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La scrittrice tedesca Christa Wolf (1929-2011) cominciò tardi, nella vita e nella carriera, a riflettere sui miti greci e a renderli oggetto di letteratura: avvenne durante un viaggio in Grecia nel 1980, quando la scrittrice aveva già 51 anni, occasione che - d'altro canto -  significò anche fruire di un enorme privilegio, poiché ai cittadini della Repubblica Democratica Tedesca (DDR), com'è noto, non era concesso il visto per turismo nei paesi occidentali. 

La Wolf  viaggiò insieme al marito, lo scrittore Gerhard Wolf,  e il loro itinerario consapevolmente si inseriva in una lunga tradizione, che ha il suo più nobile e forse noto archetipo nel Viaggio in Italia (1816) di Johann Wolfgang Goethe: ossia la tradizione per la quale arrivare sino alle sponde del Mediterraneo costituisce un'egira e insieme un'iniziazione,  una specie di rito di passaggio, una tappa ineludibile nella formazione di un poeta, di uno scrittore, di un letterato del nord Europa. Goethe non arrivò mai in Grecia, che a quell'epoca versava ancora saldamente sotto il dominio turco, ma in Sicilia ritrovò la natura greca e anche le sue rovine, e imbarcandosi finalmente comprese l'Odissea, identificandosi con l'eroe ramingo alla ricerca di sé stesso e di un punto d'approdo esistenziale.

Per un intellettuale di uno Stato comunista nel XX secolo, quale Christa Wolf, la cultura greca non costituiva un ideale, né in senso estetico né in senso politico. Uno sguardo storico, orientato dalle categorie del materialismo storico, ne restituiva l'idea disincantata di una struttura sociale radicalmente ingiusta, basata sul privilegio di pochi e sullo sfruttamento degli schiavi, retta da una democrazia imperfetta perché riservata a un numero limitato di cittadini maschi, guidata da esigenze espansionistiche e militaristiche, imperialistiche ed economiche.  

Il punto di vista storico-marxista, tuttavia, non si conciliava facilmente con l' "estasi panica" che derivava dalla lettura dei capolavori greci, e che afferra, paradossalmente,  la stessa Wolf già nel silenzio della sua casa berlinese, quando, per prepararsi al viaggio in Grecia, affronta la lettura non dell’aristocratica epica omerica, ma dell’Orestea di Eschilo. La scelta aveva anche ragioni ideologiche: per una corrente di studi molto influenzata da categorie marxiste, la tragedia greca, e quella eschilea in particolare, testimonierebbe infatti una sanguinosa lotta tra clan aristocratici e l’incipiente democrazia, e questa interpretazione ebbe grande diffusione nel dopoguerra tra gli intellettuali di sinistra, non solo al di là della cortina di ferro. Vi si attiene, ad esempio, Pier Paolo Pasolini traduttore dell' Orestea , traduzione recentemente ristampata con una limpida introduzione di Massimo Fusillo (vedi qui). 

Si trattava di una visione fortemente ideologizzata che reagiva agli abusi idealizzanti e razzisti che sull'antichità greca, variamente compiuti dal nazismo, e rispondeva a un più generale estetismo conservatore che risaliva all'inizio del XIX secolo. 

Dopo la rovina del cosiddetto Terzo Reich, in particolare, i classici greci erano divenuti oltremodo sospetti e invisi, in quanto espressione di una cultura élitaria e conservatrice,  razzista, connivente con l'esaltazione della razza pura e che aveva istituito una linea diretta tra Greci antichi e Tedeschi contemporanei. Ripudiando questo tipo di studio viziato dell'antichità, lo studio del greco, nella DDR, era stato abolito dalla scuola, perché disciplina inutile, troppo legata alle mitologie fasciste. 

Christa Wolf, dunque, partì per la Grecia non per cercarne l’ideale o il sogno, ma al contrario per comprendere, attraverso le rovine archeologiche, la storia sociale, le radici della lotta di 'classe', i fenomeni collettivi. Contemporaneamente, in quanto scrittrice e quindi maestra di linguaggio, rileggendo la tragedia greca ebbe a verificare la grande forza comunicativa del mito greco, la sua capacità di raccontare situazioni esistenziali che si ripetono nella storia e anche nelle vite degli individui. L'incontro con il mito degli Atridi, avvenuto attraverso la lettura di Eschilo a Berlino, divenne poi una vera e propria esperienza panica nel paesaggio di Micene. 

In Grecia, infatti,  la scrittrice cominciò a percepire emotivamente il paesaggio e i monumenti, vivendo così, quasi suo malgrado, una esperienza irrazionale. La scrittrice tedesca sente, assimila il lato oscuro, violento, dionisiaco della Grecia antica, viene trascinata in un turbine emotivo perché le pare di comprendere, attraverso il sentimento, la sopraffazione dei pochi sulla moltitudine degli schiavi, dei maschi sulle femmine, dei più forti sui fragili per natura. 

Nei luoghi di memoria, davanti a quel che resta dei monumenti, perciò, Christa Wolf non ebbe un atteggiamento distaccato. Il suo viaggio non sortì come scopo interrogare e indagare i frammenti della cultura materiale; la scrittrice, piuttosto, si immerse  in ambienti e atmosfere emotive, volendo ri-sentire quel che esseri umani lì, proprio lì, avevano già sentito. In quei luoghi risuonavano, come nel guscio di una conchiglia, condizioni esistenziali, vite sofferenti il cui dolore sembrava essersi fossilizzato nelle pietre e nelle rovine.

Christa Wolf, dunque, non visitò la Grecia, ma fece esperienza della Grecia, interrogò le rovine come se le pietre avessero potuto parlare e come se solo nello stesso ambiente fisico si potesse ancora sentire, avvertire, condividere la sofferenza, il dolore, la paura, il tremore di chi secoli prima lì aveva vissuto. Questo era possibile perché nella condizione dei deboli, dei vinti, delle donne, nulla pareva cambiato, pur a distanza di secoli.

 Non una Grecia apollinea, luminosa, solare si spalanca allo sguardo della viaggiatrice. Tutt'altro. Ad Atene, Wolf riconobbe subito nel volto delle korai sull’ Acropoli l’espressione sempiterna del lutto, che attanaglia l’uomo antico come quello del ventesimo secolo. Tutto ciò che è in messo in moto dal lutto comincia ad animarsi, ira, paura, colpa, orrore, vergogna - annota nel libro intitolato in italiano Premesse a Cassandra, che raccoglie sia le lezioni di poetica che il diario di viaggio della scrittrice: queste pagine accompagnano il farsi del racconto in forma monologica Cassandra, nel quale si sussume la sua prima esperienza greca. Sia le lezioni che il racconto furono pubblicati in un unico volume nel 1983 (vedi la scheda di Michele Sisto). 

In Grecia, la scrittrice contemporanea acquisisce la consapevolezza del ripetersi crudele della condanna a morte dei deboli, degli schiavi, delle donne, dei malati, di coloro che non possono opporsi alla forza che guida il mondo, alla violenza che determina i grandi fatti storici, alla prevaricazione che schiaccia i deboli. In Grecia, ritrova quel senso di impotenza disperata che prende nel non poter rispondere alla forza che si impossessa dei corpi e nullifica la mente, che rende gli uomini cose, oggetti insieme ad altri oggetti. Ritrova l'orrore della guerra, che si è come inciso nelle rovine, in quel che resta della potenza che fu, e che dalle profondità dei secoli ancora urla. Non incontra, dunque la storia, ma il reiterarsi della storia. E incontra la sua forma simbolica, efficace, in certo senso monumentale perché si incide nel ricordo: ossia il mito. 

Christa Wolf non arrivò in Grecia «troppo tardi», come pure aveva temuto. Il suo viaggio si compì invece nel momento giusto e nel luogo giusto. L'apice della sua esperienza, infatti, non si realizzò sull'Acropoli ateniese, né davanti alla impressionante manifestazione di potenza del Partenone, e nemmeno nella polverosa e decaduta Argo, ma a Micene, al cospetto della Porta dei leoni, dove incontrò finalmente Cassandra, che conosceva solo dai versi di Eschilo, e la incontrò «nel cerchio magico di uno sguardo».

Si tratta di un'epifania, di una rivelazione, ed insieme di un atto di immedesimazione e di riconoscimento.

Micene, dunque, costituisce il centro di questa esperienza greca. A  Micene Cassandra aveva agito, incontrato i vecchi della città, era stata accolta da Clitemnestra, la moglie tradita di Agamennone; proprio lì aveva previsto il bagno di sangue e la vendetta cruenta che stava per compiersi, l'aveva anche descritta nel delirio, ma non era stata creduta. Cassandra, ovviamente, non è mai esistita, è personaggio di leggenda. Ma la scrittrice contemporanea le dà consistenza storica. Per Christa Wolf Cassandra c'è stata, si è fatta carne e dunque soggetto senziente e pensante, e ancora 

sta tra le mura ciclopiche. Dalla porta la fissano i leoni, che ora sono senza testa. Deve entrare. Mura, mura, anche nella cerchia interna della rocca. L’impietrita paura della vita manifestata dagli abitanti, e il loro timore degli stranieri – non c’è da stupirsi del cattivo presagio che assale la straniera.

Cassandra. La vidi subito. Lei, la prigioniera, mi imprigionò, lei, oggetto essa stessa di fini che le erano estranei, si impadronì di me. (…) L’incanto ebbe subito effetto. Credetti a ogni sua parola, provare una fiducia incondizionata era ancora possibile. Tremila anni – dissolti. Così il dono della veggenza, che il dio le aveva conferito, si mostrò duraturo, e svanì soltanto il verdetto di lui, che nessuno le avrebbe creduto  - si legge nelle Premesse

Una minima, infima, speranza, c'è in questa visione desolata, in questa visione che porta in contatto con una donna condannata irrevocabilmente a morte. Qualcosa si insinua nella trama fitta della storia, diventa il granello di polvere che impedisce all'ingranaggio perverso e intriso di dolore di ripetersi identico. L'infelicissima sacerdotessa era stata condannata a profetizzare il futuro, ma a non essere creduta. Adesso, attraversando i secoli, è finalmente creduta: qualcuno non solo le concede la parola, la rende pure soggetto che racconta di sé stessa e non lascia che siano altri, maschi, a raccontare di lei; così si annulla la maledizione, la condanna all'incredulità e quindi all'inutilità e alla derisione.

 

La Cassandra che parla attraverso la penna di Christa Wolf, quella Cassandra contemporanea delle donne del ventesimo secolo, è creduta in ogni sua parola: la sua vicenda ha la forza della testimonianza, il suo sacrificio il valore della rivolta, le sue profezie valgono da monito per il futuro. E questo è possibile perché le due donne, a dispetto dei secoli che le separano, che vuol dire anche a dispetto delle differenze sociali, di condizione spirituale, di atteggiamento, si sono riconosciute come sorelle, si sono specchiate l'una nell'altra.  

Si tratta di un attimo, come di uno squarcio nel tempo. La barriera dei secoli si infranse, e Christa Wolf vide Cassandra accolta da Clitemnestra, la regina che la invita ad entrare nella reggia dove parteciperà al sacrificio come vittima, non come officiante; vide la rassegnazione di Cassandra, il suo silenzio nel votarsi alla morte. Poi il cerchio magico si ruppe: l’urgenza dell’attimo strappò la scrittrice alla visione. Quattro ragazze giapponesi facevano  pic nic, un gruppo di studenti americani scattavano foto ricordo, la scrittrice e i suoi compagni di viaggio si riposarono sulle terribili pietre.  

Però Cassandra ebbe il tempo di raccontare la sua storia a Christa, prima di tornare da dov'era venuta.

Il racconto Cassandra  costituisce una pura registrazione di quel che Cassandra pensò prima di andare a morire, di come ripercorse la propria vicenda esistenziale, le sventure sue e della sua città, i suoi amori, le violenze subite.

Cassandra, da una parte, diventa una donna che parla e agisce come fosse nel ventesimo secolo; Christa Wolf, d'altra parte, si fa antica, indossa, cioè, i panni della sorella mitologica per raccontare, attraverso la sua voce, il suo presente. E lo racconta come avrebbe fatto Cassandra, con la lingua della profezia, della metafora, dell’immagine, del simbolo. 

Il lettore, l'ascoltatore, si trova dilaniato tra il passato mitologico e il presente della Germania est, tra la schiavitù della donna antica, merce di scambio e non-persona, e le rivendicazioni delle donne nel cuore del 'secolo breve'. Cassandra e Christa Wolf si compenetrano così strettamente che è impossibile dire quali siano le parole dell'una, tratte fuori dall'abisso della storia, e quali quelle dell'altra; impossibile discernere tra il mito antico e il mito come travestimento della contemporaneità. 

Sembra che io sappia di lei più di quanto sia in grado di dimostrare. Sembra che lei mi guardi più intensamente, che anzi più intensamente mi riguardi di quanto io sia in grado di volere  - annota ancora la Wolf nelle Premesse.  

La simbiosi perfetta tra la voce della scrittrice contemporanea e quella del personaggio mitologico crea sconcerto nel lettore (e nell’ascoltatore) del monologo, specie all’inizio, che ora rileggiamo:

Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l’hanno fissata. Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l’ultima cosa che vide. Un nemico da tempo dimenticato e i secoli, sole, pioggia, vento, l’hanno spianata. Immutato il cielo, un blocco d’azzurro intenso, alto, distante. Vicine, oggi come ieri le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola. 

Con questo racconto vado nella morte.  

Se volessimo parafrasare questo prologo, potremmo dire che chi scrive è tornato sul luogo dove una donna fu portata a morire, davanti ad una porta oltre la quale c’era il macello. Nulla ci riconduce alla Grecia, nulla a Micene, in un esordio visionario e insieme asciutto, epicamente indifferente. Un luogo desolato, una guerra dimenticata, un paesaggio che è stato scolpito dal tempo, dai secoli: ecco cosa vediamo.

E molti qui possono vedere un’altra terribile porta, un’altra fortezza creduta inespugnabile e poi ridotta in macerie: la porta di Auschwitz.

Una donna sola, della solitudine di chi ha perso tutto, valica quella porta. Una solitudine di pietra: nella quale, come per un terremoto, si apre un abisso e da essa irrompe l’‘io’ che strappa la parola a chi sta guardando, a chi è tornato sul luogo dei delitti.

Con questo racconto vado nella morte.

La voce narrante si dissolve, il filo del racconto trascolora in un altro filo, senza nodi, senza cesure.

Con questo racconto vado nella morte. 

Cassandra si racconta prima di morire impossessandosi della propria storia, raccontata nei secoli solo da uomini, e sa di essere creduta perché la sua è una storia esemplare: vittima della violenza e della paura, eppure coraggiosa nel saper dire al momento giusto ‘no’, nel sapersi opporre anche al più soverchiante dei poteri.

L’ ‘io’ di Cassandra e l’ ‘io’ della scrittrice tedesca si fondono, così che nei ricordi di guerra della Cassandra mitica riecheggiano non impercettibilmente i ricordi di guerra della scrittrice adolescente che ha indossato l’uniforme del ‘Führer’: le navi che salpano, i soldati salutati entusiasticamente, la patria abbandonata, la disperazione dei profughi, la loro nuda vita.

Troia, la città amata che ha emarginato Cassandra, l’ha considerata pazza e l’ha arrestata quando ha espresso con forza il suo dissenso, Troia, dunque, è la controfigura mitica della Repubblica Democratica Tedesca, uno Stato in piena involuzione politica, rispetto alla quale la Wolf non lesinò critiche pur non sconfessandolo mai.

Restano però urgenti le domande: può esistere un ‘io’ che abbia perso i punti di riferimento, che non sia integrato in una polis tenuta insieme da una ‘religione’, da valori comuni? Cosa succede quando l’individuo entra in conflitto con lo Stato? Si può dissentire e contemporaneamente continuare ad avvertire indissolubile appartenenza?

I nemici del resto, i nemici che parlano la stessa lingua e onorano gli stessi dei, quei Greci/Tedeschi che assediano la città, non sono visti in una luce positiva, anzi: la rovina di Troia, la sua inarrestabile corruzione, comincia proprio quando i Troiani prendono a pensare come il nemico, se ne lasciano sedurre.

 

Christa Wolf è una scrittrice che abbracciò, dopo la guerra, la causa dell’utopia socialista, e convintamente ha agito integrata nel sistema della Repubblica Democratica Tedesca, anche quando le epurazioni divennero pesanti contro gli intellettuali e l’utopia svelò il volto della dittatura, come ogni dittatura edificata sulla paura, la delazione, il controllo, lo spionaggio. La sua Cassandra racconta tutto questo: il mito serve da simbolo e da espediente per sfuggire la censura, che poteva influenzare la pubblicazione. La scrittrice era sorvegliata a vista dalla Stasi, il temibile servizio segreto statale che controllava capillarmente gli individui. 

Quando Cassandra è stato scritto e pubblicato, il muro non era ancora caduto. Al centro dei ricordi della figlia di Priamo, c’è il palazzo, la sede delle discussioni politiche a cui prendeva con fervore parte sin da bambina, e che progressivamente viene conquistato da burocrati e funzionari: uno in testa, Eumelo, capo di una polizia che semina il terrore.

Un palazzo nel quale si gestisce la propaganda per illudere il popolo, si diffondono menzogne: la più grande e letale delle bugie è che Paride abbia rapito Elena, mentre invece Elena, un’evanescente figura velata nascosta nei recessi del palazzo, non è mai davvero arrivata a Troia. Ma nello Stato totalitario quel che è ufficiale è reale, non quel che è razionale. 

Il palazzo dai «corridoi sempre uguali, che conducevano a stanze sempre uguali», il regno della gerarchia, ha i tratti riconoscibili del ‘Palazzo della Repubblica’ di Berlino Est (nell'immagine sopra), che ora non esiste più, il palazzo del governo, un bunker di corridoi e stanze segrete, inaccessibili.

Berlino Est: facile riconoscervi la Troia di Cassandra, la città circondata da un muro che è una protezione assai flebile, a diretto contatto con un nemico che di nascosto entra ed esce dalle mura a piacimento per oscuri traffici; una città vulnerabile proprio nel punto più rappresentativo, la Porta Scea, come la Porta di Brandeburgo prima del 1989 sospesa nello spazio di nessuno al tempo della città divisa, aperta su una terra deserta. Quella porta da cui, il 9 novembre del 1989, una fiumana inestinguibile di gente ha voluto simbolicamente passare, compiere il rito della riunificazione.

Berlino come Troia è stata una città assediata, isola circoscritta da un muro che tanti, a costo della vita, hanno cercato di aggirare scavando tunnel sotterranei; città dai posti di blocco e check-point, città di sospetti e indagini. Città della paura, dell’angoscia.

Nel racconto di Christa Wolf, Cassandra ricorda come lei stessa e i fratelli, i figli del re, fossero stati sottoposti a perquisizione «sacca dopo sacca, cucitura dopo cucitura», un’umiliazione provata da tutti i cittadini che avevano un lasciapassare per Berlino ovest e poi rientravano.

Un palazzo accanto alla stazione di Friedrichstrasse, dove si salutavano le persone che vivevano nella stessa città, ma in due diversi Stati,  prima di essere sottoposte a indagini e perquisizioni al rientro, si chiama ancora, anche oggi che è un museo, ‘il palazzo delle lacrime’ (nella foto qui sotto). Quindi le partenze, gli esili forzati di chi non ha altra scelta che la fuga.

E poi  il cielo.  Il cielo sopra Berlino, quel cielo che Christa Wolf, con il suo primo romanzo di successo, nel 1963, intitolato Il cielo diviso, ha reso luogo letterario. I protagonisti di questo romanzo sono due ragazzi della Germania comunista. Lui fugge nella Berlino occidentale, e lì si incontrano per l’ultima volta.

Quel pezzetto di terra su cui essi si trovavano, una mattonella di marciapiede, non più ampia di un metro quadrato, era rivolta verso il lato notturno. Un tempo, le coppie di amanti prima di separarsi cercavano una stella, su cui i loro sguardi la sera potessero incontrarsi. Che cosa dobbiamo cercare noi? “Il cielo almeno non possono dividerlo” disse Manfred beffardo. Il cielo? Tutta questa cupola di speranza e di anelito, di amore e di tristezza?  “ Sì invece” disse lei piano “Il cielo è il primo ad essere diviso”.

 

Rita (questo è il nome della ragazza), arrivata a Berlino per ricongiungersi all’amato, si trova invece a girovagare in «una città tra le braccia dell’attimo, in trepida attesa dell’inevitabile irruzione della realtà»; la ragazza di provincia crede all’utopia socialista e si identifica con il lavoro da operaia che svolge nel collettivo della sua brigata: nella Berlino pacchiana e colonizzata da altri vincitori, si perde e perde, soprattutto, sé stessa. Rimanere nella Berlino capitalista dalle vetrine scintillanti, diventa per lei «peggio che stare all’estero», perché ode la propria lingua: non resiste, torna dall’altra parte, rinunciando così al proprio amore. 

Diciassette anni dopo aver scritto il Cielo diviso, Christa Wolf con Cassandra cerca e trova nel mito il punto di osservazione per narrare il proprio presente e con i ricordi di Cassandra intesse una storia analoga a quella di Rita, una storia di dolore, di fede e di rinuncia, in cui l’amore è impossibile.

Sono accadute molte cose, in quei diciassette anni, e nella Wolf è venuta meno l’entusiastica immedesimazione nello Stato comunista. Il 1968 è stato un anno di svolta, quello della disillusione definitiva. Il racconto di Cassandra contiene in filigrana il tema di Il cielo diviso, eppure la prospettiva da cui si guarda quel cielo è mutata. 

Cassandra è perdutamente innamorata di Enea, ma non lo segue quando lui sceglie di andare via. Resta dall’altra parte del muro, cerca di salvare Troia dalla rovina incombente, pur consapevole che non ce la farà, perché nessuno le presta fede: ma la sua vera sconfitta è capire, al momento della morte, che la Troia in cui credeva non esisteva affatto, che l’utopia non si era mai realizzata, che tutto era intriso dall’ipocrisia e dalla menzogna.

Il dolore di Cassandra consiste nell’affermazione della propria individualità (il farsi soggetto), del proprio ‘io’, nel momento in cui non ha più un ‘noi’ a cui riferirsi. E non solo lo Stato, la polis, le viene a mancare; le viene a mancare anche il ‘noi’ più intimo, radicato, profondo, che è dato dall’amore. Cassandra rinuncia ad Enea, perché non può condividerne le scelte. Ripudia il proprio amore, perché non può ripudiare sé stessa. Un nuovo terribile dolore le morde il cuore: il dolore dell’amore respinto.

Il racconto di Christa Wolf ha in esergo un frammento di Saffo: Già torna a scuotermi Eros che scioglie le membra, dolceamara, indomabile, oscura belva.

Quale Eros, di quale amore canta qui Saffo, e con lei la scrittrice tedesca?

Quell’amore che sopravvive come dolore, un dolore costante, invincibile, che consiste nel ricordo stesso dell’amore che avrebbe potuto essere e non è stato. L’amore che non ammette la scelta del restare insieme degli amanti, perché restare insieme significherebbe il sacrificio stesso dell’amore, la sua fine, il suo ridimensionamento a gesto quotidiano, a consuetudine. No, non si può distruggere nell’amato quel che più ci piace in lui – e l’amore che ci distrugge va respinto, perché solo a questa condizione resta, dolorosamente, amore:

Allora capì che le grandi coppie d’amanti create dai poeti, nel darsi in braccio alla morte non retrocedevano davanti alla separazione, bensì davanti all’ottuso ritorno nella mediocrità quotidiana, si legge nel Cielo diviso

Analogamente Cassandra va a morire nella certezza che il suo amore strappato per Enea non è finito:

 Il dolore ci ricorderà di noi. Grazie ad esso, dopo se ci riincontreremo, e qualora un dopo esista, potremo riconoscerci.

Non c’è alternativa: l’amore torna a sconvolgere come una malattia incurabile dagli attacchi ripetuti, è il dolore permanente del non poter rinunciare a sé stessi, rinunciando ad un altro che è parte di noi, quell’amore che resta inspiegabile proprio perché consiste nel non poter amare diversamente se non a costo di sé stessi.

 

 

 

 

 

Questo contributo è il secondo pubblicato dal nostro blog in occasione dei trent'anni dalla riunificazione tedesca. Il primo quiVedi anche la drammaturgia 'Sotto le mura di Tebe'.

 Nella quinta figura: 'Kassandra sieht ein Schlangehei' di Heidrun Hegenwald (1981) (© VG Bild-Kunst, Bonn 2012). Su questa artista vedi qui. Ottava, decima e undicesima immagine: Gundula Schulze Eldowy, 'Tamerlan', Berlin 1985Sibylle Bergemann, Heike, Allerleirauh, Berlin, 1988, Design: Angelika Kroker (particolare), e Gundula Schulze Eldowy, 'Berlin 1987', dal ciclo: 'Der große und der kleine Schritt (1984–1990)', fa parte della mostra 'The Medea Insurrection. Radical Women Artists Behind the Iron Curtain', tenuta tra il 2018-2019 a Lipsia. Subito sotto un particolare da 'Birkenau'di  © Gerhard Richter.  Nella terzultima immagine: Wolfgang Mattheuer | Seltsamer Zwischenfall, 1984/91, Öl auf Leinwand, 200 x 230 cm, Foto: Galerie Schwind, Sammlung Fritz P. Mayer Frankfurt am Main | Leipzig, VG Bild-Kunst Bonn, 2018, immagine d'apertura della mostra 'Utopie und Untergang. Kunst in der DDR', tenuta a Düsseldorf lo scorso anno, in occasione dei 30 anni dalla caduta del muro. Il dettaglio dall' affresco 'Aufbau der Republik' di Max Lingner, in quella che era la 'casa dei Ministeri' berlinesi, portato a termine tra il 1950 e il 1953, è tratto da Wikimedia commons.