un monito o di una predizione.

Pare significativa allora la distinzione lessicale, al v. 505, tra il verbo zēn (nel testo, al congiuntivo presente, qualificato dall’avverbio eu (“bene”) e il sostantivo bios: «Chi è fuori dai mali bisogna che pensi alle disgrazie, e quando è felice (eu zēi), allora più che mai deve vegliare sulla propria vita (ton bion), perché non vada in rovina senza che se ne accorga». Il verbo zēn designa il vivere nel senso della vitalità fisica degli esseri organici.

Per l’uomo, tuttavia, l’esistenza si carica di possibilità diverse e ulteriori rispetto agli altri esseri viventi, ma difficilmente queste potenzialità sono sempre realizzate o realizzabili. Perciò, chi vive bene (eu zēi) è colui che conduce un’esistenza peculiare, ben realizzata nelle proprie potenzialità. La parola bios invece denota principalmente una specifica configurazione di vita umana: è un sistema di vita individuale, un carattere, un costume personale, e come tale richiama l’ethos. Un zēn individuale si realizza sempre in un bios, i due termini si implicano a vicenda. Un possibile senso dei vv. 505-506 è allora che un individuo come Neottolemo, un gennaios che come tale esperisce la propria esistenza al livello migliore, deve vegliare (skopein, che può assommare al valore della sorveglianza quello dell’indagine) che non vada distrutto il bios, si tratti del proprio o del bios in generale, come vita e insieme come modo di essere.

Vegliare sulla vita, perché non venga sconvolta senza che ce ne accorgiamo. Il pensiero, in conclusione, non può non correre alla scottante attualità di queste gnomai del Filottete sofocleo, in riferimento all’epidemia di questi mesi: anch’essa un evento non previsto, sottovalutato (nonostante le avvisaglie e i segnali allarmanti visibili ben prima che ci si accorgesse della sua circolazione nel nostro paese) con le durissime conseguenze che conosciamo. Per quanto tempo allora, sicuri e magari “fuori dai mali”, la grande maggioranza degli italiani, compreso chi scrive, non ha “vegliato” sulla vita del paese, e ha continuato a non “vedere”, pur avendoli sotto gli occhi, un decennio di tagli alla sanità pubblica e di vantaggi per i privati, la demolizione della scuola, l’impoverimento dell’università, l’assenza di serie politiche per l’occupazione, le disuguaglianze sociali, la mancanza di redistribuzione della ricchezza, il nodo ambientale mai affrontato, l’evasione fiscale, i privilegi pubblici e privati, la questione morale mai risolta?

La vita di tutti è stata più o meno profondamente segnata dagli eventi recenti, e messa alla prova fisicamente e psicologicamente; la vita di molti è stata letteralmente stravolta. Quante vite avrebbe potuto salvare un sistema sanitario efficace e non compromesso con logiche di profitto? Quante persone in difficoltà economica, o a rischio di esclusione sociale o di discriminazione, si potrebbero aiutare con un paese più giusto? E per merito di una gestione dell’epidemia non esente da critiche, in questi mesi abbiamo tra l’altro assistito impotenti alla limitazione di alcune delle libertà fondamentali dei cittadini, come pure alla sperimentazione di pratiche didattiche alienanti, giustificate certo dallo stato di eccezione, ma che snaturano la reale funzione educativa e formativa dell’istruzione in un paese democratico, e che non possono dunque rientrare in una visione scolastica o universitaria permanente, mentre le stesse scuole, le università e gli istituti di cultura restano ancora chiusi oppure operano al minimo delle loro capacità. Le più profonde contraddizioni della nazione stanno emergendo in tutta la loro portata, e al dramma sanitario appena superato si sta aggiungendo un dramma sociale già in atto: quanto ancora si potrà evitare di “vedere” ciò che accade, e di “provvedere”?    

 

                                                                                                                               Matteo Mauri

 

 Nicola Mancini e Matteo Mauri studiano Filologia classica nella Laurea Magistrale Archeologia, filologia, letterature e storia dell’antichità - Università degli Studi di Roma ’Tor Vergata'. Le riflessioni qui pubblicate scaturiscono dal corso di Drammaturgia antica, tenuto da Ester Cerbo in questo semestre (a.a.2019/2020). 

Le immagini sono tratte dallo spettacolo 'Philoktet', frutto di un lavoro alla scuola per attori Ernst Buch di Berlino nel 2014. Altre informazioni qui.

Sul Filottete di Sofocle e la sua ricezione, anche ai tempi del Covid 19, su questo stesso sito vedi qui e qui

 

[1]Trad. M. P. Pattoni.

[2]Come accennato all'inizio, un campo semantico frequente nel Filottete è quello della parola: il verbo lego («dire») compare 84 volte, e termini dell'espressione orale quali epos (8 volte), logos (43 volte) e mythos (3 volte) sono vocaboli in cui il lettore si imbatte di continuo.

[3]Odisseo non ardisce a presentarsi di persona al cospetto di Filottete: teme infatti che l'eroe, una volta riconosciuto l'esecutore del suo abbandono, possa ucciderlo all'istante con il suo arco (vd. vv. 45-47, 70-76).

[4]È questo l'altro campo semantico rilevante della tragedia; il termine horao, verbo del vedere per eccellenza, compare 38 volte, associato ad altri composti quali eisorao (9 volte), prosorao (1 volta) e tante altre parole legate alla percezione visiva, come i verbi blepo (6 volte), leusso (5 volte) e skopeo (6 volte). La parola omma, «occhio», compare 5 volte.

[5] Qui il verbo horan è tradotto dalla Pattoni nel senso figurato di «pensare»; ritengo, invece, che sia preferibile interpretarlo innanzitutto nel suo senso concreto di «vedere», «guardare», significato che – se certo implica anche il valore astratto del «pensare» – ancor di più avvicina l'esperienza di Neottolemo a quella dello spettatore antico.