Ho vinto, dunque.
Ma perché l’aver vinto mi sembra ancor meno sopportabile di una sconfitta?
Perché sento di non riuscire a sostenere la gioia degli altri, come se non volessi proprio questo, come se non avessi lottato che per morire, per invocare la morte su di me, la fine di tutto, il riposo come giusta ricompensa a chi sa accendere negli altri la speranza, infiammarne i cuori, senza riuscire mai, neppure per un istante, a placare la propria angoscia?
Com’è strana la parola che affiora alle labbra di chi è divorato dalla più immedicabile disperazione: ha forza, bellezza, luce, eppure proviene da un buio fittissimo e impenetrabile, popolato da incubi e mostri, disseminato di cadaveri lasciati a marcire insepolti, traboccante di tutte le macerie del mondo, travolto dalle frane del cielo…
E poi perché salvarmi? a quale vita andrei incontro?
Emone non sa di che parla quando parla di avvenire. Accanto a lui ancor più sento che tutto è da sempre arrestato, o tutt’ al più ripetuto, che nulla che venga al mondo è veramente nuovo. Così sento.
Forse per questo quando ero bambina e la nutrice mi mostrava i morbidi tessuti del corredo filati ai telai delle più abili tessitrici della Grecia, e me li faceva sfiorare appena guidandomi la piccola mano per timore di sciuparli, e voleva farmi sentire che lì c’era una promessa di vita e di gioia, anzi, che ogni promessa era lì, io sentivo che dalla mia piccola mano si trasmetteva a tutto il corpo una sensazione di gelo, come quella che si prova posando le labbra sulla fronte di un morto. Già allora trovavo incomprensibile che si desiderasse mettere al mondo dei figli. E oggi lo so, con una chiarezza che mi inchioda a una irrevocabile decisione: non voglio procreare.
Generare figli è condannare qualcun altro a morire, è quasi come uccidere: è violenza primordiale, che costringe a una lunga, interminabile espiazione. Generare figli è provare un amore sproporzionato, addirittura grottesco per sé stessi, per l’essere inconsistente che siamo, tanto da volerlo estendere, prolungare, moltiplicare in propaggini separate da noi, che rechino alla terra già così pesante di esistenze il segno della nostra presenza, della nostra stessa nascita, del nostro stare al mondo.
D’altra parte, procreare ci solleva dall’obbligo o dal compito di vivere la nostra vita: ci convinciamo che sia giusto e nobile sacrificarla per i nostri rami, le gemme del nostro albero, delle nostre radici... in modo da poter delegare loro un compito tanto faticoso e difficile, caricando la progenie di aspettative che non sono altro che le parti mancanti della nostra vita.
A quale condizione abbrutente, poi, però, ci si sottopone pur di non viverla la propria vita, pur di non incontrare il vuoto che siamo - perché la vita coincide in sostanza con il fare esperienza del vuoto che siamo, della polvere che è il nostro corpo -; a quale condizione abbrutente, sì: notti insonni, ansie, cure, lunga e faticosa costruzione di un essere umano che non farà che sperimentare e ripetere quello che siamo: un’insanabile ferita senza nome. E alla fine che cosa fabbrichiamo? Esseri che vivono sempre a discapito di altri, in una condizione ineludibile di indegnità, per giunta! Perché si è sempre indegni di vivere a discapito o al posto di un altro, e smisurato è lo sforzo per ridurre questa indegnità o iniquità…
Quanto a me, ancora non ho imparato il discrimine esatto fra un mio respiro e la violenza. Ho orrore e disgusto della violenza: non voglio praticarla. Ho orrore e disgusto della salvezza: non voglio trovarla. E ho orrore e disgusto della vittoria, che è volgare e oscena, sì, perché imbandisce la propria tavola con il dolore e la sconfitta d’un altro, quasi gozzoviglia con i brandelli del suo corpo. Sia lontana da me una gioia del genere, non potrei che detestarmi se riuscissi ad apprezzarne il sapore!
…Che farne allora della mia vita? Chi sente così appartiene forse irrevocabilmente alla morte? È al di là delle morti comuni? Trova in questo essere al di là un’altra, più subdola morte? O forse sa che non ci è dato in nessun caso di vivere, ma solo di morire? Di questo avevo prima di oggi come una percezione inquieta e oscura, mentre ora che mi è stato riservato il terribile destino di conoscere anche la vittoria, mi sembra di saperlo con indubitabile chiarezza… Non posso tornare alla luce, non ce la farei: sento che i miei occhi si ferirebbero e la mia mente ne uscirebbe definitivamente stravolta.
Non reggo al peso di una verità che con il suo trionfo non sa alleggerirmi il cuore…
(Rigira fra le mani lo specchio rotto, sembra giocare con i suoi riflessi, che dirige anche sugli spettatori; intanto ritorna il suono dei cembali, prima flebile, poi sempre più intenso e concitato; vi si aggiunge un flauto, che emette stridule note “dionisiache”. Antigone avvicina al polso il bordo spezzato dello specchio. Bruscamente il motivo s’arresta su un’unica assordante nota, mentre la scena è inondata da una luce rossa intensissima…)
Pubblichiamo, con il permesso dell’autrice, un monologo dalla parte finale della pièce che prima come Il migliore dei mondi possibili, poi come La parabola di Antigone, è stata rappresentata dalla Compagnia del Giullare, per la regia di Andrea Carraro e con Paola Senatore nei panni di Antigone, per la prima volta nel 2011 al Teatro del Giullare di Salerno e negli anni successivi, tra il 2012 e il 2018, al Museo Archeologico di Paestum, al Museo Archeologico di Pontecagnano, alla Fondazione Ebris di Salerno, al Teatro Ghirelli di Salerno e presso il Palazzo Orsini di Solofra (nell'ambito della rassegna Lustri Cultura in dies di Hypokrités Teatro Studio). Lo spettacolo è stato prodotto dalla Casa del Contemporaneo e dalla Fondazione Salerno Contemporanea.
Il testo ruota attorno a un’Antigone rinunciataria, il cui nome (‘colei che è contro la vita’) si realizza nel rifiuto della vita propria e altrui, nonché nella sfiducia in una prospettiva stessa del futuro. Un’Antigone che non si riconosce, dunque, nel gesto, nell’azione, per quanto simbolica, ma nell’immobilità, nel ripiegamento su se stessa. Un' Antigone paradossale, perché si vota alla morte nonostante Creonte, in un rovesciamento della vicenda messa in scena da Sofocle, si penta, torni sui suoi passi, ceda e permetta la sepoltura di Polinice. Un' Antigone che dichiara la fine di ogni utopia e anche di ogni fede, la sfiducia totale in ogni verità. In questo contraria all’ Antigone di Sofocle, che nell’azione simbolica ripone la grandezza del realizzarsi di una ‘legge non scritta’, superiore alla legge degli dei, dell’archetipo antico coglie però la meditazione sulla morte, intesa non tanto come limite a ogni progetto e potenzialità umana, ma come soluzione estrema di conflitti irresolubili. Un' Antigone a cui certo si può imputare un pessimismo senza via d'uscita (S.F.)
Un trailer del progetto drammaturgico si può vedere qui . Dallo spettacolo è tratta anche la prima foto. Le altre immagini sono sul sito del progetto Lustri cultura in dies