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Mercoledì 20 ottobre è particto con un primo incontro dal titolo 'Edipo e il mondo' un nuovo progetto di lavoro di Teatro degli Incontri. Ringraziamo Gianluigi Gherzi per averci voluto raccontare l'itinerario che ha portato a questo laboratorio e le sue prospettive.

Affrontare Edipo, cominciando il lavoro nell’ottobre 2020, all’inizio del secondo lockdown, è stato per Teatro degli Incontri, l’inizio di un percorso difficile e affascinante.

Quello che ci colpiva in Edipo non era solo il riferimento alla peste di Tebe, a una città colpita anch’essa da una grande malattia. Ma anche il fatto che quella epidemia ci sembrava, nel mito di Edipo, alludere a una crisi generale di mondo e dei paradigmi che lo reggevano, esattamente come stava succedendo a noi.

Riconoscevamo nella Tebe descritta dal mito di Edipo e da Sofocle una città profondamente malata, oppressa da forme di autoritarismo politico, di militarismo, da una crisi totale del “maschile, dalla violenza insopportabile del patriarcato, dalla rottura e dal disprezzo verso le forme più antiche e profonde del sacro e del rapporto con la terra.

Vedevamo nella figura di Edipo vecchio, in marcia verso Colono, un impulso a rinunciare agli onori, alle cariche pubbliche, alle lusinghe del potere, alle leggi del complotto politico che riconoscevamo nostro, leggevamo la sua scomparsa non come una semplice e terribile morte, ma come un momento di trapasso e di superamento, una tensione alla rinascita, un riconoscersi nella necessità di una città nuova e di un nuovo mondo da ricostruire.

La domanda da cui siamo partiti è: rispetto alla Tebe vissuta da Edipo, qual è invece la nostra Tebe? Come ci si vive? Da che cosa vorremmo scappare? Questa è stata la prima operazione drammaturgica, domanda che ha innestato la scrittura di tutte le quaranta persone che, collegate on line una volta la settimana, riflettevano sul mito di Edipo e lo rideclinavano, attraverso scritture originali, verso la vita che stavamo vivendo. Seguono due testi esemplificativi di questa prima fase delle domande e della ricerca.

 

La mia Tebe

Nella mia Tebe,

I corpi dei vecchi si aggirano come fantasmi per le vie della città

Corpi emaciati

corpi smagriti,

corpi ingrigiti

corpi rattrappiti,

corpi rinsecchiti

corpi curvi,

corpi zoppi che I bastoni non reggono più

corpi dalle gambe gonfie, troppo gonfie per poter camminare.

Corpi dai vestiti sporchi, che puzzano di piscio

corpi tristi,

corpi impauriti,

corpi intubati sotto le luci al neon delle stanze fredde degli ospedali

corpi soli che non possono stringere le mani a chi li ha amati per dire l’ultimo “anch’io ti ho amato”

corpi, corpi, corpi, una moltitudine di corpi in estinzione

che vorresti prenderli tutti tra le braccia e stringerli forte

e cullarli e baciarli e cantagli la ninna nanna

e dirgli “sono qua, siamo qua”

che vorresti gridare “non andartene anche tu”

gridarlo forte perchè la voce possa arrivare nelle loro stanze chiuse,

stanze fredde, stanze sole,

“Sono qua. Siamo qua. Non andartene anche tu”

 Nella mia Tebe, I vecchi non ci sono più,

 

La mia Tebe

 

Nella mia Tebe

utile, non è mai la nostra vita,

non siamo mai noi.

Utile

è il mondo se ricomincia a produrre,

i treni e le macchine

che trasportano al lavoro,

il cibo da supermercato,

le banche il denaro.

 

Inutili noi, i nostri rapporti non stabili

gli incontri segreti

lo stupore di fronte alla bellezza

i nostri spettacoli, le nostre piazze.

Utile la città degli spostamenti

inutili gli angoli, le panchine, le soste.

Utile il motore che mai si spegne.

Inutili noi dentro le case,

senza più lavoro fuori

né azioni da condividere.

Noi, abbarbicati ai nostri pensieri inutili

ai gesti minimi del contatto e della presenza

alle parole preziose dentro i libri

alle danze dentro i corpi chiusi.

La lezione è arrivata: inutili noi.

Che, oggi più che mai

quello che ci fa vivere

non è utile, ma

superfluo, secondario, rinviabile.

Utile la vostra vita utile.

 

La seconda operazione drammaturgica è stata quella di provare a riscrivere il mito, il mito, non le due tragedie di Sofocle. Riscriverlo cercando di dare voce sia ai personaggi principali, ma anche a personaggi che nel mito sono appena accennati, a divinità misteriose, ad animali, ad alberi, moltiplicando gli io narrativi. Operazione non solo stilistica per noi, ma che nasceva dalla voglia di dare voce a tutta la complessità del mondo naturale, vegetale, archetipico che vive dentro di noi.

E abbiamo lasciato spazio alla voce dei singoli partecipanti, che parlavano in prima persona, partendo dalla considerazione che non sentivamo Edipo solo come un personaggio, ma come una realtà che esiste dentro di ognuno di noi, una forma della psicologia e del rapporto col mondo che ci segna.

La riscrittura del mito. Parla la fidanzata di Crisippo

LA FIDANZATA DI CRISIPPO, SOLA, SULLA SUA TOMBA

Mi manchi, Crisippo. Ti amo. Ti amo da quando ti ho visto la prima volta, coi tuoi riccioli neri e il tuo corpo lucido che correva giocando con gli altri ragazzi. Sono arrossita. Una brava ragazza dovrebbe restare pallida e rosea, solo a guardare con gli occhi negli occhi, oh io ci ho provato ad abbassare la testa, te lo giuro, ma riuscivo solo a ridere come una sciocca e ad attorcigliarmi i capelli con le dita. Quando ti sei avvicinato, non ci potevo credere, amore mio, da me! Sei venuto da me e ho sentito gli occhi cadermi nella pancia, e il mio cuore saltava come un cavallo imbizzarrito. L’ho capito in quel momento che non sono una brava ragazza: ti guardavo con la pancia e tu mi parlavi come se nulla fosse, allegro, educato, hai spalancato quel sorriso chiaro e vibrante, e mi hai invitata nel tuo palazzo delle meraviglie, tenero padrone di casa e giovane gentiluomo. Perché non sei nato brutto? E perché la bellezza di fuori non l’hai accompagnata con la cattiveria, la vendetta, l’audacia di opporti ai mostri che ti hanno messo in casa? Io il mostro l’ho riconosciuto appena me lo avete fatto conoscere. Lo so che si presentava bene, ma era una iena apparecchiata da re della foresta, l’ho capito subito. E lui ha riconosciuto me, ha fatto di tutto per allontanarmi da te. Oh, era astuto, brillante, simpatico e pieno di fascino. Anche tuo padre ci è cascato in pieno, ti lasciava con lui ore ed ore, convinto che fosse un buon maestro a cui affidare il proprio figliolo prediletto. Del resto perché non fidarsi di un re tebano? Laio, figlio di Labdaco, coraggioso, forte, altero. E tu lo apprezzavi quale era, un insegnante preparato e creativo, ignoravi che la sua fonte di ispirazione fosse la tua bellezza squillante, che gli faceva vibrare il basso ventre mentre inventava per te sublimi lezioni sul mondo, o anche solo su come guidare il carro. Me lo dicevi che sapeva parlare, che era abile e carismatico, pieno di entusiasmo e di passione. Non capivi quando io mi ingelosivo, ma io non ho mai dubitato di te, anima nobile, bensì della sua brama di potere tutto, di esigere quel che l’anima vuole. Ospite illustre in casa di tuo padre, ha deciso che la tua delicatezza era vana, qui a Pisa, e che dovevi essere il suo personale ornamento e sollazzo, costi quel che costi. Ed ecco un re tradire un re: approfittarsi della nobile ospitalità di Pelope, padre devoto e con occhi solo per te, suo figlio prediletto, e compiere l’atto più odioso, rapirti. Rapirti, sì, portarti con sé come un orfano trovato per strada, prenderti come un randagio solo, farne il suo animale da compagnia, il proprio giocattolo domestico. La capisco la tua vergogna, sai? L’ho sempre compresa, anche quando ti ho gridato addosso perché volevo che ti rivoltassi, che trasformassi il tuo dolore in rabbia, che gli restituissi lo stupro con gli interessi. Ma le anime pure non conoscono violenza se non contro se stesse, e ti sei creduto colpevole, troppo bello, troppo docile, troppo disponibile. Eri solo troppo giovane, amore mio, troppo inesperto per sapere che i grandi prendono quello che vogliono, se ne fregano degli altri, guardano e comprano, o, se non possono, rubano. Ti hanno rubato tutto, Crisippo adorato, l’innocenza, la gioia, tutto, e anche a me hanno distrutto la gioventù. Non so più quanti anni ho, mi sento decrepita, e non mi consola l’ira di tuo padre che ha innalzato una maledizione sulla testa di Laio e di tutta la sua stirpe. Avrei preferito che la testa gliela tagliasse per servirla in pasto ad un branco di topi malati. Sì, di nuovo una lotta di re contro re, ma dal verso giusto, questa volta.

Eppure io non mi ucciderò, non seguirò il tuo esempio, dolce compagno, starò quanto meno a guardare, e vivrò a lungo per verificare che almeno la maledizione si avveri, lo testimonierò, lo racconterò in lungo e in largo, e la tua triste storia verrà ricordata, sarai immortale nel cuore dei giusti.

La riscrittura del mito. Parla La Sfinge

Voce 1

Vorrei non svegliarmi per non dover guardare in faccia la realtà. Se i miei occhi rimanessero chiusi il mondo con la sua malattia patologica non potrebbe colpirmi di nuovo ma le Parche non hanno tagliato il filo e io sono ancora in vita. Ho scelto di lanciarmi giù dal monte a causa tua, straniero, ma il mio sacrificio non è servito a niente.

Non mi vedrete più sul monte Ficio ma io vedo voi, nel mio ansimare, nascosta ai vostri occhi, osservo quello che sta accadendo alla città. Credevate che il morbo crudele fossi io e non potevate prevedere, Tebani, che un altro male tanto funereo si sarebbe abbattuto sulla città. Mentre vi aggirate tra la puzza di carcasse che nemmeno gli avvoltoi osano avvicinare vi scrutate, guardinghi, alla ricerca del colpevole. Chi sarà? Chi è colui che dovrà essere sacrificato per il bene di molti? Chi il capro espiatorio? Quanti enigmi avete ora da risolvere, almeno il mio era solo uno, sempre lo stesso, ripetuto ogni volta con la stessa voce, con lo stesso ordine. Sciagurati! Avermi avuto tra voi per così tanto tempo non vi è servito a niente, avete solo pensato ad annientarmi, a farmi fuori, senza nemmeno chiedervi che cosa ci facessi su quel monte e perché. Avete fatto di me la vittima, il mostro appartenente alle tenebre da sacrificare in nome della luce ma una notte buia è sempre stata presente nei vostri cuori.

Voce 2

Non sapete stare nel presente ma non sapete nemmeno guardare al passato, non sapete, anzi non volete, chiedervi il perché di quanto accade. Sarà sempre colpa di qualcun altro, troverete sempre un colpevole altro da voi senza mettervi in discussione, senza cercare dentro di voi una risposta. Forse c’è troppo buio lì e siete così spaventati che coprite le tenebre con un sole fatuo. Vi siete sempre coperti con altro, con le vostre ricchezze, con il vostro potere, e ora guardatevi, siete in ginocchio di fronte a qualcosa di imprevisto, qualcosa che è sfuggito alle vostre macchinazioni infallibili, alle vostre vite perfette di matematici pronti a calcolare perdite e guadagno. Questo SI questo NO, voi giudici onestissimi portatori di una legge tutta vostra. Voi pronti a schiacciare gli altri ora siete schiacciati, voi pronti a nutrirvi di qualunque cosa adesso siete rifiutati persino da uccelli che per tutta la loro vita non hanno fatto altro che mangiare cadaveri. Voi ammucchiati per le strade, ricchi con poveri, potenti con deboli, ecco il vostro contrappasso sulla terra, il vostro Inferno: stare nella morte e nella sofferenza con il diverso, con chi avete sempre disprezzato.

Voce 3

E tu Edipo, tu mio amato Edipo, che cosa fai? Persino tu cerchi un responsabile contro il quale accanirti? Ho dato la mia vita per te e così mi ripaghi? Sei esattamente come tutti gli altri o persino più cieco di loro, tu che sai di avere le mani sporche di sangue, di aver preso per sposa una donna usata come pacco regalo da Creonte, tu che sai essere sottile la linea che divide i colpevoli dai giusti. Anche tu ti accanisci nella ricerca dell’agnello da sacrificare? Perché non riuscite a capire che siete tutti responsabili, tutti colpevoli, tutti meschini allo stesso modo, avidi dello stesso potere, delle stesse ricchezze, della voglia di sfruttare, costruire, appropriarsi. Perché avete fatto dell’aggettivo MIO il vostro comando? Deve essere MIO, sarai MIA, questo è MIO e non sarà mai TUO oppure era TUO ma ora è MIO. Perché?

Siete ciechi e sordi, bruciati dentro e ora anche fuori. I vostri corpi sono lacerati, siete già all’Inferno e cercate conforto nell’acqua ma nessuna sorgente potrà darvi sollievo. Chiedete soccorso all’acqua solo perché ardete di sete, è una richiesta istintiva ma non sapete qual è la vera origine di questa sete. Che cosa state cercando Tebani? Che cosa avete sempre cercato?

Voce 1

Peste, peste, e comincia la festa

Voce 2

Peste, peste, mosche intorno alla testa

Voce 3

Peste, peste, quanta gente in festa

Voce 1

Peste, peste, mosche intorno alla testa…

Voce 2

L’indifferenza è comoda

Voce 3

L’ipocrisia, peste

 

Riscrittura del mito- La fine di Edipo

Al gruppo di ragazzini che sta ascoltando musica nel giardino sotto casa seduti attorno a una panchina.

E questa sera io muoio. Muoio agli sguardi distratti su di voi, alla presunzione di ritenervi superficiali. Allo sguardo che si arriccia in un giudizio.

Muoio alla mia età sapiente, all' arroganza di chi pensa di avere già vissuto eh capito tutto. Muoio al mio sorriso che non c'è più, al non riuscire più a godere una sera su una panchina ascoltando musica.

E questa sera io muoio a questa vita fatta di rincorse e di affanno, muoio alla paura del giudice supremo sempre pronto a dirmi: tu non sei abbastanza, non hai fatto abbastanza, non sei abbastanza presentabile e raccomandabile, tu continui a perdere occasioni, a non sfruttare le situazioni, la tua vita è un insieme di passi falsi, di atti mancati, di gesti abortiti.

Io questa sera muoio all'altezza fasulla di questo quinto piano di una casa decorosa è brutta, dove le vite si nascondono nel silenzio attutito delle televisioni e dei dispositivi.

Ehi questa sera io muoio al giudizio violento che do sulle vite e sul mondo che chiamo mondo adulto, e nello stesso tempo muoio al mio desiderio di corteggiarlo quel mondo, di aspettare da quel mondo il riconoscimento da sempre sperato e agognato.

E questa sera io muoio a tutti i miei percorsi che vanno da una casa a un impegno, dalla tazzina del caffelatte a un computer, sempre di fretta, sempre dentro alla mancanza, sempre come un quadro o una statua appena abbozzata e imperfetta. Muoio a tutte le abitudini piccole e insidiose che si sono fatte spazio dentro la mia vita, divorando prima i giorni, poi le ore, poi di minuti, fino a fare scomparire gli istanti.

Muoio alla sensazione di essere e di possedere qualcosa, muoio ai capelli bianchi che vorrebbero significare autorevolezza, all' esperienza che dovrebbe garantire una tranquilla navigazione in mezzo alla tragedia.

Io questa sera muoio a tutte l'età della vita che si presentano come una dittatura del dovuto e del raccomandabile.

Io questa sera muoio a giudizio amaro sugli altri, alla tristezza patetica di chi pensa di avere capito che i giochi comunque finiscono male.

Questa sera io muoio alla sciocchezza di chi pensa che il percorso di una vita si riduca alla conquista di una postazione, di una buona posizione, di una panchina in cui stare comodi.

Abbandono gli scranni, i troni, le poltrone, le sedie rosse dei teatri, e da questo quinto piano allargo le braccia e mi lascio cadere verso la vostra panchina.

Panchina scomode, provvisoria, rubata alla notte e alla solitudine, preghiera di incontro e di contatto, di una mano che sfiora una gamba, di stupore e batticuore, di sogno d'amore. Amore mai garantito, amore provvisorio, amore sognato, amore che vive dei profumi di questa sera di primavera malata.

Io questa notte apro le braccia volo e muoio io in questa notte muoio e mentre precipito e mi siedo in una panchina vicino alla vostra, senza ferirvi con lo sguardo, senza invidiarvi la giovinezza, penso e poi penso che questo è il momento in cui tocca morire. Morire a tutto il conosciuto

La fine di Edipo

Ecco mi spiace caro direttore, non ci sarò, mi perdoni, alla cerimonia dei riconoscimenti, delle premiazioni per il raggiungimento del target, del fatturato. No non parteciperò neanche alla crociera premio nel mediterraneo morente. Non contribuirò ulteriormente alla sua morte per asfissia da nafta bruciata e sversamenti da falle di petroliere giganti. Vi lascio una balena al seguito, il salto dei delfini. Forse mi vedrete all’orizzonte saltare fuori dalle acque insieme a loro. O forse gabbiano dal cielo scivolerò giù dalle bandierine festose e raccoglierò una briciola dal ponte lucido. Questo sì farò; raccoglierò briciole e le disperderò dal cielo come coriandoli, come fiocchi di neve purissima. Basta cumuli neri di neve sporca accatastata nelle città di smog, basta cumuli di denaro sporco accatastato in qualche forziere, basta cumuli di armi cariche ordinatamente accatastate in qualche arsenale. Io mi sottraggo all’accumulo signor direttore. Mi sottraggo al dover primeggiare a tutti i costi. Io abbandono questo lavoro forsennato schiavo del fatturato. La mia borsa la svuoto di ogni avere sulla piazza di wall street. Prendo il toro per le corna e lo metto a sedere, come toro seduto nella riserva indiana, e gli rendo la terra rubata. Abbraccio l’orso e mando l’economia in letargo. Ci vediamo giù al fiume a pescare pesci con le mani. Ci vediamo a cavallo nelle immense praterie. Liberi senza sella. Basta signor direttore, muoia pure la vostra obsolescenza programmata della tecnologia tutta. Riprendo a lavorare la selce e a farne asce per tagliar la legna. Così vi lascio sdraiato nudo su questa pira di legna ardente che ricorda il lavoro delle mie braccia che mossero l’ascia. Vi lascio così, come luminosa fiamma. Come virgola di fumo che si espande e ridiventa aria. E voi, sì dico voi cari ex colleghi e capi e direttori, dal ponte della nave in partenza, non dimenticate di filmare questa pira di addio coi vostri telefonini di ultima generazione, coi vostri potenti zoom e di postare la scena un istante dopo su qualche social e di commentare subito le risposte e criticarle. Io intanto sarò là a saltare coi delfini, quelli che dal ponte voi, risucchiati in qualche chat, non vedrete mai.

 

La fine di Edipo. Parla Edipo

Io mi spoglio

di patria, di amore filiale

di terra madre

di madre colpa

mi spoglio del mostro

mi spoglio di occhi che non vedono più

mi spoglio di vista malata

mi faccio spoglia per essere spoglio

mi spoglio di figli che uccidono figli

mi vesto di figlie

mi vesto di niente

mi spoglio nel bosco

vi supplico spoglio

spoglio di potere, assassinio, di eserciti, palazzi, incesti, di troni e corone

mi spoglio di Eteocle e Polinice

mi spoglio di discendenza tutta

mi spoglio di falsa pietà

mi spoglio di fuori le mura dentro le mura

mi vesto di Antigone e Ismene

di Antigone donna bambina

mi vesto di forza leggera

mi spoglio di legge feroce

mi spoglio di Laio, Crisippo e Corinto

mi spoglio di padri

mi spoglio di madri

mi spoglio di peste e contagio

di terra malata, di odore di morte

di morte nel cuore

mi vesto di bosco e di sacro, di terra, di abbraccio

mi faccio spoglia e nella terra rinasco.

Abbiamo infine dedicato una grande attenzione alla dimensione dei cori, partendo dalla considerazione che in Edipo i cori sono composti da persone che, contemporaneamente sono cittadini, appestati, supplici. Abbiamo riconosciuto questa triplice natura anche dentro di noi, ipotizzando di ipotizzare l’insieme degli autori-attori che partecipavano al lavoro come potenziale coro contemporaneo.

Coro di supplici a Tebe

Noi supplici ci sentiamo soli. Soli quando ci concentriamo per non lamentarci, quando cerchiamo con fatica la bellezza all'interno della battaglia, quando diciamo che non è colpa del pipistrello, che il suo habitat non è un mercato. Cerchiamo altri supplici, cerchiamo di ascoltare più a fondo. Cerchiamo il canto antico del noi. Ci sono altri supplici a guardar bene, ma bisogna proprio essere bravi nell'affinare la vista.

Non sappiamo come si prega. Non lo sappiamo più, forse l'abbiamo dimenticato. Le formule che recitavamo non ci parlano più. Ci mancano le parole e forse finora ci mancava anche la tensione a parlare con qualcuno o qualcosa che non si vede e forse non esiste. A raccoglierci nella nostra forma più piccola per arrivare a quella più grande.

Noi supplici ascoltiamo. Ma non i telegiornali, le notizie. Cerchiamo di ascoltare quello che non si dice, che sembra sparito. Ascoltiamo il pianto che non si racconta, guardiamo la natura che ha voglia di ricominciare la sua corsa, che ha voglia di dirci: guarda che io ci sono, che non sono solo quel topo con le ali che avete accusato, che sono anche i cinghiali in città, i cigni nel Canal Grande, gli alberi che stanno prendendo spazio. Perfino la neve quest'anno è tornata a trovarci.

Noi supplici cancelliamo. Cancelliamo le linee di separazione tra terra e cielo, tra uomini e animali, tra vittime e untori. C'è chi tra di noi prega, prega chi si ricorda come fa, chi ha la benedizione di una fede e di un dio che l'ascolti. C'è chi lo cerca un dio o qualcosa a cui affidarsi, chi ci prova. C'è chi supplica la scienza e la ragione, perché noi in quanto supplici non siamo un noi, siamo un insieme variegato. Ma tutti vogliamo che finisca. C'è chi vuole tornare a prima e chi si vuole inventare un poi. C'è chi vuole mettere fine a tutto con un bel “e vissero felici e contenti” e chi si chiede cosa ci sarà alla fine della storia. Cosa comincia quando il mondo che conosciamo finisce? Preghiamo che la fine sia solo un altro inizio, preghiamo i cigni di non lasciarci, preghiamo che tutto finisca per trasformarci. Preghiamo scrivendo, preghiamo appendendo poesie, preghiamo cantando la città svuotata e la neve inaspettata, inventando nuovi modi perché la bellezza non venga dimenticata. Cosa c'entra quando c'è di mezzo la salute? La bellezza è il sentirci fratelli di specie, di saperci pipistrello, ali, fiori, onda, sacchetto gettato a terra, la bellezza è riconoscere cosa è essenziale e cosa può essere lasciato andare. La bellezza che anche ora non ci abbandona, è nelle mani rugose di un anziano malato, nel loro racconto nodoso, nello sbattere la porta di un ragazzo che corre ostinato verso il suo primo bacio, nella lotta che continua dentro le fabbriche, dentro le corsie, dentro i nostri polmoni e ancora più in fondo.

Noi supplici preghiamo che non si dimentichi. Che ce la ricorderemo questa mancanza di corpo che sorride che si stringe che entra in altro corpo e lo benedice. Preghiamo che non ci si abitui. Preghiamo con la preghiera dell’ape che si fa operaia di primavera, con la nostra finitudine che danza con l'infinito: Che l’irruenza di una risata torni a scostumarci la faccia.

Coro dei cittadini di Tebe

Voce 1        Correva l’anno 20 del secondo millennio, la primavera non era ancora cominciata, ma il cielo era terso e limpido e il sole caldo.

Voce 2        Cominciò a diffondersi una terribile pestilenza, dicevano fosse arrivata da lontano, da un mercato cinese. Dall’uso barbaro di cibarsi di animali selvatici, era sotto gli occhi di tutti che quelle popolazioni fossero capaci di mangiare alghe e cani, il passo a divorare pipistrelli era breve…

Voce 3        Nei loro ristoranti, nei loro bar, che qui nelle nostre terre avevano invaso tutte le città, lo si poteva vedere con i propri occhi…

Voce 4        In principio nessuno credeva che un male lontano potesse arrivare a noi, nelle scuole elementari solerti maestre rassicuravano i pargoli nostrani: da noi non può succedere, bambini non distraiamoci e continuiamo con il programma.

Voce 5        Tempo una settimana, tempo di festeggiare il carnevale, ottimo per respirarsi addosso gli uni con gli altri e il contagio era cominciato…

Voce 6        La peste si diffondeva, alle persone mancava il respiro, i polmoni collassavano senza aria, morivi.

Voce 7        Il contagio era veloce e causato dalle particelle di saliva, che da quel momento in poi vennero chiamate universalmente droplet, pure da distinte signore cotonate che l’inglese non lo avevano proprio mai usato.

Voce 8        Dalle tv ci ingiungevano di stare a casa, consumare cene e pranzi solo con i familiari, non cedere alla tentazione di avere contatti con estranei al nucleo familiare stretto, recuperare sane abitudini, fare ginnastica in soggiorno, collegarci spesso con zoom, skype, whatsapp per mantenere la socialità e studiare.

Voce 9        La scuola prese la forma del salotto e il lavoro divenne smart.

Voce 10       Attraverso i nostri pc e cellulari potevamo collegarci con il mondo, mentre uscire, toccarci, parlare, abbracciarsi, stringersi le mani, stare vicini era severamente vietato.

Voce 11       Bisognava fare uso di dispositivi di protezione, mascherine, guanti, gel disinfettanti, e soprattutto device, che ci permettevano di esistere senza l’utilizzo rischioso di quel dispositivo umano detto corpo.

[foto 1 Qaurantena Paulistana ph. Luca Meola]

Voce 12       I bambini e i ragazzi erano veicoli dannosi di diffusione, trasmettevano la malattia pur non essendone visibilmente colpiti e pertanto da tenere sotto stretta sorveglianza.

Voce 13       La rete ci avrebbe assicurato la sopravvivenza, dovevamo essere cittadini responsabili, non ci accorgevamo di quanto l’aria e la natura stavano rifiorendo da quando noi stavamo rinchiusi?

Voce 14       E si certo, avremmo potuto fare qualcosa anche prima, prima del buco dell’ozono, prima dello scioglimento dei ghiacciai, prima delle polveri sottili, prima… ma tant’è, che cominciassimo da adesso, dipendeva tutto da noi se eravamo perduti.

Voce 15       I governi di tutto il mondo provvedevano a noi cittadini bambini, insieme con le grandi aziende farmaceutiche avrebbero scoperto i vaccini e saremmo stati salvi.

Voce 16       Tutto ciò aveva un costo? L’avremmo pagato. Era giusto riconoscere economia alla salute e non pretendere di essere curati a gratis.

Voce 17       Ci sarebbero state priorità, ma la produttività e il sistema sarebbero stati salvati, altrimenti saremmo morti anche noi. Non si poteva incrinare il paradigma che ci aveva guidato fino ad allora!

Voce 18       C’erano, va detto, inguaribili romantici che provavano a suggerire che era proprio quel paradigma che ci stava uccidendo…

Voce 19       Bene vuoi tornare a lavare i panni senza lavatrice? A usare le gambe per spostarti? A divertirti raccontando storie in cerchio? Fai pure ma non metterti in fila per vivere.

Voce 20       Le aziende avrebbero provveduto, come mamme di buon senso, alla salute dei cittadini - dipendenti, in aiuto allo stato padre che già ci provvedeva. Vivevamo nel migliore dei mondi possibili.

Voce 21       Ci sorridevamo dai balconi, recuperando d’un tratto un senso di comunità svanito da tempo ormai.

Voce 22       Anche se non conoscevamo il nome dei vicini di pianerottolo, maledetti untori che uscivano per fare la spesa una volta in più di noi alla settimana, pur avendo un nucleo familiare pari nostro, bastardi!

Voce 23       Cantavamo allegri dai balconi insieme al dirimpettaio del palazzo di fronte, a squarciagola intonavano Bella ciao anche noti fascisti di quartiere, potere della peste!

Voce 24       Altre piaghe secolari quali l’analfabetismo di ritorno furono sconfitte dal proliferare di cartelloni rassicuranti sempre sui balconi, scritti con calligrafie stentate da chi non impugnava più da anni penna e carta. Andrà tutto bene!

Voce 25       Per strada invece orde di stramaledetti adolescenti rifuggivano al controllo familiare, all’educazione scolastica via cavo.

Voce 26       Si davano appuntamento in piazza, muniti di mazze e bastoni e si pestavano, fino a lasciarne qualcuno a terra.

Voce 27       Interrogati in merito raccontavano di aver bisogno di ricordarsi che dalle loro braccia e gambe poteva uscire sangue, che sotto la pelle avevano muscoli e organi.

Voce 28       Che ne era della preservazione della specie?

Voce 29       I peggiori fra i giovani solevano ancora baciarsi di nascosto per le vie.

Voce 30       Maledetti, convinti ancora che la prosecuzione della specie potesse essere affidata a quell’antico uso di fare all’amore!

 

Il risultato di tutto questo lavoro svolto on line dall’ottobre 2020 al giugno 2021 è stata la produzione di moltissimi materiali di scrittura, ma anche l’esplorazione di linguaggi visivi, fotografici, musicali, che sentivamo pertinenti alla storia che volevamo narrare. A questi appuntamenti settimanali hanno partecipato attori e autori che vivono prevalentemente a Milano e in Lombardia, ma ci sono state anche alcune presenze molto importanti che si collegavano da altre città e regioni italiane.

A partire da ottobre 2021 Teatro degli Incontri lavora sulle forme di restituzione pubblica, sia on line che in presenza, e a volte all’interno di forme che contemplano contemporaneamente la presenza di un pubblico dal vivo e di una parte di pubblico e di attori invece collegati on line, di questo lavoro , di questo percorso, di questa riflessione poetica e politica sul nostro presente.Per informazioni: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

Le foto:

1. Qaurantena Paulistana ph. Luca Meola

2. Cidade de Garoa ph. Luca Meola

3. Le Supplici  ph. Anna Roberto