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17 maggio 2011: la monumentale statua della Dea di Morgantina (V sec. a.C.) è tornata a casa, ad Aidone, nel piccolo e preziosissimo Museo archeologico della città siciliana.

La sua storia, dalla scoperta rocambolesca, al trafugamento, al controverso approdo a Malibu nel J. P. Getty Museum, e l’epilogo, con la restituzione della statua alla città siciliana, hanno tratti tragici. La storia inizia infatti con un atto di profanazione, continua con un episodio di smembramento del corpo della dea, ha per protagonisti uomini colpevoli di hybris e termina, come alcune tragedie di Euripide, con un deus ex machina e lieto fine.  

Marina Saccheri Borri, dopo una visita al Museo archeologico di Aidone, ha scritto l’ironico monologo Morgantina-Malibu. Andata e ritorno di una dea. Della stessa autrice abbiamo pubblicato Diario della fine di un viaggioPer approfondire le vicende della dea di Morgantina e il significato della colossale statua rinviamo al sito del Parco archeologico regionale e delle aree archeologiche di Aidone – Museo archeologico regionale di Aidone, qui.  (Raffaella Viccei)

 

Spero che almeno lui torni. Lo aspetto da ieri.

Ma non tornano mai. Vengono, sì, ma poi vanno. Chissà dove, poi.

Certi – non tutti – addirittura mi scrutano.

Alcuni si fermano, commentano.

Ma solo dall’esterno, per così dire: non pensano quasi mai a me, a come mi sento.

Notano il mio abito – “bellissimo!” –, la sproporzione tra il mio corpo così imponente – “matronale”, “giunonico”, sono i loro commenti – e la mia testa piccola, quasi da ragazzina.

Un sacco di volte mi è venuto da urlare: mi manca l’acconciatura!

Se mi aveste vista quando ero completa, con la corona di trecce e il velo. Allora sì che ero proporzionata, che tutti i pesi erano al loro posto.

Ma naturalmente io non posso parlare, non è il mio compito.

Non sono fatta per le parole, io. Sono da ‘guardare e non toccare’.

Mi piace stare qui? Onestamente non lo so.

Nessuno me l’ha chiesto. Mi ci hanno portata; hanno deciso tutto loro.

All’inizio, quando ero ancora là, nel posto lontano, questa cosa del ritorno mi intrigava: lettere,  telefonate, visite, commenti, apprezzamenti ...

Insomma, tornavo a sentirmi importante, voluta, oserei dire amata, di certo desiderata.

E anche gli altri pellegrini – parlo di quelli del posto lontano, scoperto cento e cento anni dopo la mia isola – da quando si cominciò a parlare del mio ritorno mi guardavano con più interesse.

«È molto contesa» – dicevano – «può darsi che saremo obbligati a restituirla».

Io non capivo bene di che cosa stessero parlando. Forse neppure mi interessava.

Avevo dormito così a lungo che quando mi hanno svegliata non riconoscevo più niente e nessuno.

Non riconoscevo neppure la lingua, ma questo non era un grosso problema: quelle come me le lingue le capiscono un po’ tutte.

Ero comunque in un altro mondo. La gente che veniva intorno a me aveva atteggiamenti strani, soprattutto alcuni, intendo dire quelli che si avvicinavano con piccole scatole da cui uscivano lampi di luce. Chi aveva mai visto prima una cosa del genere?

La loro curiosità per il mio aspetto mi imbarazzava. Non ero interessata alla curiosità degli uomini e l’estetica pura e semplice non era mai stata la mia ragion d’essere.

Io ero ... SACRA. Ecco, l’ho detto!

Intimidivo. A volte facevo paura.

Chi veniva da me, lo faceva col cappello in mano, come si dice.

Insomma: avevo potere.

Amata, forse no. Ma potente, sì.

E, credetemi, quella di essere potente è una gran bella soddisfazione. Per una donna, poi.

Ma partiamo dall’inizio della mia seconda vita.

Un po’ di tempo fa mi hanno svegliata. Ero nel grembo caldo della terra. Mai che si possa avere pace! Mi hanno rapita e nascosta di nuovo.

Ho cercato di riaddormentarmi, ma è stato impossibile. Cieli da attraversare nella pancia di ippogrifi di ferro, poi di nuovo a terra, in un grande palazzo, fra persone che entravano e uscivano ininterrottamente e mi disturbavano: alcuni mi grattavano un ginocchio, altri parlottavano, due uomini mi facevano un buco piccolo nel basamento. Poi tutti sparivano.

D’accordo, si interessavano a me, molto. Ma rispetto, niente!

Ero A PEZZI. Letteralmente.

Questi tizi toccavano tutti i miei pezzi cercando di rimetterli insieme. Quella parte, intendo dire la mia ricostruzione, mi è piaciuta molto. Sì, lo confesso, mi piaceva che mi rimettessero insieme e che lo facessero con devozione. Ma era chiaro che non avevano assolutamente capito chi fossi.

Ah, poi: il posto dove mi avevano portata. Zeus mio: orribile! Chiuso, buio, nascosto.

Io, nascosta!

Proprio io, che sono fatta per stare in mezzo alla gente. In mezzo, ma non ‘con la gente’.

Le persone sono per me come l’acqua per i pesci. Il mio elemento, l’aria che mi fa respirare. Vivere.

Il pubblico, per me, è come la luce per i colori. Niente luce, niente colori.

Niente gente, e io non esisto.

Ricordo il giorno in cui mi hanno portato via da quella specie di antro. Mi sono ritrovata viva.

Il nuovo tempio era bello: strano, ma a modo suo bello. Con una bella luce.

E finalmente, di nuovo, la gente.

Questi nuovi pellegrini però erano strani.

Mi giravano attorno, facevano commenti sulla mia età – come se fosse importante l’età di una signora!

Qualcuno osservava che le mie braccia, la mia testa e i piedi erano di marmo, ma il vestito di pietra.

Ma dico io: è logico, no? Il loro corpo è dello stesso materiale del loro vestito? Certo che no!

Comunque, anche se era tutto un po’ strano, io mi trovavo a mio agio, tutto sommato mi sentivo bene.

Mi piacevano tutti quei pellegrini che andavano e venivano e cambiavano continuamente; come là al santuario, d’altronde.

I sacerdoti qui erano ben organizzati. Certe volte accompagnavano delle persone più importanti e allora si fermavano più a lungo, spiegavano dove e come mi avevano trovata, o parlavano di soldi, di tempo, di anni passati. Quanti anni erano passati. Sì, quanti anni erano passati …

Dicevano che ero bellissima.

Come ho già detto, la bellezza non era esattamente la mia ragion d’essere, ma trovatemi voi una donna a cui non piaccia sentirsi dire che è bella!

Per tornare al tempio, cercherò di spiegarvi perché era tanto strano.

Prima di tutto, non ero sola.

Con me c’erano un sacco di altri oggetti, tutti sacri, e i pellegrini, poveretti, si confondevano. Logico, no?

Così non solo non sapevano chi venerare, ma non portavano nemmeno offerte. Non un animale, chessò un pollo piccolo, niente fiori o frutti, un’offertina in monete ... NIENTE.

Un mio vicino, che aveva una coppa niente male, mi ha detto che da qualche tempo il sistema era cambiato e che le offerte si facevano tutte all’entrata, poi si divideva. Una vera barbarie!

Figurarsi se a quelle condizioni mi mettevo a fare un miracolo: capace che poi si prendevano il merito gli altri! Seccata per queste nuove regole, mi sono limitata a star lì, ferma immobile, a farmi dire che ero bella, e Amen.

Un giorno sono arrivati dei sacerdoti nuovi. Dovevano essere importanti perché gli inservienti si sono dati un gran daffare a illuminarmi bene, a spolverarmi in continuazione. Hanno anche spostato qualcuno di quegli altri dèi, che io avevo subito capito essere di serie B.

Sono andati avanti e indietro per un po’, parlavano tra loro, mi osservavano da vicino – anche troppo, per i miei gusti. Ma, insomma, stavano riconoscendo il mio ruolo, e questo mi faceva piacere. A dirla tutta, mi faceva un piacere immenso.

Poi, una sera, a tempio chiuso, è arrivato il Primo Sacerdote. Da solo.

Aveva in mano una strana torcia che non faceva né fumo né caldo, ma una luce molto forte e chiara,  una specie di lampo addomesticato.

«Lo sapevo che non poteva durare» sussurrò ai miei piedi, come se non osasse guardarmi in faccia.

Mi sfiorò il piede, ma non c’era timore nel suo gesto, solo una tristezza infinita.

«Mi mancherai tanto», disse spegnendo la torcia.

Ecco, io ovviamente non l’ho mai provato, ma da quello che ho sentito dire in tutti questi anni, credo che il Primo Sacerdote provasse per me quello che gli umani chiamano amore. Pare che per loro, per gli umani, sia una cosa importantissima. Contenti loro ...

Pensai che fosse venuto a salutarmi perché lo avevano cacciato dal tempio; forse aveva imbrogliato con quella storia folle di raccogliere le offerte tutte insieme all’entrata in cambio di pezzettini di carta.

Probabilmente lo avrebbero condannato e giustiziato per sacrilegio.

Un po’ mi dispiaceva per lui, ma se davvero aveva rubato le offerte, se lo meritava.

E invece ...

Invece il giorno dopo sono arrivati degli uomini rozzissimi e rumorosi, con una quantità di assi di legno e con palline bianche e stoffe, che non erano certo divine, e in quattro e quattr’otto mi hanno rinchiusa in una celletta, tra commenti e ordini che schioccavano come fruste – “Ooh!” “Ehi!! Piaaanooo!” “Molla!!” – hanno cominciato a muovere la celletta e me, che ero chiusa là dentro al buio.

Un incubo. E una delusione, ma una delusione.

Altro che amore! Lo sapevo io che quella cosa lì è una fisima degli umani, che non sta né in cielo né in terra. Il Primo Sacerdote mi aveva venduta. Lo aveva fatto proprio a me. Io, venduta come una schiava.

Gli ho lanciato un paio di maledizioni di quelle che non perdonano, infatti poi è finito malissimo.

Non sto a raccontarvi le 48 ore seguenti: un’odissea.

Tutto è cambiato ancora. Via, dentro un altro ippogrifo. Altri cieli, l’isola, un nuovo tempio.

Qui c’era qualcosa che mi piaceva di più. La strana sensazione di essere tornata a casa dopo un lungo viaggio. La luce, forse. O certi profumi. Non saprei dire cosa fosse, ma riconoscevo il luogo. Ero tornata sotto il mio cielo.

Anche nel tempio isolano non ero sola. Invece che in una cella tutta per me, come ai bei tempi, mi avevano messo in una grande sala da condividere con altri dei. Certo, di serie B rispetto a me, ma simpatici.

Di pellegrini ce n’erano parecchi, però di offerte, anche qui, neanche l’ombra. Una bella testa,  abbastanza bella – a volte esagero –, mia vicina, mi ha spiegato che adesso i templi si chiamano musei e che gli uomini radunano lì parecchi dèi, di vario genere. Raccolgono anche piatti, anfore, gioielli, che però nessuno usa: li mettono in mostra e basta.

Le offerte vengono ammucchiate tutte all’entrata ma non vengono date a noi dèi. Macché! Queste offerte, che sono solo soldi, e già questo è un po’ brutto,  vengono divise tra sacerdoti e inservienti. Ai primi ovviamente va il grosso.

Sapere questo mi aveva irritata e per qualche istante ho pensato che sarebbe stato meglio continuare a dormire a pezzi. Ma la rabbia è passata veloce. Ero contenta e beata per essere di nuovo a casa. I pellegrini mi facevano un sacco di feste e i giorni del mio ritorno erano proprio tanti.

A poco a poco sono diminuiti. Probabilmente ci sarà stato un nuovo tempio nelle vicinanze con un dio più miracoloso di me, non lo so ... Questa cosa dei fedeli che tanto fedeli non sono e seguono le mode è molto triste, ma pare che non ci sia niente da fare. Non è neanche questione di miracoli più o meno mirabolanti, è proprio che gli umani sono ondivaghi e hanno bisogno di novità.

Mi ero rassegnata, quando un giorno è entrato lui. Tutto solo, un po’ vecchiotto. Si è guardato in giro, poi è venuto dritto da me e ha detto: «Meglio qui o in California?»

Ero senza parole. Non che io di solito parli molto agli umani, ma a me stessa e agli altri dèi parlo, eccome! Ragiono, rispondo, so argomentare, ma  quel vecchietto mi aveva lasciata di stucco.

Ha continuato: «Sai, anch’io sono tornato a casa da poco. Da San Diego. E sono contento, eh, contentissimo. Però è tutto cambiato, e certe volte mi pare che fosse meglio là ... Insomma, così ... E tu?».

Ho capito. Mi ha fatto pena. E mi sono fatta pena un po’ anch’io, a dir la verità, perché in fondo eravamo tutti e due sulla stessa barca. Allora mi sono venute le parole.

«Io sono contenta di essere tornata a casa. Non è il posto a essere cambiato. Sono i tempi. Tu credi di aver nostalgia dell’altro posto, ma in realtà hai nostalgia dell’altra tua vita. La rimpiango anch’io, e tanto. Quando ero venerata e temuta, quando ero potente. Tu hai nostalgia di quando eri giovane, e di quando a modo tuo, poveretto, con tutti i tuoi limiti di umano, ti sentivi potente anche tu».

«Quindi capita anche a te di sentirti superata?» Mi ha chiesto un po’ sorpreso.

«Superata ... Diciamo che non sono più in prima linea. Ma in fondo anche così non è tanto male».

Ha fatto una smorfia, una specie di sorriso da cui ho capito che mi aveva capito. Però se fosse d’accordo, questo non lo so.

«Allora, magari torno a trovarti», ha borbottato uscendo.

Adesso io spero che ritorni.

Ma pensa un po’: una dea che ha nostalgia di un umano!

Sì, i tempi sono proprio cambiati.

 

 Tutte le foto sono tratte dal Museo di Aidone. Alcune mostrano le fasi del montaggio della statua, nel marzo 2011.