STILL LIFE, andato in scena al Piccolo Teatro di Milano nella cornice del Festival internazionale di teatro ‘Presente indicativo. Per Giorgio Strehler’ (qui le foto del backstage), è un progetto artistico di Márta Gornicka presso il teatro Gorki di Berlino, dove è tutt’ora in programmazione.
A dispetto del titolo, la performance non ha nulla della natura morta: è uno spettacolo travolgente, pieno di ritmo, che sollecita emotivamente il pubblico. STILL LIFE è un’esplosione di vita grazie alla voce e alla gestualità di un coro, diretto dalla regista, che reagisce così alla logica di distruzione e di catastrofe che domina la storia umana. STILL LIFE recupera lo spirito della vita stessa dalle vetrine dei musei di storia naturale, dove gli esseri viventi sono stati immobilizzati e sono divenuti oggetti inerti da esposizione. Il coro di STILL LIFE propone la possibilità della rinascita, la speranza della resurrezione dalle macerie della storia, prospetta una rivoluzione totale, di tutte le maniere tradizionali di pensare e classificare l’esistente, di tutte le gerarchie e tutte le opposizioni, la reinvenzione della vita e del mondo. STILL LIFE, forse, è un’utopia, erede di tutte le utopie teatrali del XX secolo nate in nome di Dioniso, a partire almeno dalle Baccanti di Richard Schechner (1969).
STILL LIFE è dunque un progetto che richiama in vita il coro, ossia l’elemento fondante e caratteristico della tragedia greca, come possibilità di affermazione della vita e come strumento di resistenza e sopravvivenza in un mondo cronicamente malato e che sta morendo. L’affermazione della vita corale significa trovare forme di coesistenza pacifica e armonica, a dispetto dei conflitti epocali. Significa anche sovvertire le gerarchie imposte dal pensiero occidentale tra esseri viventi, sconvolgere la catalogazione per specie e generi, anche sessuali, per ipotizzare una comunità di uguali, dove non esiste lo straniero né il diverso. Dioniso, il dio dell’estasi e dello scardinamento di ogni ruolo sociale e politico, è la figura allegorica che ispira il progetto di questo teatro corale, a cui l’artista sta lavorando da oltre dieci anni. Lo spettacolo è accompagnato da un denso e significativo libretto, in cui Márta Gornicka, appena nominata Bertot-Brecht Visiting Professor all’Università di Lipsia, chiarisce i presupposti del suo progetto e della performance, di cui qui parafrasiamo e traduciamo qualche passaggio.
Il progetto nasce contemporaneamente allo scoppio della pandemia, quando il coro fu dichiarato dai virologi come una forma estremamente pericolosa dello stare insieme, una forma che doveva perciò essere assolutamente evitata. Non era più possibile respirare insieme, ed è proprio il respiro a tenere coesa una comunità corale. Il covid-19 avrebbe dovuto quindi decretare la fine di ogni coro, ma in verità è accaduto il contrario. Proprio la pandemia ha riproposto infatti con più urgenza il problema di come si possa costruire un mondo di relazioni lì dove queste relazioni non siano più possibili, ossia dove è proibito respirare la stessa aria. Il progetto STILL LIFE cerca di rispondere a questa domanda incorporando il digitale nel coro, che assume adesso una dimensione rituale e digitale contemporaneamente. Tuttavia questo coro, pur con le sue caratteristiche tecnologiche, digitali, post-umane, si richiama al dio greco in onore del quale erano performati cori, ossia Dioniso.
«Dioniso oggi- dichiara Górnicka – è la figura più importante del politico, che ci offre la possibilità di confrontarci con la situazione in cui ci troviamo e che forse può anche mostrarci una via d’uscita. Dioniso è ‘lo straniero’. Non ha origine dalla logica del nostro mondo, ma viene da fuori del sistema chiuso di accumulo, saccheggio e violenza nel quale noi siamo saldamente rinchiusi, al punto che non riusciamo a immaginare alternative. Dioniso ci indica la via per vincere quei meccanismi che ci separano dalla vita e che sono tesi alla riproduzione della morte. Dioniso è un dio non greco d’origine, che introdusse nella cultura greca l’incontenibile, indistruttibile forza vitale, celebrata in rituali estatici. Il ditirambo dionisiaco, performato da un coro, è un danza pulsante di tutte le forme della vita e la vita resta sempre, in questa danza, in collegamento con la morte. Lo stesso Dioniso muore e poi rinasce, e la sua capacità di portare morte e di far rinascere a nuova vita è infinita. Il ditirambo è un canto che collega esseri umani, animali, piante e terra, che fa scomparire tutte le contrapposizioni e le opposizioni e che annulla tutte le categorie. Dioniso oscilla tra diversi mondi e diverse dimensioni e il canto in suo onore trasforma la realtà.»
E proprio in questa dimensione trasformativa c’è per Górnicka il grande potenziale politico di Dioniso. «Dioniso è un bastardo che sfugge ad ogni categoria: si pone fuori da ogni divisione in sesso, specie, etnia, fuori da ciò che può definirsi umano oppure non-umano, organico e meccanico, fisico o digitale. Dioniso è polimorfo, multiforme, contemporaneamente digitale e rituale. Parla molte lingue, alcune volte con una voce animale, altre volte come un mostro dei videogame. Dioniso è una figura che fa arrestare tutte le macchinazioni ideologiche, un esempio che fa saltare in aria tutti gli esempi - una figura del nuovo ordine, della Re-Invented Society.
Dioniso, perciò, è collegato con la crisi attuale della nostra società e con l’esperienza della decadenza dell’ordine costituito. STILL LIFE evoca il multiforme Dioniso, il coro dei celebranti il dio, e ci parla con la voce dei filosofi contemporanei, con la voce di Achille Mbembe, Judith Butler, Donna Haraways, Roberto Esposito, Giorgio Agamben, che ci incitano a creare una nuova forma di comunità, che postulano una nuova politica di reciproca interdipendenza e cura. Il coro mescola manifesti filosofici con frasi pop di Björk o Britney Spears, voci di personaggi di videogame e di robot che nei centri commerciali ripetevano la stessa frase in tempi di pandemia: ‘Se stiamo attenti supereremo questa crisi’. In questa situazione il coro si chiede: quale vita è ancora vita? Chi è questo ‘noi’ che deve essere protetto? Chi è invece l’escluso dalla comunità? L’elemento estraneo? Chi sono i cittadini del mondo?
La figura di Dioniso – continua Górnika – mi apparve la prima volta quando ho visitato il Museo di storia naturale di Siena. Un edificio con molti piani, con un’infinita serie di teche di vetro, dietro le quali sono conservati animali che rappresentano tutte le specie del mondo. Una monumentale tomba di tutte le forme di vita. Il Dioniso che vidi allora scivolò fuori silenzioso da quell’esposizione bella e mostruosa insieme, navigò oltre la dimensione del tempo umano. Apparve ancora davanti alla storia umana, che può essere misurata in specie morenti e in genocidi, e la seguì. Ho costruito STILL LIFE attorno a questa figura.»
La figura di Dioniso si è poi trasferita al Museo di storia naturale di Berlino, che è un capolavoro di nature morte e che è stato al centro anche di una rivisitazione dell’Edipo Re durante la pandemia di cui abbiamo parlato nel fascicolo secondo della rivista Visioni del tragico.
«Questi musei, continua Górnicka, sono spesso testimonianza dei saccheggi operati dalle nazioni colonialiste, perché le collezioni esotiche nascono spesso dalle spedizioni coloniali». Sebbene queste istituzioni abbiano un’evidente importanza scientifica, questo non cambia «il dato di fatto che il museo funziona secondo la logica della nostra cultura, anzi che rappresenta la sua intensificazione simbolica. Proprio in questi luoghi si pone la domanda sul legame della cultura occidentale con ciò che vive, sui legami del capitalismo, dell’imperialismo e del patriarcato con l’irreversibile processo di distruzione della vita, di esseri viventi e di intere specie, che certo non si può arrestare con la digitalizzazione».
Il coro è un mezzo dell’arte politica e deve avere effetti immediatamente politici. Bisognava inventare un nuovo alfabeto corale. Per il ‘coro delle donne’, il primo coro di Górnicka, nato un decennio fa a Varsavia, l’artista elaborò una nuova forma di ‘libretto’, che consisteva nel montaggio di diversi discorsi, il filosofico, il letterario, il sacro, e in cui il registro stilistico andava da citazioni dotte al linguaggio della pubblicità, dagli slogan politici al gergo usato in internet sino a discorsi di odio diffusi dappertutto. Le citazioni linguistiche e musicali stridevano tra loro e svelavano anche i meccanismi del potere contenuti nella lingua.
«Allora ho sviluppato un metodo mio per lavorare con la voce. La ‘vocalità’: cioè quel che sta tra la lingua, la musicalità, e la materialità del corpo concreto e la sua individuale biografia. La vocalità è stata sin dall’inizio la caratteristica espressiva del coro, come lo sviluppo di una soggettività collettiva – l’unica vera eroina del coro.»
Il lavoro politico consiste allora nel far diventare una soggettività unitaria l'insieme di singoli individui, tra loro separati, un 'io collettivo' che sappia esprimere le proprie comune esigenze e manifestare i propri bisogni, che sappia affermare con forza le proprie rivendicazioni. Attraverso il coro, dal caos viene fuori un’azione politica comunitaria. Perciò la forma artistica del coro nasce in quei luoghi dove i conflitti (sociali, politici, etnici, religiosi, sessuali) sono più acuti.
Vi sono anche aberrazioni ideologiche del ‘coro’ in senso politico, quando questo viene a rappresentare l’idea di coesione che anima i nazionalismi odierni: la formazione del coro tende ad espellere tutto ciò che è sentito come un corpo estraneo, come diverso.
«La comunità, che sogna la purezza e l’unità di un ‘corpo omogeneo’ del popolo, è un oggetto specifico della mia ricerca – afferma Górnicka. Il coro come soggetto collettivo vuole mostrare l’orrore e la terribile bellezza di questa comunità. Nel loro sviluppo, il canto gioca sempre un ruolo particolare, perché nient’altro riesce a trasmettere un sentimento di unità come la sincronia di respiro, ritmo e voce di molti corpi insieme, che ne ricavano un’immensa energia e forza. Nei canti patriottici si trova il bisogno infantile, originario dell’appartenenza totale, della nostalgia, della fusione con un grande, onnipotente Tutto. Perciò il coro è adatto anche a decostruire questi meccanismi.»
In STILL LIFE si possono sentire anche le parole e le risposte di coloro che sono considerati ‘gli altri, coloro che sono superflui’. In questa pièce risuonano le parole delle vittime dell’attentato di Hanau, che ripetono esattamente le parole degli ebrei degli anni Trenta del Novecento. Sono proprio le stesse parole: ‘Siamo tutti figli di questa terra, siamo nati qui’. Comunità, che sono rafforzate attraverso confini e limitazioni, con cui si giustifica qualsiasi tipo di violenza: questo tema non può essere affrontato in Europa senza far riferimento all’esperienza dell’Olocausto.
«Nel mio lavoro corale il tema dell’Olocausto è stato presente sin dall’inizio, dato che ero consapevole del ruolo giocato dalla musica e dallo stesso coro durante l’Olocausto. L’orchestra del campo accompagnava le selezioni dei deportati ad Auschwitz, i prigionieri, che marciavano per andare al lavoro, dovevano cantare in coro, e le guardie delle SS, donne e uomini, si divertivano molto nel far cantare ad artisti che erano molto amati prima della guerra le hits più famose. I sopravvissuti ai campi di concentramento affermano di aver imparato a odiare la musica nel lager. L’Olocausto è un avvenimento storico, che ha cambiato tutta la cultura occidentale come un trauma i cui effetti perdurano e che influenza e deforma in maniera varia i processi del ricordo.
In STILL LIFE questo tema è molto presente. C’è un coro delle madri, che è sopravvissuto all’Olocausto che dice: ‘nessuno di noi sa come si può ricordare senza provare frustrazione e ira. Nessuno sa…’. Il tema dell’Olocausto acquisisce nella pièce una prospettiva ancora più ampia: include il ricordo di genocidi, della persecuzione sistematica di interi gruppi – sia nel passato che nel presente. Andiamo oltre la prospettiva europea, ci apriamo al discorso post-coloniale e post-umanistico. Con STILL LIFE proseguo il discorso contemporaneo sul ricordo e rifiuto ogni forma di ‘concorrenza’ tra vittime, di gerarchizzazione di morte e vita. Mi oppongo all’idea che il ricordo sia qualcosa di delimitato e che perciò debba essere incasellato in una precisa struttura gerarchica. Non esistono prospettive che si fanno concorrenza nel processo del ricordare, identità che sono superiori alle altre, storie che sono superiori alle altre. Ricordare è piuttosto un processo di sintesi, che interroga il legame che il mondo occidentale ha in generale con la vita.
La pandemia è per me la fine di un’epoca, e forse è anche solo la fine di un’illusione, perché la pandemia in sé non è la causa, ma il sintomo di una crisi. Non è possibile un ‘teatro corale’, se non possiamo parlare e respirare insieme. Non c’è nessuna vera comunità senza respiro vivente, non c’è alcuna umanità senza corpi che vivono e che sono in presenza nello stesso luogo. Non esiste alcun coro, senza il diritto universale a respirare. Ma questo diritto, come fece notare già nelle prime settimane della pandemia Achille Mbembe, a molti è stato negato già prima della pandemia. Vivevamo già in un mondo vicino al soffocamento, anche se in Occidente ci potevamo permettere di non pensarci.
La pandemia ci obbliga a prendere coscienza del fatto che viviamo nello stesso spazio, che respiriamo la stessa aria! La condizione in cui versa il mondo oggi non concederà più a lungo l’illusione di poter vivere isolati. L’illusione di poter costruire LÌ un muro, un campo, un luogo che ci faccia sentire al sicuro QUI, che tenga lontani da noi tutti questi inquietanti ‘altri’ a cui il tecnocapitalismo globale toglie l’aria per respirare.
Questo per me significa che noi dobbiamo ripensare nell’includere gli altri anche alle categorie della coesistenza e del fare insieme, dell’appartenenza e della divisione. Da qui il mio bisogno incoercibile di pensare il coro oggi come officina di una nuova società – come un luogo nel quale non solo noi creiamo performance o rappresentazioni della realtà, ma impariamo concrete capacità e tecniche che riguardano il respiro, la voce, il legame tra voce e respiro, tra corpi e voci, tra corpi e tecnologie, che sono diventati una parte della nostra esistenza ibrida. Il coro sviluppa – analogamente al coro antico – una precisa techne, una capacità pratica, che rende possibile lo stare insieme, rielaborare consapevolmente l’esperienza della comunità, comprenderla nel suo contesto storico e politico. Il coro deve perciò impegnarsi nel processo di guarigione della comunità post-pandemica.»
STILL LIFE
A CHORUS FOR ANIMALS, PEOPLE AND ALL OTHER LIVES
Regie, libretto: Marta Górnicka
Composition: Polina Lapkovskaya
Choreography: Anna Godowska
Stage: Robert Rumas
Costume: Sophia May
Sounddesign: Rafał Ryterski
Videoexpander Film: Stefan Korsinsky, Lilli Kuschel, Mikko Gasstel
3D video-animationen: Luis August Krawen, Alexander Pannier
Dramaturgie: Agata Adamiecka- Sitek, Clara Probst
Dolls: Atelier Judith Mahler
Translation: Andreas Volk
Production: Johanna von Regal
Cast: Sandra Bourdonnec, Lindy Larsson Forss, Hila Meckier, Gian Mellone, David JongSung Myung , Vidina Popov, Sesede Terziyan, Rika Weniger