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Aggiungiamo qualche considerazione a quanto qui ha già scritto Gherardo Ugolini (lo spettacolo sarà all’Elfo sino al 14 aprile).

Edipo Re. Una favola nera non è una messa in scena della tragedia di Sofocle, ma una rivisitazione, attraverso la composizione di vari testi, della ‘favola’ di Edipo, o meglio di quella parte della favola per cui un uomo, diventato Re per aver liberato una città, scopre di essere causa di contaminazione per la stessa città, perché resosi colpevole di delitti terribili. Ha ucciso suo padre, sposato sua madre e generato con lei quattro figli: una prole mostruosa. La sua inconsapevolezza mentre commetteva tali indicibili crimini non lo rende meno colpevole: non potendo essere assolto da alcun tribunale, umano o divino, Edipo si autocondanna all’accecamento e all’esilio.

Il pastore nell' Edipo Re di Bruni Frongia, 2022

Questa parte della ‘favola’, come scrivono i registi dello spettacolo nel libretto di scena, ha un immenso potenziale metaforico: la metafora sta non nei crimini che Edipo commette, ma nel voler a ogni costo sapere e conoscere la verità. Così Edipo diventa il suo stesso destino, che è ‘tragico’ in senso moderno, non antico. Un destino che scaturisce dalla scelta di scavare nel proprio passato, pur potendolo evitare. «Il destino di Edipo – ha scritto Christopher Menke –  consiste in nient’altro che nel riconoscere sé stesso e nel giudicarsi. O meglio: riconoscersi e giudicarsi significa, nell’esperienza tragica di Edipo, determinare da solo il proprio destino»[1].

Edipo Re di Bruni-Frongia 2022

Dramma dell’essere umano che per ansia di conoscenza determina il proprio destino e non tragedia del destino che sconfigge o annichilisce l’essere umano, l’Edipo Re di Sofocle nella tradizione occidentale è divenuta la tragedia greca per antonomasia e le sue riletture, interpretazioni filosofiche e drammaturgiche, correzioni, riscritture sopravanzano quelle di qualsiasi altra tragedia greca superstite (seconda solo l’Antigone).[2]

In questo spettacolo, però, non si fa confusione tra mito e tragedia, perché qui si mette in scena la ‘favola’, non il testo di Sofocle, né un altro dramma che a Sofocle si ispiri. E perciò il sottotitolo, Una favola nera, diventa essenziale.

‘Favola’, perché la storia di Edipo si colloca fuori dal tempo storico, fuori da ogni realismo e fuori anche da ogni razionalismo. 

Ferdinando Bruni e Francesco Frongia condividono - sembra -  l’accezione del termine ‘favola’ usata da Bertolt Brecht per la messa in scena dell’Antigone. Ossia 'favola' come racconto che appartiene ad una fase arcaica della cultura umana. [3] Le favole greche non differiscono dalle altre favole, non sono più universali di altre o latrici di messaggi più complessi. Le favole greche, cioè, non sono modelli a cui ispirarsi, ma racconti primitivi, truci, dai quali bisogna prendere le distanze.  “Non si può più cercare di dimostrare che la cultura greca sia stata la misura ideale di tutto" – annota Brecht nel suo diario; così "l’intera Antigone appartiene ai siti barbarici dei crani di cavallo. (…)” (18 gennaio 1948). A queste parole si deve accostare il § 33 del Breviario di estetica teatrale: “[…] Vittime umane da ogni parte! Barbari divertimenti! I barbari, lo sappiamo, possiedono un’arte. Ma noi, facciamone un’altra.”

Antigone di Brecht, 1948

Nell' Antigone brechtiana del 1948, gli attori agivano su un palcoscenico nel quale comparivano dei crani di cavallo infilzati su dei pali (vedi immagine sopra). Che significa l’espressione 'siti dei crani di cavallo', in tedesco Pferderschädelstätte?  Essa rinvia direttamente ai passi evangelici tradotti in tedesco da Lutero in cui la parola ‘sito dei crani’ traduce il termine Golgota, ossia il luogo del sacrificio di Gesù.[4] Antigone, Edipo e gli altri personaggi tragici greci appartengono, in questa visione del mito, ad una civiltà pre-politica, dilaniata dalla lotta tra clan contrapposti, in cui vigeva il sacrificio umano e la giustizia del più forte; una società basata senza tribunali e basata sulla vendetta. Una cultura superstiziosa, dalla religione soverchiante, il cui il volere della divinità annullava la libertà umana e non  vi era alcuna promessa di redenzione che ricompensasse la sofferenza, come nell'etica del sacrificio cristiano. Favole nere, quelle greche, in cui «non la morte, ma la vita appare oscena, la catastrofe non è criticabile» (ancora Brecht nel citato § 33).

Ma a che serve allora mettere in scena oggi quei miti, quelle favole crudeli, oscure, letali? La risposta data da Brecht penso valga ancora, almeno in parte, e vale per questa edizione 2022 di Edipo, che casualmente viene portata in scena mentre il buio avvolge profondamente e nuovamente la storia europea.

Scrive Brecht (3 marzo 1948): «a proposito della domanda: perché opere d’arte che sono nate in strutture sociali passate continuano ad avere influenza su di noi? La società senza classi avrà probabilmente ‘conservato’ le fondamentali strutture storiche (...) (così il feto umano attraversa e conserva fasi precedenti. Interessante, come la guerra civile moderna quasi ‘riporti indietro’ le armate degli schiavi!). Gli effetti principali sembrano conservarsi lì dove si sono verificate svolte fondamentali, decisioni, rivoluzioni, catastrofi».

Medea di Pier Paolo Pasolini

Lontano dunque da idealizzazioni, il mondo barbarico del mito, grondante sangue dei sacrifici umani, continua a rivelare strutture permanenti nella società più evolute, nei conflitti di classe, nei rapporti degli uomini tra loro e delle società tra loro. Rappresentare il mito, nella sua lontananza e nella sua alterità, interrompendo il presente, serve e servirà sempre da materiale di riflessione sui meccanismi ‘barbarici’ latenti anche in società tecnologizzate. 

In questa interpretazione fortemente e forse anche un po' rozzamente storicistica, il mito non ha un significato morale né valore didattico o esemplare. Il mito non insegna, e tuttavia metterlo in scena significa indurre a pensare. Perciò la rappresentazione teatrale deve ‘mettere in luce’, nel vero senso del termine, la favola, perché chi la guarda la comprenda con chiarezza: e lì dove può essere oscura, allora interviene il racconto epico, che si inserisce nell’azione e porge agli spettatori la favola in tutti i dettagli. Così tragedia ed epica si compenetrano tra loro.

Valentino Mannias in Edipo Re di Bruni-Frongia, 2022

Anche nello spettacolo di Bruni-Frongia, un coro di tre maschere racconta agli spettatori il mito sin dall’inizio, perché possano seguire tutta la vicenda della famiglia di Edipo, prima ancora che nascesse, e la sua vita prima di diventare Re. Un coro ridotto, rispetto a quello della tragedia greca, che nella sua imparzialità sembra alludere al ruolo delle Parche. 

Anche quella di Edipo è una storia barbarica, che parla di mostri come la Sfinge e di prove mortali, di monarchie assolute e di un’epidemia distruttiva, di oracoli oscuri e profezie tremende. Istituire legami tra quel mondo nero con il presente, individuale e collettivo, è un compito demandato allo spettatore. Nella messa in scena all' Elfo Puccini di questi giorni, un legame involontario tra quella favola di un passato senza pietà e il presente è data subito dal ‘prologo’ occasionale, una voce fuori campo che ricorda la guerra Ucraina dopo il suono di una sirena d’allarme aereo: una cornice sinistra per una favola nera, che si conclude con enormi lacrime di sangue che rigano lo sfondo della scena.  

Non si tratta dunque di «giurare sullo spirito dell’antichità», per usare ancora le parole di Brecht nel programma di sala della sua Antigone 1948, «qui non possono essere serviti interessi filologici. Anche se ci si sentisse in dovere di fare qualcosa per un’opera come ‘Antigone’, potremmo farlo solo nel momento in cui possiamo fare qualcosa per noi».

E come ‘possiamo fare qualcosa per noi’? Non seppellendo il passato, non archiviando la favola e i suoi problemi, non considerando i ‘siti dei crani di cavallo’ come luoghi archeologici dimenticati. Il «passato lasciato al passato non diviene passato», dice l’Antigone di Brecht, si trasforma in qualcosa di tremendo.[5] Occorre dunque ricercare il passato, non rimuoverlo.

Così la necessità e anche l’inutilità di rimuovere il passato stanno al centro di questo Edipo (Re), in cui il passato, più che attraverso la parola, emerge con forza straordinaria nella scenografia e soprattutto nei costumi di Antonio Marras. Ed è proprio nella ‘lettura’ di questi costumi che si esige uno sforzo di comprensione ulteriore da parte del pubblico, oltre l’emozione di vederli in scena. A questo giova senz’altro la piccola mostra dal titolo Vestire il mito che si può visitare nel foyer dell’Elfo, e che meriterebbe uno studio a parte.

Maschere di Elena Rossi per l'Edipo Re di Bruni-Frongia

Coerente con tutta la poetica di Antonio Marras, i costumi di quest’Edipo si richiamano quasi tutti ad una cultura conservativa, con molti tratti arcaici, che è la cultura dell’artista, ossia la cultura sarda del cuore dell'isola, del nuorese. Il pastore che ha salvato la vita a Edipo appare in scena vestito come i Mamuthones, la maschera nera e la pelle animale, coperto di campanacci, tipico del carnevale di Mamoiada. Il rinvio, chiarissimo anche in altri costumi e nelle fotografie che hanno accompagnato la loro elaborazione, è a una cultura agraria pastorale legata a ritualità che accompagnano l’alternarsi delle stagioni: la semina, la tosatura, la raccolta della legna e delle fascine. Una cultura in cui si sopravvive con poco, in cui il ritmo della vita è in accordo con la natura e con la sua semplice complessità, che si rivela nelle sonorità cupe del canto a tenore e nel risveglio acuto delle launeddas. Una cultura popolata da presenze misteriose, come i ragni che portano la follia: terra propria di Edipo, perché terra di rimorso. 

Carnevale di Mamoiada. Mamuthones

Se davvero questo tipo di cultura e la celebrazione e la rinascita dello ‘spirito dell’anno’, sia all’origine della tragedia, non importa qui: ma importa che le nostre radici, di noi europei del Sud, allignano in quella cultura.  

Una cultura che in Sardegna, anche per la sua insularità, appare meno contaminata, spesso si conserva nelle tradizioni ininterrotte e nei riti di passaggio. Anche il paesaggio sardo, segnato dalla sua profonda solitudine, dalla malinconia sferzata da un vento ancestrale, appare spesso, lì dove non è macchiato da mostri edilizi, un repositorio emotivo di ere passate, già solo per gli innumerevoli crateri spenti e per i monumenti megalitici. La Sardegna è terra di memoria, una memoria non esclusiva del popolo sardo, ma profondamente comune al Mediterraneo e come il mare ‘nostro’ sconvolta nei secoli da incursioni, lutti, scorrerie.

Poligono di tiro di Teulada, Sardegna

Ed ecco dunque la maschera antigas del soldato-messaggero, forse con un ricordo del letale poligono militare di Teulada e della sua base militare (nella foto sopra).[6]

La complessa vestizione barocca del Re e della Regina, la mistica del potere assoluto che sempre si nutre di barbarie, pur nella raffinatezza esteriore del cerimoniale, ha quasi ovvi riferimenti nei cerimoniali delle corti assolutiste d’età moderna: ma ricorda anche la vestizione di Su componidori, il vincitore della Sartiglia di Oristano, maschera reale androgina e sacra, che non può toccare terra mentre viene bardato per la gara (foto sotto).

Vestizione di Su componidori, Oristano, SardegnaUna simbologia arcaica e spiritualmente sarda che si intreccia a suggestioni di altre epoche e culture, il cabaret berlinese anni 20, il coevo cinema muto con i protagonisti dagli occhi sbarrati, il neorealismo del cinema italiano anni Cinquanta. L’avanspettacolo di lustrini e paillettes si collega alla fotografia bianco e nero della più cruda miseria; i tessuti broccati e barocchi ricordano le sculture di pane sardo e la filigrana d'oro, così come le stupende maschere realizzate da Elena Rossi.   

Donna sarda porta fascine, anni '50

I materiali poveri della scena, legno e tela grezza, contrastano con i video immaginifici, proiezioni dell’inconscio così come si può rappresentare l’inconscio in una società di immagini liquide sullo schermo. Il destino ha un nome, quello del dio Apollo e dei suoi epiteti cultuali, che compaiono in alto, sullo sfondo, astratti e incomprensibili. Ma Apollo è lontano, su un indefinito Olimpo, anche se l’uomo cerca di stabilire una connessione flebile come un filo di lana con la montagna, come nelle indimenticabili opere e favole di Maria Lai.  

Colpisce, nei bozzetti della mostra, la ricorrenza di figure curve, con pesanti bisacce, col capo racchiuso tra fazzoletti pesanti, come è d’uso delle donne sarde, e come era l'Antigone di Brecht o Madre Coraggio. Figure che trascinano secchi e carretti, pastori di un tempo e contemporanei profughi di un mondo tornato a giocare nei ‘luoghi barbarici dei crani di cavallo’. Costumi che spesso, non solo esteticamente ma anche ideologicamente, trovano i loro antecedenti più diretti nella Medea e nell' Edipo Re  di Pier Paolo Pasolini.

‘Il passato non è morto; non è nemmeno passato. Ce ne stacchiamo e agiamo come se ci fosse estraneo’: credo che queste parole dell’inizio di Trama d’infanzia di Christa Wolf possano servire a dare il senso di questo Edipo. Il passato non è passato, ritorna, e finisce per sconfiggerci, ponendoci davanti a noi stessi, a quello che siamo stati, a quel che siamo diventati, all’infanzia che non abbiamo scordato.

Dov’è il bambino che sono stato/ è ancora in me o è sparito?’ (Pablo Neruda, Libro delle domande).

Pier Paolo Pasolini, Edipo Re

 

[1] Christoph Menke, Die Gegenwart der Tragödie, Frankfurt 2005, p. 67

[2] Si veda Guido Paduano, Edipo. Storia di un mito, Roma 2008.

[3] I ‘materiali di lavoro’ preparatori alla messa in scena dell’Antigone di Brecht si aprono con un compendio del mito, intitolato Frühe Fassung der Fabel (‘Versione antica della favola’). Il termine derivato dal latino ‘favola’ fu usato sino alla fine del ‘700 anche nel dibattito erudito per indicare i ‘miti’ greci. Il termine mythos fu reintrodotto negli scritti accademici da Christian Gottlob Heyne, nella seconda metà del ‘700.

[4] Cfr. Martin Revermann, Brecht and Tragedy. Radicalism, Traditionalism, Eristics, Cambridge 2022.

[5] Su questo cfr. Milena Massolongo, Antigone come problema. Brecht e la critica di un mito troppo moderno, «Studia Theodisca» 27, 2020, open-access qui.

[6] Valentino Mannias, l’Edipo di questo spettacolo, è stato protagonista di uno spettacolo denuncia sulla situazione di Teulada, L’avvoltoio di César Brie.