«Come persona queer e femminista mi sono spesso sentita in conflitto con me stessa per essere da sempre attratta dalle antiche leggende occidentali, i miti greci.
Perché non ci liberiamo da queste immagini e storie patriarcali, che continuano ad essere così influenti? Perché non siamo capaci di creare qualcosa di nuovo, che esca dalla cornice di quelle storie? E tuttavia sono sempre tornata a quelle stesse storie, a quel passato mitico. La mia intenzione, nell’occuparmi di quelle leggende, non è dare una soluzione alle questioni profonde che pongono. Né mi interessa correggerle, oppure renderle più comprensibili oggi. Questi testi invece, grazie ad un punto di vista femminista, diventano ancora più impressionanti e ancora più inquietanti. Con questo cambio di prospettiva, vengono a galla tutti i toni brutali contenuti in quelle leggende. Perciò torno a quei testi antichi con sempre nuove domande. Perché se andiamo alle radici di queste leggende e se estirpiamo le loro radici, forse potremmo liberarci dal loro messaggio. Perché ciò che ci comunicano è sbagliato.
La tragedia greca ci insegna che il nostro destino è già stabilito nell’utero materno e che la violenza genera solo nuova violenza. Ma cosa sarebbe accaduto se le donne troiane non fossero salite a bordo delle navi dei loro signori greci? Se fossero rimaste per millenni sulla costa? Cosa sarebbe accaduto, se le donne avessero potuto immaginarsi un vero futuro? Certo non sarebbe stato un paradiso, ma almeno sarebbe stato un futuro, un’alternativa. Nel V sec. a. C. Euripide descrive la fine di una civiltà attraverso il corpo e la psiche delle donne. Perché lo fa? La risposta più plausibile sembra essere: nei corpi di queste donne ci sono storie che non sono ancora state raccontate, storie future. Le donne aspettano, viaggiano attraverso il tempo. Guardano indietro e in avanti. Rivivono nuovamente gli incubi, evocano fantasie e profezie. Nella loro mente, distruggono gli imperi e i nemici, bruciano tutto. Cosa resta loro da fare, se non cominciare tutto daccapo?»
Così la regista australiana Adena Jacobs scriveva dal lockdown, mentre preparava la messa in scena delle Troiane, la tragedia scelta per il suo debutto europeo al Burgtheater di Vienna. Solo perché ritardata dalla pandemia, dunque, la prima della tragedia ha avuto luogo nell’attuale scenario di guerra, e come altre revisioni delle Troiane euripidee, ha acquisito toni d’attualità davvero inquietanti.
La pièce inizia quando l’ultima battaglia è stata combattuta, ma la guerra non è ancora finita. Troia è caduta, colonne fumanti si ergono sulle rovine e i Greci vittoriosi preparano la loro partenza. Le donne troiane sopravvissute si riuniscono davanti alla città, su un confine che è anche metaforico: alle loro spalle c’è la vecchia vita, davanti a loro il futuro, un’esistenza di umiliazione e schiavitù. La perdita peggiore che fosse possibile immaginare e la più rovinosa delle cadute formano insieme lo scenario di questa tragedia, che si apre in un’atmosfera di incertezza e dubbio. Ecuba piange tutto ciò che ha perso, il marito Priamo trucidato, i figli caduti in guerra, ma non sa cosa la aspetta. Con lei la figlia Cassandra, la sventurata profetessa destinata a non essere creduta e Andromaca, la moglie di Ettore, che porta con sé il figlio neonato, l’ultimo maschio della stirpe troiana. C’è anche Elena, la colpevole della guerra, che attende di essere processata.
‘Troia…non più…regina…’, balbetta Ecuba. Le parole sono singhiozzi. Ha perso venti figli in guerra, ha perso la sua città, ora in macerie. Come le altre Troiane, deve affrontare adesso un destino inflessibile: i vincitori si divideranno le donne, le porteranno con loro come schiave. Adena Jacobs le lascia entrare in scena nude, con i capelli rasati. Per i vincitori, quelle donne sono solo delle potenziali macchine riproduttrici, che possono dar vita a una nuova generazione di re e capi, di militari.
Queste donne, vittime di guerra, sono ridotte a nuda vita, ai loro corpi nudi, contenitori di ricordi, campo di dolori ma anche di rabbia violenta; e loro urlano, si lamentano, sono fisicamente in bilico tra la morte e la vita, cercano disperatamente un sostegno, resistono, vorrebbero cavare gli occhi ai loro torturatori. ‘Non vi è differenza tra l’ira e il lutto’, dice Ovidio di Ecuba.
Adena Jacobs mette in scena proprio questa spettrale ‘terra di mezzo’ in cui si trovano le donne prima di essere deportate, quasi come nei sotterranei dell’acciaieria Azovstal, o nei cortili dei palazzi bombardati di Mariupol. Il corpo stesso di queste donne è il campo di battaglia, è sul loro corpo che si esperiscono tutti gli orrori, ma il loro corpo diviene anche arma.
Va in scena la logica sempiterna della guerra, come spettri ritornano gli archetipi delle vittime e dei carnefici. Le donne sono coloro che soffrono di più la guerra, e così le terre e i popoli che si trovano coinvolti nella guerra: il pensiero dello spettatore corre all’Ucraina, senza che in scena compaia alcuna allusione a quella guerra così vicina.
La messa in scena di Adena Jacobs si focalizza sulle donne e solo sulle donne. Non vi sono ruoli maschili: accanto alla tragedia di Euripide, sono montati testi da Ovidio e Seneca e in gran parte dalla drammaturga Jane Montgomery Griffith (tradotti in tedesco da Gerhild Steinbuch), in uno psicodramma frammentario, un labirinto emotivo, in cui si succedono impotenza, rabbia, dolore, lutto, ribellione, disperazione.
Ecuba (Sylvie Rocher), che ha perso tutto, si riprende per prima dallo choc della sconfitta, ed esplode allora in un vero e proprio delirio di parole, sconnesso e tremendo, che non risparmia nemmeno se stessa. E così si autoaccusa di aver generato Paride, colui che ha causato la guerra: ‘un cane rabbioso mi succhiò il seno, da me venne fuori un groviglio di serpenti, che strisciano sul mio ventre… lui fu il fuoco, lui la fiaccola, e io generai la fiaccola’. Andromaca (Sabine Haupt) sta davanti ad un’incubatrice dove c’è il figlio appena nato e parla del destino delle donne: ‘per noi, c’è sempre qualcosa di cui aver paura’, ‘dicono che ci si abitua a tutto’, poi, in un macabro e lucido cerimoniale, fa a pezzi il proprio bambino. Bisogna temere la rabbia delle donne, come baccanti sono ‘pronte a strozzare i loro neonati con le loro stesse viscere’, se necessario.
Cassandra (Lilith Häßle) racconta la violenza subita: “No, dissi, dissi no, ‘per favore’, dissi, e lui mi sputò nella bocca...”. Elena (Patrycia Ziolkowska), l’unica che entra in scena vestita in uno scintillante abito rosso, che poi però si toglie per restare nuda come le altre, cerca di giustificarsi: ‘se si tengono gli occhi bene aperti, ci sono mille Elena…’.
Il coro è composto da donne dal diverso colore della pelle e da bambini. Si tratta di un collettivo rappresentato in balia degli eventi, quasi un corpo unico (tutti i componenti sono vestiti da una tuta color carne), che non parla, talora emette gemiti e sibili, si muove per terra componendo delle figure che sono inquadrate da una cinepresa dall’alto e proiettate sul fondo buio della scena, diventano fantasmagorie impaurenti, immagini da sogni agitati, incubi.
La tragedia ha una impressionante dimensione onirica, grazie anche ai suoni elettronici, al gioco di luci, allo sdoppiamento dell’immagine dai corpi delle attrici, che perciò in alcuni momenti sembrano spiccare il volo e liberarsi, almeno nella fantasia, dal dolore incombente e sempre pronto a ritornare e a superare sé stesso in intensità e follia.
Le immagini, tranne la penultima, sono tratte dal sito del Burgtheater e dal sito nachtkritik.de © Susanne Hassler-Smith
La penultima foto riproduce l'ospedale da campo dell'acciaieria Azovstal in Ucraina: https://www.lastampa.it/esteri/2022/04/28/video/condizioni_estreme_nellacciaieria_azovstal_di_mariupol_colpito_dalle_bombe_russe_lospedale_da_campo-3154321/
Die Troerinnen
nach Euripides
mit Texten von Euripides, Ovid, Seneca und Jane M. Griffiths. Deutsch von Gerhild Steinbuch
Regie: Adena Jacobs, Bühne & Kostüme: Eugyeene Teh, Komposition: Max Lyandvert, Choreographie: Melanie Lane, Videodesign: Tobias Jonas , Eugyeene Teh, Licht: Michael Hofer, Dramaturgie: Alexander Kerlin, Dramaturgiemitarbeit: Aaron Orzech
Mit: Sylvie Rohrer, Patrycia Ziolkowska, Sabine Haupt, Lilith Häßle, Safira Robens.
Premiere am 23. April 2022
https://www.burgtheater.at/produktionen/die-troerinnen