Tra le tante conseguenze della pandemia, una in particolare colpisce indelebilmente il teatro: la crisi dell’incontro tra persone, della loro interazione, della loro vicinanza.
Il teatro si fonda infatti sulla presenza, e non può in alcun modo essere sostituito dallo schermo, che impedisce il realizzarsi dell’esperienza estetica teatrale. Le condizioni imposte dall’emergenza sanitaria minano perciò nel profondo tutto ciò che è legato al teatro definito ‘post-drammatico’, in cui cioè il testo non svolge più un ruolo centrale e indispensabile, come avviene nel teatro drammatico.
Nei teatri di tutto il mondo si discute sul se e sul come sia possibile superare questa crisi, e tra l’altro si stanno moltiplicando le trasmissioni di teatro in TV. Noi non crediamo che la televisione possa davvero supplire all’assenza di teatro, e meno che mai che costituisca un’alternativa al teatro, come hanno abbondantemente mostrato alcuni eventi, ad esempio la prima della Scala del trascorso 7 dicembre o l’antologia teatrale curata da Stefano Massini su Rai 3, Ricomincio da Rai 3.
Pensiamo però che la televisione e la rete possano contribuire in modo sostanziale alla conoscenza del teatro e della sua storia, diventando strumento di diffusione di materiali tenuti sinora negli archivi, che possono finalmente essere fruiti e studiati da tutti coloro che lo vogliano. Una funzione ulteriore e già antica della televisione è quella educativa in senso lato e migliore: le trasmissioni televisive diffondono la conoscenza mandando in onda, se non commissionando, documentari sulle attività di registi, attori, compagnie, la cui testimonianza, specie se adeguatamente commentata, introduce tra l’altro ad una fruizione consapevole degli eventi teatrali.
La responsabilità di chi redige documentari sul teatro è altissima, perché, essendo rivolti a un pubblico quantitativamente numeroso, accettano grandi scommesse: far capire l’importanza artistica ma anche sociale del teatro, affermarne la sua imprescindibile politicità, scrivere pagine di storia delle culture e contemporaneamente indicare quanto indispensabile sia, in ogni cultura e soprattutto nella nostra, l’attività teatrale in tutte le sue molteplici espressioni.
Questi tre obiettivi sono raggiunti dal bellissimo documentario Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage, ideato e diretto da Annamaria Monteverdi, certamente la massima esperta italiana di Lepage e in generale di performance multimediale, e Simone Cannata, documentario trasmesso su Rai 5 e ancora disponibile su Raiplay.
Questo documentario è una toccante esposizione di principi di poetica teatrale e un atto d’amore verso l’insuperabile e peculiare capacità del teatro di raccontare, di rappresentare l’essere umano, la sua interiorità, il mondo in cui vive e il mondo che immagina, potenziando così la fantasia di chi partecipa all’evento teatrale.
La prima funzione del teatro è custodire la storia e trasmetterne l’esperienza; una funzione che non si limita solo all’atto del ricordare, ma che si fonda sull’idea che la storia insegna, e che non si può progettare alcun futuro senza consapevolezza storica.
Un tale compito unico e ambizioso, il teatro lo esegue con la parola, con gli oggetti, con gli strumenti e gli apparati del teatro, con il corpo dell’attore e del pubblico, con le macchine, lì dove anche il corpo dell’attore stesso va inteso come macchina, con la musica, mirando sempre, cioè, a un’ ‘opera d’arte totale’ di cui ogni essere umano è protagonista: infatti all’arte teatrale, che è arte mimetica, riesce quel particolare rispecchiamento per cui nelle vicende individuali si riflettono quelle collettive, nella microstoria la grande storia, nella memoria dei singoli la memoria di un popolo, nel corpo di uno l’immenso organismo vivente dell’umanità.
Tutto questo è raccontato con levità nel documentario dedicato a Robert Lepage, in cui vengono presentate le sue opere principali.
L’artista, tuttavia, passa quasi in secondo piano, evita ogni sovra-esposizione o atto narcisistico per esprimere in maniera impersonale, come fosse un aedo arcaico, la sua poetica del teatro. Nel teatro di Lepage realtà e simbolo si intrecciano indissolubili: ad esempio il condominio dove l’artista ha vissuto in giovinezza diventa il palazzo della memoria di una comunità, quella del Quebéc, con le sue contraddizioni e lacerazioni, e in fin dei conti di un universale confluire e scontrarsi di storie (887, presentato a Roma Europafestival nel 2015, che prende il titolo dal numero civico dell’edificio dove Lepage ha vissuto con la sua famiglia dal 1960 al 1970). Il castello di Elsinore di Amleto, per dare ancora un esempio, diventa il nodo della cultura occidentale (Elsinor 1995-1997); il ciclo dei Nibelunghi di Wagner l’apoteosi della flessibilità e della dinamicità della scena, quasi una sfida tra Wagner e il regista sul piano dell’immaginazione (2011, per il Metropolitan di New York).
Memoria, maschera e macchina teatrale costituiscono dunque altrettante tappe attraverso l’arte e la storia dell’opera di Robert Lepage, ma non solo in essa: nelle interviste rilasciate alla curatrice, infatti, l’artista canadese consegna alla riflessione collettiva alcune espressioni fondanti ogni fare artistico.
Ad esempio: l’arte è una menzogna che serve ad esprimere meglio la verità, dice Lepage citando Picasso, proponendo così un teatro che è sempre auto-finzione. E ancora: il teatro è arte dell’effimero, come la memoria, e perciò non esiste teatro che non sia di memoria; ma se è arte dell’effimero, non può conciliarsi con la trasformazione in pellicola da proiettare sullo schermo in maniera sempre identica.
Insomma il teatro non è cinema, anche (ma non solo) perché ha bisogno del pubblico in sala. L’opera teatrale vive del pubblico e con il pubblico: gli spettatori svolgono la stessa funzione degli attori, il corpo teatrale respira all’unisono. Gli oggetti e gli strumenti di scena, la scenografia tutta, sono parti funzionali al cosmo dell’evento teatrale.
La maschera svolge da sempre in teatro un ruolo centrale: «la maschera è segno della tensione a superare la condizione umana e insieme limite all’ansia di trascenderla … La maschera è una sofferta dichiarazione di distanza, di voragine spalancata tra umano e non umano. La maschera nega ogni somiglianza con l’uomo … La maschera è il modo di uccidere il corpo dell’uomo che è segno del tempo», ricorda Fernando Mastropasqua. Nel teatro di Lepage l’intera scenografia diventa ‘maschera’ di quel che avviene in scena, al punto che si parla di ‘maschera scenografica’.
Da quest’idea del teatro, in cui arte, filosofia ed etica si incrociano, non è affatto astratta la funzione sociale e politica. Non siamo in presenza di un artista che afferma l’art pour l’art: con la sua ultima produzione, in cui Lepage ha sostituito Ariane Mnouchkine nella regia del mitico Théâtre du Soleil (debutto a Parigi nel 2018), il regista canadese ha scatenato un’ondata di polemiche che riguardano la capacità stessa del teatro di portare in scena problemi sociali e storici di importanza rilevante, epocale.
Lo spettacolo s’intitola Kanata, che vuol dire ‘villaggio’ nella lingua dei nativi d’America, e racconta la storia degli indiani americani del Quebéc. Mnouchkine e Lepage sono stati accusati di ‘appropriazione culturale’ (cultural appropriation) proprio dai rappresentanti delle Prime nazioni, che avrebbero voluto in scena nativi americani e non attori, con l’idea che i rappresentanti di culture dominanti non possono rappresentare quelle culture minoritarie, che hanno sterminato e umiliato.
Lo spettacolo, invece, vuole denunciare proprio la serie storica di inaudite violenze ai danni di questa minoranza, e si conclude con il racconto orribilmente vero di un serial killer che nel 2000 assassinò 49 prostitute di origine nativa: ultima serie di uccisioni di donne prima violentate, i cui corpi sono stati gettati nei fiumi, e mai più ritrovati.
Kanata racconta quel che resta di quella comunità, quasi del tutto cancellata dal genocidio, relegata in riserve e in una condizione di emarginazione e miseria, perciò ulteriormente decimata da un numero crescente di suicidi. Ma ha diritto un regista di cultura francese, ha diritto una compagnia francese di portare in scena una tragedia collettiva di questo tipo? Ha diritto il teatro di rappresentare il dolore degli altri, senza chiamarli in causa?
La domanda, evidentemente, non riguarda solo il caso di Kanata, che pure ha fatto molto scalpore.
La questione può essere, inoltre, rovesciata: quando, ad esempio, a Vienna è stata messa in scena la revisione delle Supplici di Eschilo, un testo complesso di Elfriede Jelinek nato da un fatto di cronaca per denunciare la ‘tragedia dell’immigrazione’, si adoperarono come attori gli stessi immigrati. Lo spettacolo fu interrotto da estremisti di destra, ma anche alcune voci liberali accusarono il regista di ‘strumentalizzazione’ degli attori, che del resto leggevano un testo che non erano in grado di comprendere.
Diversamente nell’Antigone di Milo Rau il ripensamento di una tragedia ‘classica’, estranea alla cultura amazzonica, non avrebbe avuto senso se a impersonarla non fossero stati i nativi di quella cultura, come ha ricordato Kay Sara nel discorso che abbiamo pubblicato in italiano qui. Evidentemente, in una cultura globalizzata, il tema riguarderà sempre più il teatro e la sua estetica.
Dal documentario su Robert Lepage resta però una fede quasi religiosa nelle infinite possibilità evocative del teatro e nel saper essere sempre ancora, come alle origini nella civiltà occidentale, un percorso di conoscenza che mira ad una catarsi delle passioni.
Il sito di Robert Lepage Ex machina è qui. Le immagini sono tratte dalle sue opere.
Ulteriori letture:
Altre notizie sul sito di Annamaria Monteverdi, Digital performance
Annamaria Monteverdi, La controversia teatrale. Il debutto di Kanata di Robert Lepage/Théâtre du soleil, “Acme”, 72, 1 (2019), qui
Daniela Sacco, Cultural appropriation and theatre. Rethinking aesthetics, starting with the case of Robert Lepage’s Kanata, “Itinera”, 20/20, qui
Silke Felber, Theresa Kovacs, Schwarm und Schwelle: Migrationsbewegungen in Elfriede Jelineks Die Schutzbefohlenen, Transit, Berkeley 2015, qui