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Quando giunse a Bari, Carlo Ferdinando Russo (1922-2013), che due anni prima aveva conseguito la libera docenza in Filologia classica, aveva ventotto anni[1]: allievo della Scuola Normale Superiore tra il 1939 e il 1943, si era laureato in Letteratura greca con Augusto Mancini e aveva seguito i seminari di Giorgio Pasquali, per poi svolgere «funzioni di esercitatore a Firenze e di assistente straordinario a Colonia, grazie alla fiducia di Giorgio Pasquali e di Günther Jachmann»[2]

Sin dai primi anni baresi, oggetto privilegiato delle sue ricerche fu il teatro di Aristofane: al 1953 risale infatti la pubblicazione, presso la Adriatica Editrice, di uno studio sugli Acarnesi[3], che, come si legge nell’Avvertenza, «tende per buona parte alla interpretazione della commedia innanzi tutto come d r a m m a» (p. 8). Questa affermazione prova, in tutta evidenza, che a quell’epoca Russo aveva già in mente l'Aristofane autore di teatro, che sarà pubblicato nove anni dopo, nel 1962 (19842), presso la Casa editrice Sansoni, e poi ancora in una nuova edizione nel 1984 e infine in inglese, in una versione ancora rinnovata, nel 1994.

Copertina de 'Gli Acarnesi'

A questi interessi di studio sul teatro aristofaneo contribuì, come ricorda egli stesso nella «Preface» della edizione inglese, la frequentazione, a Ischia, di Ingeborg Bachmann e Wystan Auden, con cui ebbe modo di discutere degli Acarnesi e della poetica aristofanea[4].

All'ambiente teatrale si era peraltro avvicinato già nell'estate del 1948, allorché (è ancora lui stesso a ricordarlo in un sapido asterisco autobiografico, pubblicato in «Belfagor» del 2004), in compagnia di  Mario Praz, che in quegli anni era docente a Salisburgo per una 'summer school' di Harvard, andava al Festival mozartiano, e incontrava il soprano Elisabeth Schwarzkopf, «dato che il redattore antico di parlata fiorentina fungeva da didascalo di dizione italiana per attrici e attori delle Nozze di Figaro: così aveva voluto il regista Lothar von Wallenstein»[5]. Al periodo di Ischia, inoltre, risale la conoscenza e la collaborazione con Karl Werner Henze, che stava allestendo la sua prima opera al San Carlo di Napoli, Boulevard Solitude [vedi più oltre l’Appendice].

 Un impulso ai suoi interessi di studio per il teatro di Aristofane gli venne inoltre dalla lettura delle Prefaces to Shakespeare del regista-filologo Hurley Granville-Barker: un'opera a proposito della quale, dopo la pubblicazione del primo dei cinque volumi in cui essa si articola[6], «un critico del testo inglese – tanto estroverso sul Tamigi  quanto Giorgio Pasquali lo era sull'Arno, John Dover Wilson – esclamò su un quotidiano: "È sorprendente che un fatto così ovvio sia stato riconosciuto solo ora, ossia che Shakespeare non scriveva per essere letto, ma per essere recitato, e che i suoi libri sono in realtà dei libretti[7].

Fondamentale, per il suo approccio allo studio di Aristofane come autore di teatro, fu, sotto l'aspetto filologico, il volume Le dialogue antique. Structure et Présentation (Paris 1954) di Jean Andrieu, il quale ebbe il merito di osservare che i testi drammatici antichi, da Eschilo ai latini, non presentano un 'sistema di avvertimento' che permetta a dei lettori di ricostruire agevolmente l’opsis di quei testi teatrali: per cui lo studioso francese poteva fondatamente concludere che essi erano stati composti principalmente, se non esclusivamente, in vista di una loro rappresentazione teatrale.

Copertina di Aristofane autore di teatro, edizione 1944

Nel 1962 fu dunque pubblicato l'Aristofane autore di teatro, punto di arrivo di una intensa attività di ricerca sull'opera del commediografo e, più in generale, sulla civiltà teatrale ateniese; attività di cui sono testimoni, a partire dal 1953, vari contributi, il più importante dei quali è, a mio avviso, il saggio Storia delle Rane di Aristofane, pubblicato nel 1961 presso l'Editrice Antenore di Padova: novantanove pagine, in cui Russo dimostra, sul fondamento di una rigorosa analisi del testo delle Rane, che la morte di Sofocle, avvenuta qualche tempo prima degli agoni lenaici del 405 (in cui furono rappresentate le Rane), indusse Aristofane, che non poteva ignorare quell'evento epocale (con la morte di Sofocle, il teatro ateniese perdeva l’ultimo dei tre grandi tragediografi della vecchia generazione), a riformare in tutta urgenza la commedia ormai pronta per la rappresentazione: una riforma che, per ragioni di tempo, fu eseguita con mezzi economici (l'esemplare analisi testuale condotta da Russo prova infatti che le riforme attive consistono in circa centocinquanta versi [71-85, 786b-95, 1257-60, 1411-1533])[8].

Copertina di 'I due teatri di Aristofane'

L'Aristofane autore di teatro rivela già nel titolo l’intento del suo autore di  sottoporre i testi delle undici commedie aristofanee conservate per intero a una puntuale analisi, al fine di riconoscere le proprietà e i meccanismi teatrali che ne regolano la drammaturgia. La conclusione cui Russo pervenne, e cioè che esse furono composte per essere rappresentate a teatro, ribaltava la 'ultramodernistica' visione di un'ampia circolazione libraria dei drammi attici, che, perentoriamente sostenuta, nel 1889, dal princeps philologorum Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, si era profondamente radicata sino allora tra gli studiosi del teatro greco[9].

Quanto importante sia stato il ruolo svolto dall'Aristofane autore di teatro nella comunità scientifica è provato dai numerosi contributi pubblicati negli ultimi decenni, in cui autorevoli studiosi (penso, in particolare, a Oliver Taplin, autore del fondamentale volume The Stagecraft of Aeschylus, Oxford 1977) hanno sottoposto i testi teatrali, tragici e comici, a una sempre più raffinata analisi dei loro aspetti scenici e drammaturgici, avendo preso piena consapevolezza critica che le commedie aristofanee, e, più in generale, i drammi greci del V-III secolo, in quanto composti in vista di una loro rappresentazione a teatro, sono, al pari di ogni pièce teatrale, antica e moderna, opere polisemiche, sono cioè opere in cui agiscono simultaneamente almeno due linguaggi (il verbale e lo scenico), che svolgono, pertanto, un ruolo di assoluto rilievo nella poetica di quei drammi.

 Nell'Aristofane autore di teatro, l'analisi drammaturgica dell'opera aristofanea, commedia per commedia, è preceduta da due capitoli, nei quali sono ripresentati, con qualche differenza, gli argomenti di due contributi che, come si è detto, erano stati pubblicati, rispettivamente, nei «Rendiconti dei Lincei» del 1956 e in «Belfagor» del 1959: (i) I due teatri di Aristofane, in cui, alla luce dell'esame delle proprietà teatrali dei drammi lenaici rispetto a quelle dei drammi dionisiaci, veniva avanzata la suggestiva ipotesi che, al tempo di Aristofane, le commedie di agone lenaico fossero rappresentate in un teatro improvvisato, con banchi di legno, nel Leneo, un ampio recinto che si trovava nell'Agorà ovvero alla periferia della città, nei pressi del fiume Ilisso[10]; (ii) Cronologia di un tirocinio, in cui veniva ricostruito il tirocinio di Aristofane, dall'esordio coi Banchettanti, rappresentati, a cura del didascalo Callistrato, nel 427 (verosimilmente alle Dionisie), a una commedia vittoriosa, rappresentata, a cura di un non meglio identificato didascalo, nel 425 (alle Dionisie).

 La straordinaria importanza dell'Aristofane autore di teatro (che, a mio avviso, e ritengo non solo a mio avviso, rappresenta tuttora, a più di cinquanta anni di distanza dalla sua pubblicazione, un ineludibile punto di riferimento per gli studiosi di drammaturgia aristofanea) fu riconosciuta, in una recensione pubblicata in «Classical Review» del 1965, dall'«Aristophanist par exellence»[11], Kenneth James Dover, il quale immediatamente, e con grande entusiasmo, espresse l'auspicio che il libro fosse tradotto per gli studenti inglesi: «It would be excedingly helpful to students to have an English translation of this lively and thoughtful book; no comparable study of Aristophanes' dramatic technique is available in English»[12]. E, grazie anche all'interessamento dell'«Aeschylean Oliver Taplin, who recently seconded the idea»[13], l'auspicio di Dover si è realizzato poco più di trent'anni dopo, nel 1994, quando è stato pubblicato l'Aristophanes. An Author for the Stage, che, rispetto alla seconda edizione italiana, contiene novità non marginali[14].

L’ultimo contributo aristofaneo di Russo, Le «Vespe» spaginate e un modulo di tetrametri 18 x 2, è stato pubblicato in «Belfagor» 23 (1968), pp. 317-324[15]: nel 1885, Thadeusz Zieliński aveva portato significativi argomenti in favore dell’ipotesi che, nel corso della tradizione, avesse avuto luogo uno scambio fra due unità testuali non contigue delle Vespe (i vv. 1265-1291 e 1450-1473)[16]; ma l’ipotesi del venticinquenne filologo polacco provocò, vari anni dopo, la perentoria obiezione di Wilamowitz: «Wie sollen denn zwei Chorpartien in der Überlieferung vertauscht sein?» («Come fanno due corali a scambiarsi di posto nel corso della tradizione?»)[17].

Alla 'scomunica' del princeps philologorum reagì, circa sessanta anni dopo, Russo, che, tornando a polemizzare con Wilamowitz per la fedeltà alla «sua concezione dei drammi ateniesi anche come libri pubblicati e annotati dagli autori dopo la rappresentazione per le esigenze del "publicum" dei lettori e degli stessi drammaturghi»[18], si richiamava alla lezione di metodo professata da Louis Havet e da Alphonse Dain[19], due studiosi «consci che una tradizione testuale ha anche una p r e i s t o r i a»[20], giungendo alla conclusione che «lo scambio sarà avvenuto quando gli elementi manoscritti delle Vespe, preparati e organizzati per la varia economia e istruzione scenica, furono copiati su un rotolo di papiro (in epoca e anche in cerchia aristofanea, naturalmente)»[21]. E, nel saggio del 1968, Russo portò nuove, cogenti argomentazioni a conforto della ipotesi, avanzata da Stephen Srebrny in «Eos» L (1959-1960), pp. 43-45, dell'inversione, nella parodo delle Vespe, di due unità sceniche (nei manoscritti bizantini i vv. 266-289 occupano il posto che spetta ai vv. 290-316); e, a partire dal dato che ciascuna delle due unità invertite conta diciotto tetrametri, per complessivi trentasei tetrametri, e che «anche le altre parodoi, ove il corifeo al suo primo apparire con il coro in teatro dialoga con un attore, si aprono con  t r e n t a s e i  tetrametri»[22], ha riconosciuto come elemento nobile della commedia aristofanea un modulo di 18 (ovvero di 18 x 2) tetrametri[23].

Nel 1950, quando vi giunse Russo, l'Università di Bari compiva il suo quinto lustro di vita (era stata fondata nel 1925, con solo poche Facoltà)[24]; ma solo nel febbraio del 1948, all'arrivo del decreto costitutivo della Facoltà con l'assegnazione di sette cattedre, fu istituita la Facoltà di Lettere e Filosofia[25]. Si comprende, dunque, perché, quando arrivò a Bari, Russo si sia trovato dinanzi a «una città senza libri e senza specifiche tradizioni», per cui la grande sfida che il giovane professore dovette affrontare fu quella «di portare a Bari e in Puglia un Istituto di Filologia classica che non fosse un semplice ritrovo per professori in attesa del treno»[26]: un processo di sprovincializzazione che Russo – il quale prima di allora aveva frequentato realtà dalle grandi tradizioni culturali e accademiche (la Normale di Pisa, l'Istituto di Filologia classica di Firenze, l'Institut für Altertumskunde der Universität Köln), nelle cui ricchissime biblioteche aveva studiato, a stretto, vitale contatto con due Maestri prestigiosi, Giorgio Pasquali e Günther Jachmann – affrontò avviando una illuminata politica di acquisti librari che, nel corso di questi decenni, ha consentito alla biblioteca del settore antichistico di divenire una delle biblioteche più ricche e apprezzate dalla comunità scientifica non solo nazionale[27]. È doveroso inoltre ricordare che al processo di 'sprovincializzazione' dell'antichistica barese contribuirono, insieme a Russo, Ettore Lepore e Luigi Moretti, «tre studiosi, al cui nome sono legati, a mio avviso, durevolmente la nostra crescita, in quegli anni decisivi, e il nostro decollo. Tre studiosi che hanno qui per anni insegnato a studiare; che hanno offerto, qui, moderni modelli di indagine, che hanno squadernato davanti a generazioni di studenti problematiche avanzate e criticamente praticate»[28]. E, in particolare, Russo insegnava a studiare lento, ad approfondire le proprie indagini, senza lasciarsi sedurre dal desiderio di sbrigarle frettolosamente: è significativo, credo, che lo scritto nel quale sono presenti, in maggior misura, suoi ricordi autobiografici[29], si concluda con la citazione del seguente pensiero, tratto dalla prefazione di Aurora di Friedrich Nietzsche:

 Filologia … è quella onorevole arte che esige dal suo cultore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge mai nulla se non lo raggiunge lento.

Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del ‘lavoro’, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol sbrigare immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati[30].

A quel processo di sprovincializzazione Russo contribuì, dunque, anche sotto l'aspetto didattico: in particolare nei seminari che erano a fondamento dei suoi corsi di Filologia classica Russo coinvolgeva gli studenti, facendo conoscere loro i fondamentali strumenti di studio della filologia greco-latina e rendendoli protagonisti del fecondo dialogo scientifico che con loro istituiva 'alla pari', e che rappresentava un'assoluta novità rispetto alle lezioni 'cattedratiche' che di norma erano tenute da docenti anche di grande valore negli altri insegnamenti della Facoltà: sembra a me evidente che modello dei seminari di Filologia classica erano i seminari pasqualiani di Pisa e Firenze, non a caso ricordati nella dedica premessa, come si è detto, all'Apocolocyntosis di Seneca. E, in un'epoca in cui si parlava poco o punto di internazionalizzazione, Russo ebbe la felice intuizione di invitare prestigiosi studiosi stranieri a tenere seminari per i corsi di Filologia classica. Primo fra tutti, Eduard Fraenkel; e fu così che, negli anni 1966, 1967 e 1969, «il Boreale» fu «felice di trovarsi nella città crociana-laterziana»: «Il maestro di scuola nato, il burbero benefico, arrivava da Oxford in primavera e si fermava dalle due alle quattro settimane: ogni volta, per quattro anni, ci esercitava per quindici-ventidue ore: ci parlava in piedi, camminando fra i tavoli della sala di una biblioteca che apprezzò e studiò negli anni: la vista era su una piazza umbertina dalle belle palme»[31]. E negli anni successivi, fedele alla scelta di privilegiare gli inviti di prestigiosi studiosi stranieri, Russo invitò Nigel Wilson e, in seguito, giunsero a Bari, sempre su invito di Russo, Bertrand Hemmerdinger, Walter Marg, Hans-Joachim Newiger, Piero Pucci ma anche – unica eccezione – Luigi Enrico Rossi.

Nel febbraio del 1998, la Facoltà di Lettere e Filosofia celebrò con il Convegno Cinquant'anni di ricerca e di didattica il cinquantenario della sua istituzione. Una delle sedute fu presieduta da Russo, che pochi mesi prima era stato nominato professore emerito (era andato in pensione il 31 ottobre del 1997, dopo quarantasette anni di insegnamento), e che chiuse la presidenza di quella sessione con queste parole: «In questa Facoltà ho avuto una certa formazione. Oggi la Facoltà è fiorente, è stimata, è ricca di libri filologici apprezzati ovunque, è ricca di ricercatori e di docenti di rango, e anche spiritosi. E perciò voglio concludere dicendo che questa Facoltà è stata per me un dono inaspettato della vita»[32].

Certo di interpretare il pensiero delle tante generazioni di studenti che, nel corso di più di quattro decenni, hanno seguito le sue lezioni e si sono laureati con lui, posso dire che in realtà è stato lui il dono inaspettato delle nostre vite.

Una versione più ampia e con un ricco apparato bibliografico di questo contributo è apparsa in Giuseppe Mastromarco - Piero Totaro - Bernhard Zimmermann (a cura di), La commedia attica antica. Forme e contenuti, Lecce, Pensa Multimedia, 2017, pp. 11-24. Ringraziamo l’autore per aver amichevolmente concesso la ripubblicazione su questo blog).  Un video dal convegno in ricordo di Carlo Ferdinando Russo qui. Da quella giornata nasce il libro Ricordo di Carlo Ferdinando Russo a cura di Raffaele Ruggiero e Piero Totaro, 2017, apparso presso lo stesso editore di “Belfagor”.   

Immagini: in copertina la 'Coppa di Nestore', scoperta ad Ischia nel 1955, della cui famosa iscrizione Carlo Ferdinando Russo fu il primo editore. La quinta immagine è una dedica autografa di Russo a me, sull'edizione 'Belles Lettres' di Aristofane, qui ritenuta significativa perché vuole dire che l'arte scenica della tragedia e della commedia, nella Grecia del V secolo a.C., seguivano gli stessi meccanismi; la seconda dedica è apposta alla Storia delle 'Rane' di Aristofane, la firma allude al coro della commedia di Aristofane ed era destinata ad una studentessa alla quale si voleva dire che la critica testuale, se non serve a comprendere i macrofenomeni drammaturgici o letterari, è un esercizio 'per i cretini', come diceva, esagerando e citando (pare) Pierre Chantraine. Quindi due immagini di Bari anni '50, un ritratto di Russo e una foto di Henze e Ingeborg Bachmann ai tempi di Ischia. Mi sono laureata con Carlo Ferdinando Russo nel lontano giugno 1986 e ho lavorato intensamente con lui ogni giorno dal marzo 1985, ancor prima della laurea, al novembre 1989, quando ci hanno separato motivazioni assai diverse che il disaccordo sugli argomenti di studio e lavoro, su cui pure discutevamo talora senza sosta (Russo aveva lasciato allora Aristofane e si occupava principalmente di Omero). Citava sempre il Corvo di Pier Paolo Pasolini in 'Uccellacci e uccellini', che usa parole di Giorgio Pasquali: 'I maestri vanno mangiati in salsa piccante'; e tuttavia, tra noi, non è stato questo il caso, perché in ogni momento ho tenuto sempre conto della sua libertà di pensiero, della capacità di spaziare da un campo del sapere a un altro, della sua vastità di letture, della sua ironia sui saperi tradizionali e accademici, del sarcasmo sulla erudizione ammuffita, della scrittura, riscrittura e limatura continua anche solo di una nota editoriale. Ho capito molto, troppo tempo dopo che sulle cause del nostro dividerci lui, come un padre quando avverte un figlio adolescente, non aveva torto. (S.F.)

Appendice (a cura di S.F.)

   Dall’ autobiografia di Karl Werner Henze (1926-2012), Reiselieder mit böhmischen Quinten Autobiographische Mitteilungen 1926–1995, Frankfurt , traduzione italiana Canti di viaggio. Una vita, Milano, il Saggiatore, 2016 qui lievemente rivista. Margherita Utescher e ‘Lallo’ tornano anche nell’epistolario del compositore con Ingeborg Bachmann. La prima, conosciuta in Germania mentre era assistente a Colonia, fu pittrice, scenografa e anche traduttrice (di Curzio Malaparte, vd. qui), amica dello scrittore e poeta Wolfgang Hildesheimer (1916-1991).

   Qui notizie sull’opera Boulevard Solitude,  dal sito ufficiale del compositore, ove è correttamente riportato il nome del traduttore. I ricordi di Henze si riferiscono all’inverno del 1954.

Nuove conoscenze a Forio d’Ischia: la pittrice Margarete Utescher, una voluttuosa bellezza di Monaco, e suo marito, il filologo classico Ferdinando Russo. Con grande serietà e molta autocritica lei dipingeva motivi dell’isola su grandi tele dalla fattura ruvida, fino a quando le immagini non raggiungevano quel carattere duro e minaccioso da lei ambito. Russo era succeduto al padre come curatore della rivista letteraria “Belfagor”, ancora oggi molto importante, che viene pubblicata a Bari. È un uomo dalla lingua tagliente, tendente all’ironico e al sarcastico, di grande vivacità e spirito. Era la prima volta che sentivo un italiano così raffinato come il suo. Scintillava, scoppiettava e gracchiava. Talvolta i Russo avevano visite, come quelle dello storico d’arte Cesare Brandi oppure di Natalia Ginzburg con suo marito, Baldini, anglista e traduttore di Shakespeare. A quel tempo Forio era già diventata una colonia d’artisti, il silenzio della terra deserta non c’era più…

L’inverno a Ischia era umido e freddo, ma non mi importava. Quando non trascorrevo la serata dai Walton, andavo a trovare Margherita e Lallo. Quest’ultimo stava lavorando a una nuova tradizione in italiano di Boulevard Solitude (in previsione di una sua nuova produzione al Teatro San Carlo a Napoli) e così stavamo insieme per ore e ore, la testa accaldata, battevamo i ritmi, declamavamo, canticchiavamo a bocca chiusa, canterellavamo a voce bassa. In questo modo imparai a comprendere e a parlare meglio l’italiano rispetto a prima. Lallo fu anche il primo comunista che conobbi e che mi parlò degli intenti umanitari della concezione marxista nell’interpretazione di Antonio Gramsci. Così, durante quell’inverno, ebbi una volta una serata di sinistra e un’altra una serata liberale, una volta una progressista ed un’altra conservatrice. Ascoltavo, prestavo attenzione, soppesavo i pro e i contro. Talora però rimanevo completamente solo, un po’ troppo solo…

 

[1] Era nato il 15 maggio 1922 a Napoli, dove il padre, Luigi, siciliano di Delia, insegnava Italiano e Latino al Collegio militare della Nunziatella. [Luigi Russo (1892-1961) è il celebre italianista e critico letterario]

[2] F. Tateo [a cura di], Cinquant'anni di ricerca e didattica. Atti del convegno in occasione dei cinquant’anni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari, 25-27 febbraio 1998, Bari 1999, p. 160.

[3] Aristofane. Gli Acarnesi. Traduzione Saggio Critico Note Testuali a cura di Carlo F. Russo, Bari 1953; nello stesso anno il Saggio Critico fu pubblicato, con il titolo Aristofane e «Gli Acarnesi», in «Belfagor»  8 (1953), pp. 539-552.

[4] A Ischia, l'antica Pitecusa, aveva abitato prima di prendere casa a Roma, in via Dandolo, da dove, alla fine degli anni Sessanta, si trasferì definitivamente a Bari, in via Cognetti, civico 37; e a Ischia aveva conosciuto una giovane pittrice statunitense, Adele Plotkin, che diventerà sua moglie: il loro strettissimo legame (a lei, «alla mia Ecamede bei riccioli d'oltreoceano», dedicherà la seconda edizione italiana dell'Aristofane autore di teatro) sarà spezzato solo dalla morte di lei, avvenuta il 2 giugno 2013, poche settimane prima di quella di lui (26 luglio).

[5] C.F. Russo, Un sorriso belfagoriano, «Belfagor» 59 (2004), p. 676.

[6] I cinque volumi furono pubblicati per la casa editrice londinese Sidgwick and Jakson tra il 1927 e il 1947 (uno di quei volumi, Introduzione all'Amleto, è stato tradotto in italiano, con prefazione di L. Squarzina, da G. Brunacci per Laterza nel 1959).

[7] C.F. Russo, Sigle stile sesso da Gutenberg al talamo dell'alfabeto, in Il dialogo. Scambi e passaggi della parola, Palermo 1985, pp. 25-26; e si veda Russo, Aristophanes. An Author for the Stage, London 1994, p. XI.

[8] La storia editoriale delle Rane fu l'argomento principale del corso che Russo tenne nell'a.a. 1966-67: era il mio primo corso di Letteratura greca, e dell’influenza che quelle lezioni esercitarono su di me è testimone il volume Storia di una commedia di Atene che pubblicai nel 1974 presso La Nuova Italia Editrice, con una Nota prefatoria di Russo.

[9] La tesi wilamowitziana è esposta nel terzo dei quattro capitoli della Einleitung in die attische Tragödie che formano il primo volume della monumentale edizione commentata dell’Eracle euripideo che il grande filologo tedesco pubblicò nel 1899 per l’editore berlinese Weidmann.

[10] L'ipotesi di un teatro lenaico distinto da quello dionisiaco è stata confutata da C.W. Dearden, The Stage of Aristophanes, London 1976, pp. 5-8; e lo stesso Russo, in uno dei nostri ultimi colloqui, mi disse che ormai nutriva più di un dubbio circa la validità della sua teoria dei due teatri.

[11] Così Russo, Aristophanes, cit., p. XIII.

[12] «Classical Review» 15 (1965), p. 29.

[13] Russo, Aristophanes, cit., p. XIII.

[14] Su cui vedi Olimpia Imperio, «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica» 123 (1995), pp. 382-383.

[15] Il saggio, aggiornato nel 1984 nella seconda edizione dell'Aristofane autore di teatro, alle pp. 381-391, era stato pubblicato, con un Nachtrag 1971, nella traduzione tedesca di Frank Regen, Die «Wespen» 'im Umbruch' und ein Modul von 18 x 2 Tetrametern, alle pp. 212-224 del volume Aristophanes und die alte Komödie (Darmstadt 1975), in cui Hans-Joachim Newiger ha edito fondamentali saggi aristofanei pubblicati tra il 1908 e il 1973.

[16] Cf. Die Gliederung der altattischen Komoedie, Leipzig 1885, p. 203.

[17] Über die Wespen des Aristophanes, «Sitzungsberichte der königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften» 1911, p. 480 (= Kleine Schriften, Berlin 1935, I, p. 308).

[18] Russo, «Vespe» spaginate, cit., p. 317  (cf. Russo, Aristofane cit., pp. 381-382).

[19] Rispettivamente in Manuel de critique verbale appliquée aux textes latins, Paris 1911, e in Les manuscrits, Paris 19642.

[20] Russo, «Vespe» spaginate, cit., p. 318 (cf. Russo, Aristofane cit., p. 383); e, nel novembre del 1969, nella nota introduttiva, ristampata nella seconda edizione ampliata (Firenze 1983, da cui cito), a H. Fränkel, Testo critico e critica del testo, a cura di C.F. Russo; traduzione di L. Canfora, tornava a ribadire la necessità, per il critico testuale, di non restare indifferente circa la «preistoria della tradizione conservata, anche se spesso di natura puramente speculativa» (p. XI).

[21] Russo, «Vespe» spaginate, cit., p. 318 (cf. Russo, Aristofane cit., p. 383). Quanto importante sia stato per Russo il ruolo esercitato dalla filologia francese, e in specie da Dain, a proposito della sua ricostruzione della storia del testo aristofaneo ha messo in evidenza L. Canfora in «Gnomon» 86 (2014), pp. 380-383.

[22] Russo, «Vespe» spaginate, cit., p. 321 (cf. Russo, Aristofane cit., p. 386); si tratta dei vv. 301-336 della Pace, 354-371 delle Rane e 235-389 del Pluto.

[23] Al riconoscimento del modulo ha dato il suo autorevole avallo Th. Gelzer, Aristophanes der Komiker, in RE, Supplementband XII, Stuttgart 1970, coll. 1518.67-1519.9.

[24] Alla inaugurazione intervenne Benito Mussolini, al quale l'Università di Bari fu intitolata; e, incredibilmente, il nome del dittatore è stato ufficialmente legato a quello dell'Ateneo barese sino al 2008, allorché, per iniziativa del Rettore, il filologo classico Corrado Petrocelli, è stata intitolata ad Aldo Moro, l'uomo politico pugliese che, dopo essere stato studente nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, vi insegnò, dal 1948 al 1963, come ordinario di 'Diritto penale'.

[25] In realtà, già nel marzo del 1944 – in ottemperanza al decreto emanato dal governo Badoglio, in base al quale gli studenti iscritti presso Università che, in quel tragico periodo, non era possibile raggiungere potevano sostenere gli esami in altre sedi universitarie – erano stati istituiti, come corsi 'aggiunti' alla Facoltà di Giurisprudenza (presso la quale si era all’epoca iscritto il tenente dell’esercito italiano Carlo Azeglio Ciampi, giunto a Bari reduce dalla campagna di guerra in Grecia), corsi di Lettere e Filosofia, tenuti per incarico da professori del locale Liceo classico «Orazio Flacco», ai quali si aggiunsero, un po' alla volta, professori incaricati provenienti da altre Università.

[26] L. Canfora, Filologia classica, in Tateo, Cinquant'anni, cit., p. 91. E, per quanto riguarda più in generale la Puglia, è stato messo in rilievo come, in quel contesto storico, «si dovesse riconoscere al bacino regionale, sul piano della cultura, la ben nota condizione tributaria verso il centro napoletano, che non si potessero individuare se non isolati fenomeni di rilievo a carattere nazionale, quali la Società di storia patria e il Centro archeologico di Taranto, e che l'operosità di singoli studiosi operanti nella regione, come la presenza di una prestigiosa casa editrice attiva più fuori che all'interno della regione stessa, apparisse inadeguata a costituire quel tessuto connettivo generale e diffuso che fa il vero livello culturale di una regione» (Tateo, Prefazione, cit., p. VIII).

[27] Va detto che la politica di acquisti librari poté giovarsi degli straordinari sostegni economici di cui l'Università di Bari beneficiò tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, in un periodo in cui Aldo Moro fu Ministro della Pubblica Istruzione (dal maggio 1957 al febbraio 1959) e Presidente del Consiglio dei Ministri (tra il 1963 e il 1968 e dal 1974 al 1976).

[28] Canfora, Filologia classica, cit., p. 92. Dei tre studiosi, l'unico a 'radicarsi' a Bari, la città che, al suo arrivo, nel 1950, gli era sembrata «così graziosa» (in Tateo, Cinquant'anni, cit., p. 160), fu Russo che, come si è detto, vi prese casa alla fine degli anni Sessanta, e in quella casa, che gli era tanto cara anche per la sua vicinanza al lungomare, su cui amava fare lunghe passeggiate, è vissuto per il resto dei suoi giorni.

[29] Mi riferisco all'articolo (il cui titolo gli fu suggerito dalla denominazione che della Bari degli anni Cinquanta aveva dato Buchner) Göttingen in Apulien, «Belfagor» 58 (2003), pp. 610-614.

[30] Cf. Russo, Göttingen, cit., p. 614; la traduzione dal tedesco è di F. Masini; questo pensiero, espresso da Nietzsche in un’opera (Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali) scritta tra il 1879 e il 1881 (ma la Prefazione è dell’autunno 1886), a me pare sorprendentemente attuale.

[31] Russo, Göttingen, cit., p. 610.  I corsi seminariali 1966, 1967 e 1969 furono pubblicati, a cura di Renata Roncali, nel volume E. Fraenkel, Pindaro, Sofocle, Terenzio, Catullo, Petronio, Roma 1994, in cui non erano però compresi i seminari sugli Uccelli di Aristofane e sullo Pseudolo di Plauto tenuti da Fraenkel nel suo primo anno barese, dal 22 aprile al 10 maggio 1965: perciò, nel 2007, è seguita la dianzi ricordata Edizione accresciuta con Aristofane e Plauto.

[32] In Tateo, Cinquant'anni, cit., p. 160.