Arrivammo all’alba su Unter den Linden, il viale dei tigli ancora addormentati. Un’alba livida e gelosa di luce, umida e piovigginosa.
I lampioni ancora accesi lasciavano scie oleose sull’asfalto bagnato. Entrammo come ombre fuggenti nei portoni bui e deserti, salimmo di corsa sui tetti. Da lì, dominavamo il viale, da Alexanderplatz sino alla Porta di Brandeburgo. Era un novembre di latte ghiacciato. Il cielo d’acciaio, come spesso a Berlino. L’anno che avremmo poi ricordato, il 1989. L’ordine fu di rimanere in agguato sui tetti dei palazzi, in attesa e in silenzio. Sarebbero presto arrivati, molti, moltissimi, un esercito di invasori, da ogni città, con ogni mezzo, coi treni e gli autobus, in bicicletta e a piedi. Sarebbero presto arrivati in migliaia, innumerevoli, a chiedere libertà.
Alcuni di noi furono mandati su Alexanderplatz travestiti da operai. Svegliarono gli ubriachi che dormivano sotto il ponte della stazione. Quelli protestarono flebilmente ma sgombrarono rassegnati, intontiti dall’alcol, si rifugiarono al caldo dell’entrata della metropolitana che aveva appena cominciato ad andare. “Vedrai che non viene nessuno”, mormorò forse Hans, sfregandosi le mani. Parlava tra sé e sé, per rassicurarsi. Nell’ alba pigra sembrava impossibile subire un’invasione della città. Hans si sentiva a disagio, un intruso nella comunità dei senzatetto, senza uniforme; gironzolava per la piazza ancora vuota guardandosi attorno come se la vedesse per la prima volta, i pugni nelle tasche, schiacciando cicche con la punta degli stivali. L’orologio segnava le cinque di Berlino e l’ora di tutti gli altri paesi del mondo.
Dal tetto, sotto di me, le chiome luccicanti dei tigli.Tenevo il fucile in posizione di mira, come in un gioco. Ma non c’era nessuno. Rarissimi passanti, fantasmi curiosi, da Friedrichstrasse. Forse tardivi clienti di puttane. Aspettammo per ore. A giorno fatto, la gente cominciò a sbucare dalle bocche sotterranee del metrò. Il viale si popolò. La ricetrasmittente gracchiò. L’ordine fu di tenersi pronti a sparare. Sparare al minimo movimento sospetto di insurrezione e disordine. Ma la gente, numerosa, camminava tranquilla, a testa bassa, come sempre. Una normale giornata di novembre, nel 1989. Più gente vedevamo nel viale, più diventavamo inquieti, nervosi. La ricetrasmittente gracchiava in continuazione.
I treni arrivavano alla stazione di Friedrichstrasse strapieni – diceva la radio.Tenetevi pronti all’azione. La stazione brulicava di informatori e soldati in borghese. Si avvicinavano sui binari ai gruppi di manifestanti che scendevano dai treni per dissuaderli sottovoce: "andatevene, tornate indietro. Non accadrà niente, oggi. Non ci sarà nessuna dimostrazione". Molti nemmeno si fermavano, alcuni ascoltavano con atteggiamento serio, poi continuavano ugualmente per la loro strada, dopo solo un attimo di esitazione. Il flusso della folla aveva una sola direzione: andavano tutti verso Alexanderplatz.
Noi dai tetti li vedevamo camminare decisi. Non c’era più il silenzio del giorno incipiente, ma nemmeno vero rumore. Solo un brusìo, insistente, fastidioso, come di nugoli di mosche. Era un paese, il nostro, in cui non si parlava, si mormorava. Bisognava capire subito, afferrare parole sibilate, eseguire gli ordini. Quel giorno nessuno volle capire e nessuno obbedire. Ignorarono gli sguardi torvi e le minacce: "tornate a casa". Non se ne andarono, non vinse la paura. Divennero anzi sempre di più. Dai treni, dai tram, dai bus; qualcuno con la Trabant piena di persone che salutavano e si sporgevano dai finestrini; le scuole si svuotarono, i ragazzi scesero tutti per strada.
Credevamo sarebbero stati non più di un centinaio. Credevamo avrebbero avuto paura. Credevamo non si sarebbero mai avvicinati al muro, non così a portata dei nostri fucili. Invece verso le dieci erano migliaia e migliaia, persino ai tetti arrivava il brusio della folla, erano così tanti che dall’alto non si poteva distinguerli, come moscerini al tramonto d’estate sull’acqua melmosa dei laghi. Noi stavamo nascosti tra i tetti, non dovevano vederci, appiattiti come cecchini. Sparare, sparare, nella testa girava solo quel verbo, l’ordine di sparare, alla cieca, sulla folla, al primo movimento ostile. Sparare.
Nessuno da giù guardava verso l’alto, nessuno si accorse di noi. La folla, a poco a poco, diventò festante, eccitata. Si abbracciavano, si stringevano, dalla gente si alzava un fiato solo nella grigia giornata di novembre: come nebbia o polvere. Ci dissero che la piazza era ormai piena, si stavano muovendo in corteo. L’ordine restava: sparare. Aspettarono ancora, invece; non si mossero subito, erano fermi sulla piazza, increduli loro stessi che fossero così tanti. Si riunivano a gruppi, gli attori improvvisavano spettacoli e discorsi, le donne cantavano. I ragazzi disegnavano e scrivevano striscioni e cartelloni: ‘il popolo è qui’, ‘scendiamo in strada’ e poi ‘svolta’, dappertutto si leggeva ‘svolta’. Die Wende. Eravamo ad una svolta del nostro destino, lo capii anch’io guardando in basso. Dove ci avrebbe portato quella svolta precipitosa, non me lo chiesi.
Noi soldati scrutavamo avidamente tra la gente alla ricerca di armi,di qualcuno, fosse uno solo, che impugnasse una pistola, un coltello, un bastone. Ma parevano disarmati. Visti dall’alto, sembravano inermi, indifesi, ignari d’essere spiati. Le uniche scintille partivano dagli accendini. Non c’era traccia di provocatori. Noi stavamo lì, gli occhi nel mirino, ma non vedevamo nemici. Mi trovai a pensare che vedevo solo, forse per la prima volta, una quantità folle di gente felice. Mi chiesi se io stesso avrei mai provato tanta felicità.
Le ore passavano, non accadeva niente. Nel primo pomeriggio il mare di gente finalmente cominciò ad ondeggiare, increspatura di teste all’unisono. Il loro servizio d’ordine funzionava. Cantavano, ballavano, ridevano. Come avremmo potuto sparargli addosso? Mio padre raccontava qualcosa del genere del carnevale di Colonia, che noi non avevamo mai visto. Una festa di piazza. Noi ragazzi nella Repubblica Democratica Tedesca crescemmo però ignari di feste. Le band suonavano di nascosto, anch’io andavo a quei concerti proibiti e a ballare musica americana, nelle cantine, al buio, in campagna, lontani dalla città, nascosti. Una festa in piazza così, invece, non l’avevamo mai vista. Anzi: non l’avremmo mai potuta immaginare.
La gente felice andava lungo il viale, puntando verso la porta di Brandeburgo, ossia verso il confine. Le ricetrasmettenti si misero allora in agitazione, gracchiavano ancora l’ordine di sparare. Al primo segnale di sfondamento dei posti di blocco sparare. Non dovevano avvicinarsi al muro, oppure bisognava sparare, subito. Sofort. Al primo disordine: sparare. I carri armati pronti e in allerta, se necessario. Persino le armi pesanti. Ma ad aprire il fuoco dovevamo essere noi della milizia. Cominciammo a guardarci inquieti e indecisi.
La folla puntava verso la Porta, inarrestabile. Avevano al collo fazzoletti arancioni, fischiavano come andassero a vedere una partita di calcio o un comizio di Honecker, giovani e vecchi, mamme con i bambini, fidanzati che si tenevano per mano. Si alzavano grida: ‘libertà’, ‘libere elezioni’. Camminavano sereni, qualcuno ai bordi teneva il corteo serrato lungo il viale dei tigli, con una fascia al braccio colorata con la scritta: ‘no alla violenza’.
L’aria sui tetti divenne elettrica, le ricetrasmittenti ripetevano ossessivamente l’ordine: al minimo segno di disordini, sparare. Ma non c’era disordine. Di quel giorno ricordo solo la gioia, la loro gioia, non la nostra. Un’esplosione di gioia. Chi era lì nel corteo, cantando, suonando, battendo le mani, provava una gioia pura, incontenibile. Dal cielo uniforme si diffuse un velo di luce. Guardando dall’altra parte, l’angelo della colonna della Vittoria luccicava. O forse l’ho sognato. Lo sguardo non poteva arrivare sin lì.
Paralizzato su quel tetto, muto, impotente, mi sentii spettatore impudico della gioia altrui. Sparare, sparare, nella testa avevo solo quel verbo. Sotto di me scorreva un fiume di ragazzi che si tenevano per mano, con gli zaini pieni di libri, con i manifesti di cartone addosso: ‘Gorbaciov aiutaci’. E ancora quel grido: ‘Libertà’, ‘Libertà’.
Avevo ventiquattro anni. Entrai nell’esercito per convinzione. Quel paese scricchiolava e bisognava puntellarlo, l’esercito serviva a questo. Era il mio, il nostro paese e non ne volevamo un altro. Disprezzavo la falsa libertà dei capitalisti e i loro dollari. Riconoscevo il socialismo come mia unica fede e mia fonte di emancipazione. La Repubblica Democratica Tedesca splendeva fuor di dubbio come il migliore paese del mondo e il miglior Stato possibile. I Sovietici ci avevano liberato dai Nazisti. Sull’orrore nazista sapevo tutto, lo avevo imparato a scuola. Noi, si, noi Tedeschi dell’Est, noi socialisti, noi protetti dai Sovietici, noi sì, eravamo liberi.
Perché fuggire? Cosa poteva offrire il mondo corrotto dal capitalismo? Mi ero convinto, oppure ero stato convinto, che volesse scappare solo chi non aveva voglia di lavorare. Il potere è del popolo e il popolo è di lavoratori. Eppure fuggivano in continuazione, scavando tunnel sotterranei, cercando varchi periferici nel filo spinato, guadando il corso dei fiumi, oppure semplicemente correndo, correndo senza fiato, falene accecate e impazzite di disperazione. Morivano colpiti alle spalle. Perché?
Me lo chiedevo durante i miei turni sfiancanti, su e giù, giù e su, sotto i fari bianchi che illuminavano il confine. Una sera di qualche mese prima, stavo di guardia al muro, ci rilassavamo fumando e passeggiando nella striscia d’erba tra la barriera di cemento e il filo spinato. Aprivamo le piccole porte che davano sull’altra parte, spiavamo la terra di nessuno per gioco. Lo sguardo incontrava il deserto. Eravamo in quattro, due avanti, due dietro: nessuno di noi si aspettava, proprio quella sera, di vederli sbucare sotto l’asfalto, da uno dei tombini della rete idrica dismessa. Mi prese un brivido di paura, nuda e impotente: quelli erano dei veri fuggitivi, venuti fuori dalle viscere della terra, scappavano, ce l’avevano fatta, erano al di là del muro, solo pochi metri, ma già al di là. E adesso? Uno di loro si voltò, mi guardò fisso, occhi immensi così non li avevo mai visti, poi mi diede le spalle e prese a correre.
Noi avevamo l’ordine di sparare immediatamente, ma io restai impietrito, il fucile sull’omero, la mano che ne torturava la cinghia. Il mio collega urlò invece, secondo il regolamento, ‘altolà’. I due si voltarono ancora, ma risero, sicuri di avercela fatta, di essere ormai abbastanza lontani. Joachim sparò. Non voleva colpirli, ne sono sicuro. Avrebbe forse dovuto sparare in aria o in una direzione sbagliata. Ma lo avrebbero messo sotto inchiesta. Anch’io avrei dovuto sparare. E se non finii agli arresti fu solo perché il proiettile di Joachim prese la direzione giusta, perfetta, ne colpì uno alla schiena e nella direzione del cuore. Difficile colpire così precisamente un bersaglio in movimento. Joachim non ci era mai riuscito durante le esercitazioni. Quella notte invece il suo colpo fu preciso, micidiale, senza perdono. Il ragazzo rimase a terra, fulminato. Morì sul colpo. Uscimmo dal muro per riprenderne il corpo. L’altro intanto sparì nel buio.
Il cadavere aveva gli occhi increduli ancora aperti. Un ragazzo di vent’anni, della nostra età. Joachim piangeva. Aveva sparato per un riflesso e non aveva sbagliato. Piangeva, non diceva niente. Nemmeno quando ricevette un encomio dal comandante disse una parola, non ringraziò. Prese la medaglia con il simbolo falce e compasso della Repubblica, sull’attenti, muto. Lasciò la milizia subito dopo. Non so dove sia andato, non l’ho mai cercato. Mi era rimasto l’amaro in bocca di non aver sparato. Ma giustizia era stata fatta, e i superiori non mi misero sotto inchiesta.
Questo era accaduto qualche mese prima del quattro novembre 1989, quando sui tetti, stavo con la canna del fucile puntata su tutta quella gente felice. Sudavo freddo. Avrei voluto togliere l’uniforme, scendere giù. Si, sarebbe stato più facile, per loro era più facile, erano migliaia e migliaia ancora, si facevano scudo tra loro, si muovevano come api quando cercano i fiori. Noi eravamo soli, schiacciati sui tetti, col fucile in mano, senza sapere dove rivolgere la canna. Non parlavamo più tra noi, non ci guardavamo neppure, restammo soli con i nostri pensieri e le nostre angosce. Chi erano quelli sul viale? Nemici? Un esercito invasore? Stranieri? ‘Qui c’è il popolo’, si leggeva sui cartelloni. ‘Siamo il popolo’ – urlavano.
Sono dei nostri, allora, pensavo, anch’io appartengo al popolo, sono un soldato, perché ho ricevuto l’ordine di stare qui, sui tetti, pronto a sparare, schiacciato sulle tegole scivolose come un ladro, infreddolito come un gatto che cerca da mangiare, perché devo stare qui mentre gli altri, gli amici, i compagni, sono lì sotto a manifestare? Anch’io sono il popolo, anch’io faccio parte del nostro popolo, avrei voluto gridare. Invece in silenzio guardavo, in attesa di ordini. Intanto si avvicinavano sempre più alla porta di Brandeburgo. E adesso? Speravamo che non oltrepassassero il limite stabilito, il confine del nostro Stato. I primi alla testa del corteo si fermarono. Ma dietro di loro la gente premeva.
I capofila si guardavano dubbiosi, quelli del servizio d’ordine con le fasce al braccio chiedevano di rallentare. Neanche loro sapevano bene cosa fare. Si aspettava un grido: sarebbe bastato che qualcuno urlasse: ‘al muro, adesso’. Sarebbe stata la fine. Avremmo dovuto, avremmo dovuto per forza, sparare. Per la maggior parte di noi, sarebbe stata la prima volta.
Invece scese il silenzio. Pure chi cantava si zittì.
La ricetrasmittente gracchiò allora: ‘tenetevi pronti’. Ci schiacciammo sulle tegole. Sulle torrette di guardia, i nostri si misero in posizione per sparare. Il silenzio si diffondeva come un’epidemia tra la gente stipata e dubbiosa. Chiesi al mio collega il binocolo: se dovevo sparare, volevo sapere a chi. Non sopportavo l’idea di sparare alla cieca contro ‘il popolo’, contro il mio popolo. ‘Noi siamo un popolo’, cominciai a balbettare, la frase mi martellava il cervello, un popolo solo. Guardai nel binocolo, osservai volti giovani e incoscienti, capelli bianchi, occhi eccitati, coppie che si tenevano strette, e poi, infine, lo vidi.
Stava in seconda fila, con la fusciacca rossa, un cartello con un gatto che si infilava in un tunnel e ne usciva fuori e sul tunnel c’era scritto ‘svolta’. Ci aveva sempre divertito con i suoi disegni. Ed ora era lì, tra i primi. Tra i primi che sarebbero stati colpiti, dall’alto o dai nostri sulle torri di guardia, se il corteo avesse sfondato. Stava lì, aveva addosso il suo vecchio cappotto che era stato prima mio, con la barba rada e i capelli lunghi, che tante volte gli avevo consigliato di tagliare, perché erano un segno dei servi del capitalismo. Di sicuro nelle tasche aveva pane nero e formaggio. Restava lì, immobile, gli occhi chiari verso la porta, in attesa di un segnale. A portata del mirino del mio fucile. Stava in attesa che gli sparassero, proprio come io stavo in attesa di sparare. Ad un segnale lui sarebbe andato avanti, oltre la linea proibita. E io avrei dovuto far partire il colpo.
Lo avevo incontrato la notte innanzi. Mi aveva teso la tazza di caffè con un sorriso ironico –svegliataccia, vero?, chiese. Era ancora buio. Pensavo stesse tornando, invece stava per uscire anche lui. Andavamo, senza saperlo, nello stesso posto.
E mentre io infilavo gli stivali neri pesanti, indossavo il giubbotto anti proiettile, legavo stretta la fondina e mettevo la sicura alla pistola, mentre prendevo il casco e il manganello, mentre salivo sulla camionetta, e al primo diffondersi della luce venivo scaricato sul viale sotto i tigli, e salivo le scale di un palazzo e mi appostavo sui tetti, lui preparava il suo pane nero e formaggio, indossava i jeans e il maglione rosso a collo alto, prendeva due libri con sé per i momenti di attesa e il tragitto in tram, poi scendeva nella metropolitana e si incontrava con altri, gli davano da portare un foulard arancione e un pennarello per disegnare, ridevano tra loro, si sentivano presi da una strana energia, la sensazione che si ha quando il dado è tratto, non si può più tornare indietro, qualcosa sta cambiando per sempre, poi era uscito dal metrò su Alexanderplatz, novembre freddo ma a lui sembrava primavera, aveva cominciato a battere le mani e a ballare, la festa aveva avuto inizio, mentre io nervoso guardavo verso la piazza per sapere cosa accadeva, se si muovevano e che in direzione andavano, e la trasmittente gracchiava notizie e sempre lo stesso ordine: al primo segno, sparare. Al primo tentativo di sfondamento, sparare. Non devono avvicinarsi al muro. Non devono passare il confine.
Io stavo lì, soldato tra i soldati, a difendere il mio Stato, a rappresentare il mio popolo; e lui era lì, per la strada, tra i primi, con uno striscione in mano, gli occhi azzurri persi verso l’orizzonte sbarrato dal muro, a chiedere libertà per il suo popolo, lo stesso popolo. Lui era mio fratello.
Non serve chiedersi cosa avrei fatto. Non serve guardare indietro, l’ho imparato con gli anni, ricordare è solo rimpiangere. Se me lo avessero ordinato, avrei sparato. Anche su di lui? Sì, anche su di lui, che stava tra i primi, stringeva i pugni con la decisione e la fermezza che conoscevo, con cui mi vinceva sempre quando giocavamo a braccio di ferro? Avrei sparato. Un ordine è un ordine, non avrei potuto fare altrimenti. Non sfondarono. Sembra – si è saputo dopo – che avessero cominciato i loro discorsi gli intellettuali, su Alexanderplatz. C’era grande attesa per le parole della nostra scrittrice più famosa. La folla corse ad ascoltarla. O forse cambiarono idea, ebbero paura. Comunque non sfondarono, si voltarono indietro e ripresero a passeggiare, a cantare, ad agitare i loro disegni, ad alzare gli striscioni, a gridare ‘libertà’.
Lo persi tra tutta la gente che scemava. Oppure mi si offuscarono gli occhi per le lacrime.
(Da una storia vera. Foto del 4 novembre 1989, reperite in rete)