È appena apparso presso l'editore ETS di Pisa il secondo volume della collana Il mito. Voci dal presente, diretta da Anna Santoni e Filippomaria Pontani.
Si tratta del dramma Il sole e la morte non si possono guardare in faccia del drammaturgo di origine libanese Wajdi Mouawad, traduzione e cura di Filippomaria Pontani, un dramma ispirato al mito di Edipo. Presenteremo questo volume e il precedente Elettra dai bassifondi di Simon Abkarian a cura di Michela Gardini), già annunciato nella nostra Biblioteca, il 7 giugno, alle ore 17, nella magnifica cornice della Gipsoteca di Pisa (locandina sotto).
Wajdi Mouawad, (Deir-el-Qamar, Libano, 1968, nella foto sotto) dirige dal 2016 il Théâtre de la Colline a Parigi. Esule in giovane età dal suo Paese dopo lo scoppio della guerra, si è formato come attore e regista a Montréal (Canada), dove ha fondato compagnie teatrali e ha avviato la fortunata tetralogia Le sang des promesses (Littoral, Incendies, Forêts, Ciels, 1999-2009: la seconda pièce è diventata anche un film, La donna che canta). Da vent’anni, tornato in Francia, si dedica alla narrativa (Il volto ritrovato, 2002; Anima, 2012), alla messa in scena di opere classiche e contemporanee, e all’autonoma creazione teatrale, quasi sempre d’impronta tragica e variamente legata ai temi della memoria, della guerra, dell’identità, talora con forte taglio autobiografico (Seuls, 2008; Temps, 2011; dal 2015 al 2022, tra gli altri: Soeurs, Tous des oiseaux, Mère, Racine carrée du verbe être).
La scena di Il sole e la morte non si possono guardare in faccia è a Tebe. Ma questa tragedia di Wajdi Mouawad, messa in scena a Bordeaux nel 2008 e a Città del Messico nel 2009, non è l’ennesima riscrittura “attualizzante” del mito di Edipo o di Antigone. Densa, spietata e avvolgente, è una lettura che scava nel passato remoto della città, seguendo tre storie distinte e sanguinose: quella del fondatore Cadmo, fuggito dal natío Libano in cerca della sorella Europa; l’insana passione di Laio per il bambino Crisippo, figlio del suo ospite Pelope; la vicenda di Edipo che indaga sulle sue origini, e dopo il parricidio risolve l’enigma della Sfinge. Il Coltello, il Sangue, la Rivelazione. Preceduta da un’introduzione che informa sul rapporto tra Mouawad e il teatro antico, e corredata da note che illustrano per ognuno dei 22 quadri le varianti mitiche adottate (in certi casi escogitate) dall’autore, questa edizione mira a presentare la pièce come un’opera pienamente inserita nei meccanismi del mito greco, e capace di indurre in ciascuno di noi – tramite le parole, l’alfabeto, la memoria – una catarsi cosmica in merito ai temi eterni della guerra, dell’esilio, dell’ineluttabilità del male tra gli uomini.
Anticipiamo qui, per gentile concessione dell'autore, uno stralcio dall'introduzione di Filippomaria Pontani. Le foto sono invece tratte dalla messa in scena al Teatro de las Artes del Centro Nacional de las Artes di Città del Messico nel marzo 2009 (vedi qui)
Più che un punto di partenza per la successiva scrittura drammatica di Mouawad (in particolare legata all’antico, ma non solo), questa pièce rappresenta il punto di arrivo di un’appropriazione sentita e vissuta. Come tale, essa si colloca al centro di un reticolo di percorsi (temi, mitemi, lessemi) che era già largamente operante nelle pièces anteriori (anzitutto quelle della tetralogia Le sang des promesses), e che solo una sistematica indagine a tappeto degli Opera omnia potrà un giorno svelare. Se in molte delle riscritture contemporanee del mito antico i drammaturghi scelgono di ingigantire un elemento a discapito degli altri, o più spesso di ricollocare la storia in un cronotopo diverso (una strada inizialmente esplorata e battuta anche in questo caso, come apprendiamo dalla prefazione al testo), l’autore franco-libanese decide invece – nelle parole del suo compagno di sogno e di ideazione Dominique Pitoiset – di “scrivere negli interstizi del mito”: di farsi dunque egli stesso autonomo fruitore e rielaboratore del mito, al modo dei tragici antichi.
Nel riconsiderare l’insieme della saga tebana dal suo principio, Mouawad esplora infatti territori poco frequentati dal teatro antico conservato, ma anche dalle sue riprese moderne. Tra questi ne spiccano tre, corrispondenti alle tre parti dell’opera: la controversa storia dell’eroe Cadmo, la meno nota vicenda del re Laio, e il più consueto dramma di Edipo. ... Nei campi così delimitati, il cui procedere desultorio ma coerente è favorito dalla medesima scrittura per quadri isolati che l’autore adotta in tanta parte della sua produzione, Mouawad inserisce una serie di varianti mitiche (genealogie, azioni, cronologie) che lo pongono a tutti gli effetti su un piede di parità rispetto agli autori del V secolo a.C. Le sue scelte di trama, minoritarie o affatto originali rispetto alle versioni standard di un Apollodoro o di un Ferecide di Atene (a loro volta tese a cristallizzare singole versioni letterarie, da Stesicoro a Euripide), non discendono da esigenze spettacolari o teatrali, bensì dalla lucida volontà di “tagliare” il mito per portarlo a dare sostanza poetica a temi ben precisi, non sempre espliciti o prominenti nelle fonti antiche.
Così, l’insistenza sul mito del bambino Crisippo, sull’inconfessabile passione di Laio e sul suo tragico epilogo (quadri 13-15), sembra aprire uno squarcio sul dibattito contemporaneo in merito alla pederastia e alla pedofilia (un tema troppo spesso liquidato con imbarazzo o equivoco da chi ignora il peso dell’amour grec sulla coscienza culturale europea a partire dal XVIII secolo). La singolare riscrittura della “scelta” di Armonia per Cadmo (quadro 7) può perfino adombrare il tema dei matrimoni combinati (ancora attuale nel mondo islamico, ma declinato qui con un occhio alla triangolazione in senso girardiano).
Ma altre opzioni drammatiche vanno a toccare corde più essenziali. Anzitutto, nella versione di Mouawad i tre protagonisti (Cadmo, Laio, Edipo) sono o divengono tutti variamente orfani (così anche Crisippo, la cui madre Axioche viene fatta morire di parto – una dinamica che si ritrova per es. anche in Littoral, quadro 16): nell’assenza programmatica di figure materne (l’unica è, qui nel quadro 13, Ippodamia, la quale peraltro assolve pienamente il ruolo di matrigna incattivita), i padri scontano errori o comportamenti censurabili, come l’assertiva severità di Agenore, il corrivo orgoglio di Pelope, l’indomabile lascivia di Laio (a tacere, ovviamente, di Edipo stesso).
D’altro canto i tre protagonisti (Cadmo, Laio, Edipo) sono anche tutti esuli, separati violentemente dalla patria e dalla famiglia, e condannati a vagare come stranieri: s’inventeranno letteralmente una nuova città (così Cadmo a Tebe, adattando le sette porte ai sette colori dell’arcobaleno al termine del pellegrinaggio divinamente ispirato) o si faranno accettare da estranei per malposto senso di pietà (così il “naufrago” Laio chez Pelope). Il tutto a valle di oracoli incomprensibili, di enigmi (il caso di Edipo), o più spesso di conflitti intestini venati di xenofobia – si veda anzitutto nel quadro 8 Cadmo che concettualizza il tema dell’alterità, mostrando i benefici della tolleranza e della collaborazione tra le etnie. Ecco dunque comparire massicciamente nella pièce il tema dello straniero, del rifugiato, che si colora naturalmente di risonanze speciali in un’età come la nostra, così ricca di migrazioni non solo nel Mediterraneo che qui fa da costante cornice.
Ma, fra tutti, il tema che sta più a cuore a Mouawad è chiaramente quello bellico, che s’innesta ovunque ve ne sia il minimo spazio, il più piccolo interstizio. Un atto di guerra diventa già il ratto di Europa, non compiuto da un vezzoso torello bianco sullo sfondo di un paesaggio idillico, bensì portato a termine da uomini dalla testa di toro che sembrano un branco di Cretesi in cerca di vendetta, di razzia e di sangue (quadro 1). Violenta è poi la morte dei fratelli di Cadmo inviati da Agenore a cercare Europa con ogni mezzo, anche il più cruento (quadri 2-3: nel mito i fratelli di Cadmo si insediano invece comodamente in diverse regioni dell’Egeo). Violenta è la guerra civile contro gli autoctoni (forse s’intendono gli Sparti) che Cadmo si trova a combattere al suo arrivo in Beozia (quadro 8). Violenta (uccisioni, esilî: ben poco di tutto ciò compare nella tradizione mitica) è l’usurpazione di Anfione e Zeto a Tebe ai danni di Lico (quadro 9). E parimenti violenta e nuova (compare in una variante attestata solo nel mitografo romano Igino) è la vera e propria guerra mossa da Pelope alla Tebe di Laio in nome del figlio Crisippo (quadri 14-15). È insomma sempre la guerra a muovere l’azione, a permeare di sé la storia degli uomini; ed è la guerra che lascia il Libano di Agenore e di Cadmo come una terra devastata in macerie – tutto l’opposto del mito glorioso dell’espansione della civiltà fenicia, caro a certi politici e a certi studiosi.
Senhal di ogni violenza è il coltello, oggetto talismanico e carismatico ben noto a Mouawad, che passa di mano in mano da Atena a Cadmo fino a Edipo (ed è questa un’altra grande innovazione, perché l’omicidio di Laio nella tradizione avviene con un bastone): quella lama (quadri 6, 11, 13, 18, 19) segna e scandisce l’ineluttabile catena di omicidi che perseguita la stirpe tebana, così come d’altra parte la stirpe argiva (ma si veda già al quadro 5 l’ancora inerme Cadmo che metaforicamente “pianta un coltello nella trama della sua vita”). (...)
A un livello ancora più alto, l’obiettivo che la pièce pare proporsi in avvio è quello di gettar luce sulle dinamiche che inducono gli uomini a concepire insostenibili angosce e visioni notturne, a cercar riparo dall’ansia in idee o entità trascendenti (si sente qui, e anzitutto nel prologo, la lezione della filosofa spagnola María Zambrano), e poi a scontrarsi con il “muro scintillante della rivelazione”. La rivelazione per la quale il male e la violenza non provengono da fuori, dall’alto o dall’esterno, bensì sorgono dagli uomini stessi, dai loro rapporti e dai loro conflitti; la rivelazione, insomma, per cui gli dèi sono morti, e il male è insito in noi. …
L’unica divinità che davvero “ci guarda” continuamente è il Sangue, “il sangue delle sventure e delle profezie”, il sangue che sigilla le promesse, quello che sgorga dalla guerra, dallo stupro, dal parto: come afferma l’Antigone di María Zambrano, “tutta, tutta la storia è fatta col sangue, tutta la storia è di sangue, e le lacrime non si vedono”; e in guerra proprio “di sangue umano ama pascersi Ares” (Eschilo, Sette a Tebe 244). Non è un caso che ad avere e ad annunciare questa rivelazione, che attiene all’irrecuperabile teratologia della natura umana (quella ribadita nel quadro 6 dalla stessa Atena quando osserva che “gli uomini vogliono sempre la felicità, / ma nella strada precisa che tentano di seguire / si insinua un errore / sempre lo stesso / e finiscono nel sangue”), sia l’ultimo dei tre protagonisti, perché “Cadmo sono gli uccelli, Laio sono i cavalli, Edipo è un mostro, l’uomo”.