Dario Del Corno (1933-2010) e Umberto Albini (1923-2011) hanno affiancato alla ricerca universitaria passioni culturali forti e diverse, con una perenne attenzione alla contemporaneità, alle istanze del presente, instaurando, anche in virtù di questa attitudine, un equilibrato dialogo con le culture antiche.
Forse proprio perché hanno privilegiato il teatro, che in ogni momento storico propone, anche fisicamente e non solo attraverso la parola, questioni, urgenze, passioni della contemporaneità, il loro procedere è stato accompagnato dalla consapevolezza della nostra ineliminabile distanza dal mondo antico e del rischio dell’attualizzazione facile nell’attività esegetica.
Prima di distinguerne i profili, vorrei aggiungere, nell’ambito dei tratti che li accomunano, le particolari doti di creatività, che, a partire dal taglio mai banale delle loro ricerche, li hanno resi noti in un panorama culturale che trascende l’accademia.
Penso per esempio agli interessi musicali di Dario Del Corno e alla composizione di Outis, il libretto per l’opera di Berio che debuttò alla Scala il 2 ottobre 1996. Con Ulisse che Berio chiamava «il meraviglioso bugiardo che abita dentro di noi», il compositore approdava nel suo lungo viaggio dentro la musica, al mito.
Chi poteva essergli miglior collaboratore di un grecista che, capace di distaccarsi dalle unità aristoteliche di spazio, tempo e azione e di dar loro autonomia, mise insieme, in virtù di conoscenze letterarie a tutto tondo, un testo di citazioni da Omero a Paul Celan, perché la logica narrativa cedesse il passo alla musica, com’era forse successo sulla scena ateniese di fine V secolo quando i ditirambografi avevano negato alla parola un primato fino a quel momento indiscutibile?
In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera il 16 giugno dello stesso anno Luciano Berio diceva: «il teatro è una divinità di fronte alla quale ci sentiamo ardentemente inadeguati, ma senza il dialogo costante tra ricerca e creatività, la vita teatrale non esiste». E in perfetta armonia Del Corno aggiungeva: «Ulisse, da "Nessuno", diventa tutti noi».
Analoga creatività sul versante letterario espresse Umberto Albini, che si dedicò con libertà dai vincoli accademici alla letteratura ungherese, ottenendo in realtà una laurea honoris causa dall'Università di Budapest e una medaglia d’oro per la cultura sia dal governo ungherese che da quello italiano. È stato una volta ancora il teatro il motore di questa passione, a partire dalle opere di Miklòs Hubay, di cui Umberto Albini fece conoscere, ad esempio, ai lettori italiani un dramma attualissimo come Freud ultimo sogno.
La figura dello psicoanalista, un personaggio multiplo, di cui Albini traduce con grande efficacia un monologo di importanza centrale, appare molto vicina a quella di un drammaturgo, una figura dubbiosa senza veri rimedi, in cui è possibile intravedere una sorta di Edipo condotto da Antigone sul luogo della propria morte.
E potrei continuare a parlare di stravaganze, di percorsi interdisciplinari suggeriti anche dalle esperienze internazionali dei due studiosi, dai soggiorni fuori dall’Italia che li hanno resi noti all’estero, a partire dalle università tedesche. Umberto Albini ha insegnato a Colonia e a Bonn. Alla Germania ci riporta parimenti l’interesse di Dario Del Corno per la letteratura tedesca. Basti citare l’antologia dedicata a von Arnim e Brentano (1985)[1], relativa alla raccolta di canti anche “di tradizione orale”.
Una raccolta, il Wunderhorn o Corno magico, in cui i due poeti non esitarono ad intervenire sui canti altrimenti attestati, rifiutando il rigore dei compilatori moderni, solo interessati a ridestare una tradizione vitale e a parteciparne[2]. Ma l’interesse di Del Corno nasceva anche dalla «posterità musicale» del Wunderhorn – come egli scriveva –, «che per il pubblico di lingua tedesca rischia di rappresentare la principale notorietà dell’opera» (p. 21). Si riferiva evidentemente ai Lieder aus ‘Des Knaben Wunderhorn’ di Mahler, di cui due utilizzati anche nelle sinfonie Seconda e Terza. Dunque un richiamo ad esperienze culturali più vicine a noi, ma ancorate anche in questo caso al teatro musicale.
Umberto Albini è stato Presidente dell’INDA (Istituto Nazionale del Dramma Antico) dopo la morte di Giusto Monaco (1915-1994).
Fu chiamato a questo incarico per il suo prestigio, i suoi studi e per quell’interesse per la prassi del teatro antico e moderno, di cui soltanto ci occuperemo in queste pagine, tralasciando tutta la sua altra attività di studioso e di professore. Da filologo egli non si limitò a lavorare sui testi, ma volle chiarire ambiziosamente – secondo la dichiarazione di apertura del volume Nel nome di Dionìso ( Vita teatrale nell’Atene classica, Milano, Garzanti 1991) – come «la scrittura dei grandi tragici e comici» si fosse «tradotta (allora come oggi) in concreto e visibile spettacolo e come a loro volta gli elementi del fare e del recitare teatro» avessero «inciso sulla trama delle parole». È stato tra i precursori in Italia di un approccio al teatro come arte viva, oggetto non solo di riflessione a tavolino, ma anche di sperimentazione attraverso le traduzioni per la scena.
Ricordo – per inciso – che ha curato (collaborando ininterrottamente con la casa editrice Garzanti) edizioni con traduzione di tutte le tragedie e di svariate commedie classiche. Scriveva nella premessa al volume su Aristofane (si tratta in questo caso di Riso alla greca: Aristofane o la fabbrica del comico, Milano, Garzanti, 1997, 8): «l’autore di questo volume sa che esistono svariate buone traduzioni moderne di Aristofane in italiano: per ragioni di omogeneità, però, ha fatto ricorso a proprie versioni per i brani citati nel corso del saggio».
Mostrava, non senza un briciolo di ironia, quella passione per l’indagine e lo scavo sul testo che impedisce al ricercatore vero di accontentarsi dell’esegesi di un altro. Ha voluto, quindi, dare voce ai molti personaggi del teatro antico, obbligandosi ad un serrato dialogo con ognuno di essi. Ha affrontato questo teatro nella sua complessità senza separare i generi, calandosi in quella realtà culturale e storica che li aveva visti convivere e che solo lo studioso moderno tende qualche volta a isolare per via di un presunto specialismo, di una vocazione al tecnicismo che i nuovi mezzi dell’informatica facilitano a danno di una più ampia visione d’insieme.
A buon diritto si può dire che Umberto Albini si collocava sulla linea esegetica di quegli esimi filologi come Eduard Fraenkel (1888-1970), il quale commentando il testo dell’Agamennone di Eschilo, sentiva l’esigenza di precisarne la natura di play e non di poem. Ma l’impressione è che sia stato soprattutto l’amore per il teatro prima che la vocazione filologica ad avvicinarlo ai testi come ad altrettante partiture da immaginare nella realizzazione scenica del passato e contestualmente da leggere nell’ottica del presente.
L’interesse precipuo per i testi teatrali è stato per Albini quello dell’evento scenico, perché in esso (cito di nuovo) «convergevano le sollecitazioni di più varia natura, politica, sociale, religiosa, culturale». Le linee portanti dell’esaustivo manuale Nel nome di Dioniso venivano illustrate in copertina da un ulteriore sottotitolo utile a chiarire metodologicamente un possibile percorso di analisi dal testo al contesto. Recita infatti il secondo sottotitolo: Il testo, l’attore, l’apparato scenico, la recitazione, il pubblico. Il grande teatro classico rivisitato con occhio contemporaneo. In realtà in modo efficace, e per sottolineare l’unica vera fruizione possibile del testo teatrale, e cioè quella dello spettacolo, il volume si articola in una prima parte dedicata alla opsis e alla melopoiia per dirla con Aristotele, cioè a quel che vedeva e sentiva il pubblico attraverso la recitazione degli attori, la monodia, il canto del coro, la macchina teatrale, nel contesto dei festival annuali.
Solo nella seconda parte si ha l’avvicinamento ai drammaturghi e ai loro testi: la lettura di tragedie e commedie lascia trasparire l’esperienza di chi ha sondato ogni aspetto della drammaturgia antica, a partire dall’operazione del poeta sulla storia mitica, da cui il tema prescelto veniva «immerso nella cultura in movimento, oggetto di dibattito e non di mero riscontro». L’andamento della carrellata che affianca alla tragedia il dramma satiresco (anche frammentario come i Theoroi di Eschilo), e naturalmente la commedia nelle sue svariate forme, è tutt’altro che un andamento cursorio. Alcune incisive definizioni mostrano uno studioso che è arrivato al cuore delle operazioni drammaturgiche antiche, che non ha fatto esperienza solo dei grandi autori, ma che ha cercato di ricostruire un intero contesto culturale attraverso la riflessione sui frammenti, sulle testimonianze degli oratori, sui bioi come la Vita di Eschilo premessa alle tragedie nel Codice Laurenziano.
Stratone è affiancato a Menandro, ma Menandro rinvia a Plauto e a Terenzio. La visione del teatro antico è approfondita e si nutre di continue distinzioni, verticalmente. Ma è anche contestualmente ampia, secondo un percorso orizzontale che non separa le due culture classiche ma le accomuna in una visione complessiva, non senza riferimenti alla ricezione moderna.
La citazione dell’Orestea (p. 196), ad esempio, conduce immediatamente alle rivisitazioni e dunque alla ricezione moderna: Ronconi (Spoleto 1971) che enfatizza il percorso del protagonista Oreste; Peter Stein (Ostia 1981) che mette in scena dèi (cito) «da operetta mitologica, eleganti e lontani, le Erinni come grotteschi mostri da fantascienza» o la fondamentale lettura di Peter Hall del 1981 (Londra), che obbedendo all’ideologia femminista mostrava la lotta dei sessi a partire da un Apollo maschilista, persecutore di Cassandra, e così via.
Uno sguardo all’indice dei nomi e le incursioni orizzontali e verticali cui accennavo si esplicitano attraverso una selva di riferimenti: da Agatone, per il quale ci si interroga sulle possibili fattezze della sua maschera nelle Tesmoforiazuse, a Shakespeare dell’Enrico V; da Demostene, fonte privilegiata per aspetti quali l’abolizione del theoricon, al burattinaio Potino, citato da Ateneo (19e), dagli attori greci e latini a Vittorio Gassman ed Emanuele Luzzati, dallo studioso di musica antica Giovanni Comotti, al regista Mario Martone. E potrei continuare.
C’è in questo manuale la ricostruzione cólta di un affresco dai mille particolari da un lato, e dall’altro il profilarsi di una tradizione in cui convergono le prime teorizzazioni a iniziare dalla Poetica aristotelica, le selezioni, la ricezione e, a partire dal mondo latino, una tradizione di cui si rintracciano o si citano le tappe fondamentali: Corneille, Molière, Alfieri fino ai pensatori moderni che al teatro antico hanno guardato con vivo interesse a partire da Freud.
Il titolo Nel nome di Dioniso non poteva non essere frutto anche di quella stagione culturale – il volume è del 1991 –, di quei trent’anni fecondissimi del '900 in cui la sperimentazione teatrale toccò le punte più alte nella ricerca di nuovi linguaggi e soluzioni, offrendo esempi di grande, e non sempre apprezzata, creatività. Umberto Albini ha avuto la fortuna di viverla quella stagione e di parteciparvi attivamente, uomo del suo tempo, aperto alla novità, curioso del particolare, attento, come abbiamo detto, anche al frammento.
Nel volume del 1987 Viaggio nel teatro classico (Firenze, Le Monnier) Albini dedicava infatti un capitolo a Le commedie di Epicarmo, pp. 130-45, mostrando grande attenzione alle peculiarità retoriche e linguistiche, ai divertimenti cacofonici, agli «equilibrismi vocalici», grato ad Ateneo e – cito – «alla sua gioia lessicale». Leggeva questi relitti scampati al naufragio, traducendoli brillantemente, inscenandoli mentalmente, sentendone la variegata musicalità, «la mimesi linguistica», non senza riflettere sul contesto culturale, generatore di questa «comicità spiritosa e riflessiva» di un «uomo coltissimo»: la Sicilia questa volta e non Atene.
Vorrei poter citare, tuttavia, almeno molte delle felici riflessioni sulla drammaturgia questa volta del grande Ateniese a cui è dedicato Riso alla greca. Aristofane o la fabbrica del comico (Milano, Garzanti, 1997). Ne sono oggetto a partire dagli aspetti farseschi (vedi le frequenti percosse), lo zoomorfismo dei cori, la definizione del grottesco, l’individuazione dell’autoironia, l’analisi del variegato lessico e delle strutture, come ad esempio la relazione tra prologhi e finali (cito «la grande partitura termina con il colpo di piatti o di gong […] particolarmente indicati per concludere si rivelano il banchetto o la danza»). Frequente – mi sembra importante evidenziarlo – è il ricorso alle metafore musicali, che incisivamente rinviano al ritmo dello spettacolo. Albini definirà, «cupa ouverture» l’a solo di Atreo nel Tieste di Seneca (Viaggio nel teatro classico, p. 159). Ma voglio aggiungere un ultimo tratto nel disegnare lo schizzo di questo studioso. L’attenzione di A., come per chiudere un cerchio, alla danza e alla pantomima e dunque a testi quali il Simposio di Senofonte, il De saltatione di Luciano, e infine – e cito qui la raccolta di saggi del 1998 – all’Apologia dei mimi di Coricio di Gaza[3]. Siamo così arrivati al primo ventennio del VI sec.
Del Corno era più giovane di dieci anni di Umberto Albini, ci ha lasciato prima, ma non inferiore per numero, qualità, originalità di contributi, è l’eredità scientifica di cui possiamo godere.
La sua ricerca sui testi del teatro antico non ha privilegiato un genere: gli studi aristofanei hanno implicitamente comportato l’attenzione alla tragedia, e se questa intensa ricerca ha privilegiato la cultura greca, le era sottesa per ampiezza di orizzonti e solida cultura, una naturale attenzione ai poeti latini (Plauto in primis, ma anche Terenzio[4] e Seneca). Del Corno si chiedeva ad esempio a proposito di un frammento della nea, un adespoton papiraceo dell’Università di Strasburgo (P. Argent. 53, edito nel 1899, della fine del I o II sec. d.C.), se fosse possibile «confutare il dogma della storiografia letteraria che assegna alla commedia latina l’esclusiva del prologo polemico». Cito da un lavoro del 1999, scritto in memoria del maestro Raffaele Cantarella, Come si deve fare una commedia. Programmi e polemiche nel teatro ateniese[5].
Con visione ampia, sorretta da acribia filologica e da un metodo rigoroso, rispondeva come, sul fondamento dei testi menandrei scoperti successivamente, si dovesse separare drasticamente questo prologo anonimo da quelli di ambito latino, per propendere piuttosto per una varietà compositiva dei prologhi della nea, non necessariamente rispondenti ad un unico modello. Sono partita dagli studi menandrei coltivati a partire dagli anni ’60 (del ’66 è l’edizione delle commedie di Menandro) non solo per rispettare un ordine cronologico, ma per ricordarne l’importanza, ed evidenziare le qualità di papirologo e di filologo di uno studioso che, dedicatosi successivamente (a partire dagli anni '80) anche ad Aristofane, ha saputo trovare il registro linguistico adatto a personaggi comici così diversi: dalla donna di Samo a Prassagora; da Moschione a Pisetero; dal Dyscolos al Dioniso delle Rane.
La traduzione del libro di Bruno Snell, Eschilo e l’azione drammatica (Milano, Lampugnani Nigri, 1969), aveva inaugurato l’approccio alla tragedia. E non è un caso che alle Rane aristofanee sia stata dedicata non solo l’edizione con commento della Fondazione Valla (1985), ma numerosi interventi nel corso degli anni. Questa commedia, infatti, non poteva non evocare agli occhi dello studioso la coesistenza e l’antinomia dei generi teatrali in un teatro eminentemente politico perché istituzionale e paideutico.
Scriveva Del Corno nella magistrale introduzione (p. XVI): «la commedia doveva far ridere e d’altra parte al momento non si addicevano che lacrime. Nella gara fra Eschilo ed Euripide (in realtà nel testo “i due poeti”) Aristofane inventò la risposta mirabile a tale antinomia (i.e. di commedia e tragedia). La tragedia era la voce di Atene e il suo estinguersi era sintomo della crisi che in ogni aspetto pervadeva la città: ma la gara poetica era un espediente comico di sicura efficacia. Nell’assurdo della scena essa esprimeva, quasi in un illusionistico gioco di specchi, la realtà profonda degli stessi concorsi drammatici, di cui la commedia era parte».
Due libri oggi ci danno conto della attenzione costante di Del Corno al dialogo tra i due generi. Da un lato I narcisi di Colono. Drammaturgia del mito nella tragedia greca (Milano, Cortina Ed., 1998), il cui taglio, intenzionalmente di alta divulgazione, si basa sulla premessa che il testo di una tragedia, se letto e non rappresentato, «risulta mutilo – cito – della dimensione a cui esso era in origine destinato», e sulla non meno importante considerazione che «la tematica, la tecnica drammaturgica, il pensiero dei tragici greci si collegano a modelli sprofondati nel tempo noti agli studiosi di antichità classica, ma non condivisi dalla conoscenza dei profani, di «coloro che stanno davanti al tempio» – chiosa Del Corno –, esclusi dal suo mistero e però degni di condividerlo per l’autenticità del loro desiderio. A partire dai Sette a Tebe di Eschilo, il dramma pieno di Ares citato nelle Rane, e dal paradosso di Eteocle, il volume si articola in una serie di saggi sulla drammaturgia sofoclea che evidenziano l’estrema rilevanza del coro e l’ambiguità dei personaggi: viene indagata la tragicità di Creonte a fronte del punto di vista di Antigone; l’enigma del bosco di Colono e l’Atene da salvare e così via. Le Rane rimangono un costante punto di riferimento. Segue poi lo sguardo sull’innovatore Euripide, il cui «coraggio intellettuale – cito – si addentra nel paradosso con una coerenza vertiginosa, perché solo a questo prezzo la tragedia, al punto in cui è giunta, può esprimere un messaggio tra gli uomini»: sono proposti i casi dell’Eracle, il cui protagonista è modernamente accostato al personaggio pirandelliano in cerca di autore e di Alcesti, la donna silenziosa che ritorna dalla morte, due tragedie complesse di cui viene proposta la lettura dei passi cruciali dell’Esodo.
Il secondo libro di Scritti sul teatro greco dal titolo Euripidaristofanizein (Napoli, D’Auria, 2005), a cura degli allievi F. Conca, G. Lozza, G. Zanetto, raccoglie meritoriamente gli scritti minori su tragedia e commedia, ma anche una selezione di articoli dal Corriere della Sera e dal Sole 24 ore.
Anche in questo caso l’indice del volume dà conto della molteplicità delle questioni affrontate: il mito e i contesti storici, lo stile e il comportamento linguistico dei personaggi, la loro sopravvivenza nel melodramma, la recitazione degli attori antichi, la tradizione degli studi sul teatro a partire da Untersteiner e ancora molto altro. Sono al centro della ricerca di una vita alcune delle domandi più urgenti e ancora attuali relative al teatro classico: la natura del dramma satiresco, un genere di difficile definizione già nell’antichità, la cui dubbia collocazione nell’ambito degli agoni è anche dovuta in parte alla tradizione frammentaria (Il satiro e la fonte. L’Amycos di Sofocle, 39-55); la novità del teatro euripideo (Euripide e la “tragedia nuova", 79-91); la struttura di un testo per la scena (Appunti sulla struttura delle Rane di Aristofane, 159-68); la questione dello spazio scenico (Spazio e messa in scena nelle commedie di Menandro, 339-50). Ma osservazioni altrettanto incisive, frutto di un’attenzione cólta alla storia della tradizione e ai teatri di altre culture, sono disseminate negli articoli per i quotidiani.
Basti citare Anche il kimono si addice ad Elettra (497-500), in cui lo studioso affrontava l’originale rilettura dei tragici secondo le forme del teatro Nô ad opera del regista Suzuki Tadashi, sottolineando non solo il conferimento del «potente simbolismo visivo della scena giapponese alla tensione concettuale del testo tragico», ma anche gli interventi sulla drammaturgia, ottenuti con l’inserzione di episodi e personaggi della tradizione locale, volta a «mediare la tremenda concentrazione verbale del dramma greco per un pubblico avvezzo a un più disteso tempo scenico».
Anche questo secondo ritratto si rivela a mala pena uno schizzo, ma ha tuttavia la pretesa di invitare molti giovani studiosi di teatro antico a rileggere con un nuovo sguardo e a contestualizzare nell’ambito degli studi del ’900 almeno alcune delle pagine di questi maestri di filologia e di cultura.
Sono stati per me che ho iniziato l’attività di ricerca nei primi anni ’70 due figure di riferimento, a cui ho guardato lungo il corso dei miei studi, anche se con diversa attenzione. Ho avuto, infatti, la fortuna di incontrare un maestro altrettanto curioso, poliedrico e innovatore come Benedetto Marzullo, fondatore nel 1970 del DAMS bolognese. Studiosi tutti questi che, con orientamenti diversi, nella seconda metà del secolo passato hanno guardato ai testi teatrali dell’antichità come a testi per la scena, dando avvio a quella che chiamo oggi, in senso ampio, filologia del testo teatrale, una filologia indiziaria attenta alla parola scenica, alla concezione dello spazio, capace di riconsegnare al testo la sua funzione di partitura da eseguire.
E vorrei concludere con le parole del teatrologo Ferdinando Taviani, prendendo a prestito l’incisivo titolo di un suo saggio del 1995, Uomini di scena, uomini di libro (Bologna, Il Mulino), adatto – mi sembra – per ricordare pienamente e non attraverso una vuota formula, Umberto Albini e Dario del Corno, intellettuali protagonisti del panorama culturale di quegli anni. Scriveva Taviani (19972, 233) – e riconosco nelle sue parole la militanza degli studiosi che vogliamo oggi rievocare: «il senso della ‘presenza assente’ è il limite e il fascino del teatro una volta che s’è fatto semplice scrittura […] in realtà il teatro davvero effimero, che muta col mutare dei giorni, è il teatro scritto. L’altro, quando è ricordo degli attori che hanno scosso la nostra mente e il nostro cuore (per chi continua a far differenza tra i due), è ricordo solido e intemerato. È puro senso». E ancora (236s.), a proposito della situazione teatrale di circa vent’anni fa, si esprimeva in modo profetico, parafrasando inconsapevolmente Aristofane: «a differenza di ciò che pensano i moralisti, la corruzione culturale è la causa di quella morale e non viceversa. […]. È grave la corruzione dei sensi. C’è corruzione dei sensi quando lo spettatore non ha più modo di sperimentare la scossa profonda che gli attori possono imprimere al suo corpo-mente. Quella scossa mette in moto il distacco dal già noto, che ci obbliga a pensare con la nostra testa».
Nota: una versione un po’ diversa di questo contributo è apparsa negli Annali Online di Lettere – Ferrara, voll. 1-2 (2011), pp. 373-381. Abbiamo accolto queste pagine in ‘Visioni del tragico’ per la loro perfetta aderenza allo scopo del nostro blog e della nostra rivista: mettere in contatto la tragedia greca con il presente, non solo attraverso le forme perfomative e la storia della ricezione, ma anche attraverso la storia degli studi. Dario Del Corno e Umberto Albini furono studiosi poliedrici, che non si dedicarono solo al teatro. Per il secondo, rinviamo al ricordo apparso in «Sileno», XXXVII, 1-2, 2011, 221-224, a cura di Claudio Bevegni, a cui si deve anche una bibliografia di Umberto Albini negli «Studi italiani di Filologia classica», XXI,1,2014, pp- 10-28. Il Fondo Umberto Albini è conservato presso l’Università di Pavia: vedi qui il video dell’inaugurazione nel 2015.
Per Dario Del Corno, altre notizie nel post di Giuseppe Zanetto sul nostro stesso blog, a cui si può aggiungere anche il profilo scritto da Luigi Lehnus e apparso in Sileno (36/1-2. 2010. 253-7). (S.F.)
Riferimenti bibliografici
Albini, U. (1998) Testo e palcoscenico. Divagazioni sul teatro antico. Bari. Levante.
Cavalli, M., Del Corno, D. (a cura di) (1985) A. von Arnim, C. Brentano. Il corno magico del fanciullo. Milano. Rizzoli.
Conca, F. (a cura di) (1999) Ricordando Raffaele Cantarella. Miscellanea di studi. Milano. Cisalpino.
Gazzolla, G. (a cura di) (1990) Terenzio. Il punitore di se stesso. Introd. di D. Del Corno. Milano. Rizzoli.
Pandolfi, V. (trad.) (1996) A. von Arnim. Il manichino tragico. Roma. Editori Riuniti.
Immagini: una foto di Luciano Berio (dal sito ufficiale del musicista); Anna Bonaiuto nei Sette a Tebe di Mario Martone e Andrea Renzi (1996); una foto di Umberto Albini da giovane; una tavola di Emanuele Luzzati (dal sito della Fondazione Luzzati); Orestea di Luca Ronconi (1971); Eumenidi, Atena e le Furie, in Die Orestie, di Peter Stein (1980); Peter Hall, Oresteia (1981); Le ultime due immagini: Suzuki Tadashi, Waiting for Orestes: Electra (Napoli Teatro Festival, 2009).
[1] Cavalli – Del Corno (1985).
[2] Si veda, a comprendere meglio l’interesse di Del Corno per von Arnim, il racconto fantastico Il manichino tragico (Melück Maria Blainville), in cui la protagonista debutta in una Fedra. La traduzione italiana del testo è a cura di Pandolfi (1996, 9-54).
[3] Albini (1998, 187-94).
[4] Si veda ad esempio la bella Introduzione in Gazzolla (1990, 5-31).
[5] Conca (1999, 119-35).