Abbiamo visto Tutto brucia dei Motus al Teatro Bellini di Napoli il 20 gennaio 2022, mentre in Europa si stavano allestendo preparativi di guerra: le truppe russe assediavano l’Ucraina, quelle francesi si posizionavano in Romania e le altre pedine armate cominciavano a muoversi sullo scacchiere internazionale.
Quei movimenti occulti o espliciti nei notiziari italiani venivano menzionati appena, coperti dal frastuono per le farsesche elezioni presidenziali e dalla recrudescenza pandemica, che miracolosamente ora sta scemando, destinata a diventare brusio di sottofondo per una società dove le disuguaglianze sono divenute abissi incolmabili.
Il nostro tempo pare un alternarsi a ritmo vertiginoso di euforia incosciente, come negli inni di vittoria sul virus che stridono con numeri minacciosi, e di pianto luttuoso sulla catastrofe irrimediabile, che sia la crisi climatica o una guerra mondiale imminente. Tempi come i nostri sono quelli in cui in teatro la tragedia nella sua oscurità non riesce ad essere più oscura del presente in cui viene rappresentata. Allora può diventare addirittura farsa, oppure un delirio irrazionale, dionisiaco, un riso smodato e folle sulla fine del mondo.
Serve davvero, in un contesto del genere, il recupero della tragedia greca? Non si rischia l’esercizio accademico e non si rischia, soprattutto, di rendere il fatto tragico un oggetto estetico e dunque di allontanarlo da noi?
Non abbiamo una risposta a queste domande, e forse non c’è una risposta, perché la riproposizione (riadattamento, rifacimento, riscrittura ecc.) delle tragedie greche in ambito performativo è un fenomeno complesso e inattuale, nel senso che irrompe nel nostro presente e ne spezza il tempo. La tragedia greca equivale a una sorta di black out, di oscuramento, di pausa, un corto circuito che ci sospende in una dimensione temporale non definibile perché non è l’oggi ma non è nemmeno un’epoca precisa. La tragedia greca ci respinge nella profondità del mito, così come vi respingeva gli spettatori del V sec. a.C.: una profondità da cui dovremmo venire fuori avendo riflettuto su questioni che ci riguardano da vicino. Perciò la tragedia greca è l'inizio di ogni progetto performativo che deve misurarsi filosoficamente con il presente, come i progetti dei Motus, famosi anche per un lavoro di scavo sul mito di Antigone, e che con Tutto brucia rileggono le Troiane di Euripide, ma filtrate attraverso secoli di ricezione.
Tutto avviene in uno spazio teatrale buio, in cui si intravedono rovine consumate dalle fiamme e piove cenere su ogni cosa; da questo mare di fango emergono i corpi, in un nitore che ne sottolinea la fragilità, corpi illuminati per il tempo breve che basti a gridare il loro inestinguibile dolore e che poi annegano nuovamente nell’impenetrabilità; e dal buio si alza anche la voce in cui si raccoglie il lamento di secoli. Buio, colore, voce sono magneti per le emozioni dello spettatore. Tutto brucia, sì, ma come in un dipinto a tinte forti. La performance non suscita pietà e paura ma fa pensare e chiede impegno interpretativo, perché sovrappone simboli a simboli, gesti rituali a staticità caravaggesche, parole opache e sussurrate a grida altissime.
«Tra le rovine di uno spazio vuoto e stravolto, coperto da cenere e cadaveri di mostri marini, dove tutto è già accaduto, emerge la questione della vulnerabilità radicale. Il corpo rotto di Ecuba, la parola profetica di Cassandra, che vede oltre la fine, il grido spettrale di Polissena, l’invocazione ai morti di Andromaca, le violenze subite da Elena e infine il corpo più fragile e inerme, quello del bambino, Astianatte – danno voce ai soggetti più esposti e vulnerabili. E agli spettri che le/ci assediano.Mai come adesso il lutto ci appare come una questione politica» - così i Motus sulla loro pagina web. Politica, cioè, nel senso originario: che riguarda la polis, dando per scontato che la nostra polis è il mondo intero.
I corpi che s’indovinano nel buio distopico della scena sono simboli delle donne umiliate, ferite e uccise anche nei pacifici contesti quotidiani; contengono l’immagine dei cadaveri in mare o sui territori di confine, corpi la cui fuga è stata spezzata. La catastrofe che tutto metaforicamente brucia è una guerra metaforica, la pandemia con i suoi morti incompianti o sepolti in solitudine; le figure femminili del mito sono maschere per le donne afgane dopo la ritirata americana,con il conseguente abbandono delle sue donne e la vergogna di un altro scenario di guerra perenne troppo presto dimenticato dall’egoismo occidentale. Non è un caso che le Troiane siano state tra le prime tragedie riproposte dopo il lockdown anche da Elisabetta Pozzi (che abbiamo recensito qui). E che Cassandra, figura altrimenti non molto presente sulle scene, sia tornata ad annunciarci la fine del mondo nel monologo serrato di Ruggiero Cappuccio interpretato da Sonia Bergamasco (Resurrexit Cassandra).
E nel frattempo ancora una guerra pare avvicinarsi, la guerra totale e definitiva, senza possibili vincitori, le cui vittime restano ignare dei ‘veri motivi’ che l’hanno scatenata, come nelle Troiane di Euripide. La guerra degli eserciti e delle armi, che negli ultimi quindici giorni sembra imminente, tra le spacconerie delle diplomazie e i richiami in patria di connazionali che non hanno alcuna intenzione di tornare. La sensazione è che la storia umana torni a ripetersi. Così scriveva nel 1914 il poeta ebreo Franz Werfel (1890-1945) nella prefazione alla sua rielaborazione alle Troiane. Vi è qualcosa di inquietante nel revival delle Troiane di Euripide sulle scene contemporanee con il revival della stessa tragedia nel primo decennio del Novecento,quando l’Europa ballava, come adesso, sull’orlo del vulcano.
La tragedia di Euripide sembra a Werfel mettere in scena la passione, in senso medievale, di una madre, Ecuba, che privata della famiglia e dell’onore dalla guerra, subisce un martirio in successive stazioni, prima di essere definitivamente imbarcata verso la Grecia come schiava dei vincitori. La stazione più dolorosa consiste nel dover seppellire il nipote Astianatte, figlio di Ettore, strappato alle braccia della madre e scagliato giù dall’alto di una torre perché con lui morisse tutta la stirpe nemica ai Greci e per sempre perisse il nome glorioso del padre. Werfel scrive appunto nella prefazione al suo adattamento: «L’occasione per tradurre questa tragedia è data dalla sensazione che la storia umana, nel suo ripetersi, si trovi di nuovo in una situazione analoga a quella che provocò la sua nascita»[1]. Quale situazione analoga?
La tragedia euripidea era andata in scena nel 415 a.C., immediatamente prima che Atene si imbarcasse nell’impresa che ne avrebbe decretato la fine: la spedizione contro Siracusa. La tragedia di Werfel fu concepita prima che due colpi di pistola a Sarajevo cambiassero il corso del mondo e causassero milioni di morti. Preveggenza? Senso politico? Come sia, la guerra si insinua nella scrittura di Werfel, nella riscrittura della tragedia antica, prende voce e corpo nella figura della madre di tutte le madri, Ecuba, che ha generato figli per perderli nel vortice di una guerra nata dalla follia del caso. Mancava alla civiltà greca, secondo Werfel, la speranza nella redenzione, la fede nella salvezza eterna, mancava, insomma, Dio. In quella civiltà, che non conosce la provvidenza divina e sfugge ad ogni riflessione e speranza teleologica, gli dei si distinguono dagli uomini solo perché immaginati «giganti», con gli stessi difetti umani ma amplificati, immensi. Una potenza superiore, la si chiami «dio o destino», «fa girare spietatamente e crudelmente le stelle», senza alcuno scopo.
Eppure anche nella consapevolezza di questa distanza etica e teologica, la tragedia di Euripide – pensa Werfel - ha qualcosa da dire al presente. Euripide scaglia nella «terra desolata» una «meteora incandescente». In un mondo soggiogato dal caso, in cui la ragione impotente contempla il «brutale dramma degli elementi», nella più completa confusione, nel più inestricabile disorientamento, il dramma di Euripide rivela infatti all’uomo il senso del suo essere al mondo «e questo senso si chiama: virtù!». Il «tragico» greco, intende Werfel, rappresenta un’operazione conoscitiva: il conoscere cioè che l’uomo sconta una colpa ereditaria, genesi ineffabile di dolore: ma a questo dolore necessario l’uomo deve resistere con incrollabile caparbietà e sopportazione. Il dolore perciò diventa sostanza dell’esistenza, il cui indissolubile nodo tragico consiste nell’accettazione del dolore o nell’elaborazione di pratiche di resistenza.
La prefazione di Franz Werfel alla sua traduzione rielaborata delle Troiane di Euripide è datata Praga, marzo 1914. Qualche mese dopo, il primo agosto del 1914, il re di Prussia firmava l’ordine di mobilitazione generale, perché l’esercito e la Marina imperiale fossero predisposti alla guerra. In un altro documento emanato lo stesso giorno si specificava: «In veste di volontari di guerra potranno arruolarsi... anche coloro che non abbiano alcun obbligo di legge di prestare servizio, e anche i giovani tra i 17 e i 20 anni...». Tra quei volontari, lo stesso Werfel e tutti i suoi amici artisti e letterati ‘espressionisti’.
Nei primi di agosto del 1914 cominciano ‘gli ultimi giorni dell’umanità’: «la data della disdetta, quando l’umanità dovette sloggiare dall’onore. L’umanità avrebbe dovuto impugnarla, questa data, davanti al tribunale del mondo» (Karl Kraus)[2]. Le folle tedesche scoprirono una solidarietà contro il resto del mondo che si tramutò in fanatismo, entusiasmo per la guerra purificatrice: i ragazzi si arruolavano volontari con la richiesta di partire subito per il fronte, partivano seguiti da folle festanti che spargevano rose. Ugualmente, ai tempi di Euripide, una folla ebbra e innamorata della guerra aveva accompagnato trionfalmente i soldati che salpavano per la Sicilia. Franz Werfel aveva visto giusto, l’umanità si trovava, come in un circolo vizioso, in una situazione analoga. Il fantasma di Ecuba tornava ad aggirarsi per il mondo.
E adesso?
TUTTO BRUCIA
ideazione e regia Daniela Nicolò e Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F. (Francesca Morello) alle canzoni e musiche live
testi delle lyrics Ilenia Caleo e R.Y.F. (Francesca Morello)
ricerca drammaturgica Ilenia Caleo
cura dei testi e sottotitoli Daniela Nicolò
traduzioni Marta Lovato
direzione tecnica e luci Simona Gallo
assistente direzione tecnica e luci Theo Longuemare
ambienti sonori Demetrio Cecchitelli
design del suono live Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
assistenza tecnica Francesco Zanuccoli
props e sculture sceniche _vvxxii
video e grafica Vladimir Bertozzi
produzione Elisa Bartolucci con Francesca Raimondi
organizzazione e logistica Shaila Chenet
promozione e comunicazione Marta Lovato con Francesca Lombardi
ufficio stampa comunicattive.it
distribuzione internazionale Lisa Gilardino
Sulle Troiane di Franz Werfel vedi il mio contributo Ecuba 1914, in: A. Camerotto- F. M. Pontani ( a cura di), Nuda Veritas. Da Omero ad Orson Wells. vol. 5, 2016, pp. 237-250 e Ester Cerbo, Un mito antibellicista a teatro. Le Troiane di Euripide e la Bearbeitung di Franz Werfel, in Miti antichi e moderni, a cura di D. Gavrilovich, C. Occhipinti, D. Orecchia, P. Parenti, Roma 2013, pp. 57-70
Le foto @ Vladimir Bertozzi @Claudia Pajewski sono tratte da https://www.motusonline.com/tutto-brucia/
[1] Si traduce da Franz Werfel, Die Troerinnen des Euripides, Leipzig, Kurt Wolff Verlag, 1915, pp. 5-11. Nel 1959 Adolf D. Klarmann pubblica l’edizione integrale dei drammi in due volumi (F. Werfel, Die Dramen, I-II, Fischer, Frankfurt); Die Troerinnen sono contenute nel I volume (pp. 41-89 e pp. 538-548).
[2] Gli ultimi giorni dell’umanità, atto primo, scena XXIX, edizione italiana a cura di E. Braun e M. Carpitella, Milano 1996, p. 178.