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Che cosa resta è il titolo di un racconto di Christa Wolf scritto tra il 1979 e il 1989, gli ultimi dieci anni prima della caduta del muro di Berlino.

Si tratta del diario di una giornata trascorsa da una scrittrice sorvegliata dalla polizia di Stato a Berlino Est, nell’allora Repubblica Democratica Tedesca, una donna che vive nel sospetto di essere spiata e ascoltata da tutti, anche dagli amici, costretta a nascondere in un cassetto segreto quel che scrive. La scrittura è ‘quel che resta’, una scrittura nuda, senza finzioni; una scrittura che si fa cronaca e testimonianza per coloro che verranno; una scrittura che denuncia la paura, l’angoscia, l’orrore in cui si vive sotto una dittatura.

La scrittura resta anche lì dove non resta più nemmeno la speranza, dove il disincanto lascia il posto alla prospettiva del futuro. Non a caso Christa Wolf mentre scriveva Che cosa resta scrisse, tra l’altro,  anche il suo ben più celebre racconto Cassandra. Infatti chi scrive in epoche segnate da oppressione e terrore spesso si è richiamato alla sventurata Cassandra, colei che, nel mito greco, conosceva la verità ma era stata condannata da un dio a non essere creduta.

Mi chiedo se esista ancora una scrittura ‘che resta’, la scrittura del testimone che rischia in prima persona, ma vuole ad ogni costo lasciare traccia, lanciare un grido che abbia un’eco. Se in qualche luogo ci sia ancora uno scrittore o un intellettuale che scriva solo perseguendo la verità e solo a questo scopo, andando oltre la cortina di fumo densissimo del troppo che sappiamo, del tanto che vediamo, del nulla che conosciamo. Una scrittura che non sia cioè anestetizzata dalla propaganda continua, incessante, inarrestabile, di ogni segno e colore, che ci domina e ci tiene prigionieri.

Christa Wolf scriveva per il bisogno di denunciare la repressione soffocante da parte di uno Stato in cui, come moltissimi altri della sua generazione, aveva creduto; Wolf scriveva per far conoscere come l’utopia comunista si fosse rovesciata nel suo contrario e per raccontare la propria disillusione. La scrittura diventava così una sfida e insieme un atto di resistenza, come è accaduto, sinora, in tutti i regimi totalitari che perciò della scrittura hanno avuto paura e hanno cercato in ogni maniera di piegarla e asservirla. Ma oggi?

Oggi siamo sotto il totalitarismo dell’informazione, falsa o vera che sia. La scrittura perde non solo i suoi scopi morali, ma anche comunicativi: il linguaggio serve non per dire o significare, ma per affermare la propria esistenza nella immensa gabbia sociale che è la rete. Perciò si scrive tantissimo, si scrive in continuazione, per dire la propria opinione su ciò che quasi sempre non si conosce, oppure per manifestare il proprio odio o il proprio incondizionato amore, ma senza la certezza che quell’odio e quell’amore arrivi davvero a chi lo indirizziamo. Non importa chi ci ascolta o chi ci legge, l’importante è scrivere per esistere virtualmente, un’esistenza destinata a restare anche dopo la nostra scomparsa materiale. La scrittura non resta ma, come tutto, scorre nella quantità di dati che qualcun altro elabora per noi, per indurci a vivere nella qualità di consumatori, di elettori, se necessario di soldati.

Cecilia Luppoli in Cassandra, regia Carlo Cerciello, 2023, ph@Guglielmo Verrienti

E allora, cosa resta di Cassandra? Ossia di colei che conosce la verità, la dice e non viene creduta? Cassandra poteva ben diventare, ancora negli anni Ottanta del secolo scorso, alter ego di Christa Wolf, cioè di ogni intellettuale che pretende di sapere quel che agli altri è nascosto dal potere. La Cassandra di Wolf voleva far conoscere al mondo una Troia corrotta, iper-burocratica, governata da una famiglia nella quale si annidavano l’odio e la censura; la Troia di Christa Wolf era un’allegoria per quello stato di polizia che sorvegliava tutti i suoi cittadini in maniera capillare, che negava loro libertà elementari e soprattutto espressione, ma si presentava come lo Stato perfetto. L’opposizione tra Troia e i Greci diventa facilmente, in filigrana, l’opposizione tra i due mondi separati dalla cortina di ferro, l’Occidente americanizzato da una parte e il blocco sovietico dall’altra: in mezzo, le storie individuali di donne e uomini schiacciati dal peso delle ideologie, della fede cieca, della prevaricazione maschile, del bellicismo. In mezzo stava Cassandra, che non rinunciava a parlare, che non rinunciava a raccontare, pur sapendo che stava per andare a morire. Ma la sua parola, divenuta pagina stampata, era destinata a restare.

In Cassandra di Wolf, le mura di Troia continuamente evocate in un racconto dallo stile sussultorio, il confine visibile, con facilità oltrepassato anche dai ‘nemici’ Greci (che hanno la stessa cultura dei Troiani) per trattative diplomatiche e traffici, è una trasparente mitologizzazione del muro che divideva il cielo di Berlino. La Troia della Cassandra di Wolf è una città-isola, assediata come Berlino est, dominata dalla burocrazia interna e dai servizi segreti, in cui la menzogna della propaganda distorce le verità e la paura strozza ogni libertà individuale: perciò Cassandra, che sa la verità, viene emarginata. Enea, amato da Cassandra, sceglie invece di andar via e perciò è considerato un traditore. La Wolf racconta così, attraverso il mito, la pericolosa fuga di tanti dal regime comunista al di là del muro, verso l’Occidente: fuga nella quale si rischiava la vita e si partiva verso incerti approdi. La libertà restava spesso un miraggio e anche ‘al di là’ del muro regnavano ipocrisia e violenza.

Cecilia Luppoli in Cassandra, regia Carlo Cerciello, 2023, ph@Guglielmo Verrienti

La Troia rievocata dalla Cassandra di Wolf non è del resto una città in cui si è imposto un dominio straniero, non è stata conquistata: è invece una città in cui il male viene praticato dalla stessa famiglia della infelice sacerdotessa, in cui il tiranno è Priamo, suo padre, che piega la volontà della figlia e la induce a tacere; una città in cui i legami di sangue non sono stretti dall’affetto o dall’amore, ma dalla violenza.[1]

Certo, il mito è un travestimento infido: quando lessi Cassandra di Christa Wolf per la prima volta, molto mi sfuggiva del contesto storico; piuttosto vi vedevo la disperazione di una giovane donna violentata contro il sopruso sessuale maschile, il lamento ancestrale contro ‘Achille la bestia’; mi immedesimavo nel dolore dell’abuso, anche solo di sguardi e battute oscene, nella difficoltà di conciliare i ruoli tradizionali della donna con aspirazioni, capacità, responsabilità. Ma la dimensione politica allora attuale di quel racconto di Christa Wolf mi era sconosciuta o quasi. E anche la parola 'guerra', che in Germania est invece era ancora, all’inizio degli anni Ottanta, una parola viva e urlata dai cumuli di macerie di monumenti non ancora ricostruiti, era in fondo estranea a me, come a tutta la mia generazione.

E oggi? Che cosa resta di quel racconto per voce sola, un racconto a tratti farraginoso nella ricostruzione delle vicende mitologiche e perciò non sempre facile? Cosa resta di quel racconto ora che il muro di Berlino non esiste più da decenni, se non come souvenir turistico, che di quell’utopia rovesciata non ci sono vestigia ideologiche, ora che pensare il mondo come diviso in due sarebbe come minimo riduttivo? Cosa resta di Cassandra, ora che siamo circondati da profeti di ogni segno e di ogni sventura, e tutti sono creduti, nessuno è messo a tacere, e nondimeno il mondo va come deve andare e siamo sull’orlo, con incoscienza e a tratti esultanti, di un conflitto nucleare? Non so rispondere a questa domanda, ma certo non è un caso che in questi tempi bui le Cassandre ritornino, e la Cassandra di Christa Wolf con esse, almeno sulle scene italiane, sebbene personalmente ritenga questo racconto un testo molto poco adatto al teatro.   

Cassandra di Wolf, infatti, ha goduto di particolare fortuna in Italia; mi viene in mente una bella versione all’Elfo Puccini con Ida Marinelli e la regia di Francesco Frongia; poi la complessa e molto fisica messa in scena di Elisabetta Vergani, diretta da Maurizio Schmidt (ne parlai tempo fa qui); e ancora la drammaturgia di Elisabetta Pozzi, una produzione di Hypokrites teatro (Io credo a Cassandra, 2018).  Questo mese Cassandra di Wolf è in scena a Roma  (drammaturgia e regia di Frosini/Timpano) e da Napoli a Milano, al Franco Parenti, in una produzione Teatro Elicantropo / Elledieffe, di e con Cecilia Lupoli, con la regia di Carlo Cerciello, che ha ricevuto grande attenzione sulla stampa (una rassegna nella pagina web del teatro Franco Parenti).

Si tratta di una messa in scena che, in questo preciso momento storico, di certo ha anche, e forse soprattutto, una funzione sociale. Lo scopo è risvegliare le coscienze, intorpidite come nel denso fumo che avvolge gli spettatori seduti quasi a diretto contatto con il corpo dell’attrice, trattenuto da forti ‘lacci’, da fasce elastiche che le impediscono di fuggir via. La schiava Cassandra, infatti, nel racconto mitologico, arriva in catene davanti alla reggia del vincitore, Agamennone, di cui è concubina.

Un corpo femminile esposto e prigioniero, una voce che addentrandosi nei meandri di un passato ancestrale, ci ricorda che stiamo assistendo all’avvicinarci della guerra e che avevamo e forse ancora abbiamo tutte le possibilità di fermarla. Vuole ricordarci quanto ci sia bisogno di voci libere e convintamente pacifiste, che sappiano dire ‘no’ alle armi e agli eserciti, che dicano ‘no’ coraggiosamente alla violenza ma senza ricorrervi, che si facciano strada in una propaganda accecante e sappiano deviare da strade che ci dicono obbligate. Vuole dirci, questa Cassandra, un fatto banale: che le vere cause della guerra non stanno certo nel rapimento di una donna o nell’onore offeso, ma in interessi economici ed espansionistici, nella necessità di spartirsi il mondo.

Dal 1983, anno in cui il racconto di Christa Wolf fu scritto, a oggi, moltissimo è cambiato: siamo davvero in un altro mondo. Apprezzabile, perciò, che il costume di questa Cassandra rispecchi la cultura punk e underground degli anni ’80, che sia lei stessa, dunque, un riferimento storico. Infatti solo con la consapevolezza della storicità di quel testo, e delle condizioni nelle quali il racconto mitologico fu riscritto da Wolf, è possibile evitare una banalizzazione del mito e una troppo facile sovrapposizione al presente di questioni che avevano senso in altre epoche della storia. Così, forse, sarà possibile che a restare davvero sia l’impegno reale, quotidiano, contro il sopruso e contro la guerra.   

Cecilia Luppoli in Cassandra, regia Carlo Cerciello, 2023, ph@Guglielmo Verrienti

 

[1] Su Cassandra di Christa Wolf sono tornata su questo blog con maggiore ricchezza di dettagli e di documentazione (qui).