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Case sulle alture, felicità e gioia di figli e nipoti.
In memoria della tragedia del grande tsunami
non andranno costruite case sotto questa pietra.
Lo tsunami arrivò fin qui nel 1896 e nel 1933.
Il distretto venne completamente raso al suolo.
I sopravvissuti furono solo due per il primo, e quattro per il secondo.
State in guardia, non importa quanti anni trascorrano.

 Questo è il testo di un cippo eretto in ricordo di uno tsunami; ve ne sono centinaia, alcuni vecchi di secoli, lungo la costa del Giappone (vedi qui). I cippi, nonostante il loro messaggio, sorgono in luoghi ove si è continuato a costruire e ricostruire e nei quali gli tsunami hanno ancora mietuto migliaia vittime.

Deposito di spazzatura di plastica, Nairobi, Kenya

Il grido di dolore di quelle pietre inscritte, la loro preghiera perché non pretenda di vincere la natura, sono rimasti inascoltati: in una nota a piè pagina di La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico (2017, traduzione italiana 2020 per Meltemi editore), Bruno Latour scrive che anche le previsioni degli scienziati e i loro ammonimenti sullo stato attuale della pianeta terrestre potrebbero finire nel dimenticatoio, proprio come il messaggio drammatico di quei cippi.

Il libro di Latour raccoglie alcune conferenze, in cui si riflette sulle conseguenze devastanti dell’azione dell’uomo sulla Terra negli ultimi tre secoli. Gaia, protagonista e insieme oggetto del libro, è il nome greco per la Terra personificata, potenza primigenia e oscura sin dal racconto della Teogonia di Esiodo. Con un gioco di parole, si potrebbe dire che nella nostra epoca ‘terra’ e ‘terrore’ si compenetrano.

Il terrore è ambivalente: si ha terrore per quel che l’uomo è riuscito e riesce a fare all’ambiente, ma anche per quel che Gaia potrà fare alla specie umana, distruggendola. Sulla generazione presente ricade così la duplice responsabilità di dover guardare fissamente l’orrore causato, ma anche di mettere in moto una serie di meccanismi che portino almeno a rallentare processi ormai irreversibili. Non si può restare pietrificati, come incontrando lo sguardo della Gorgone. Ne va della sopravvivenza della specie umana. L'invito alla responsabilità urgente non viene solo dagli scienziati, dagli studiosi, dai politici: dovrebbe diventare anche, nella nostra epoca, il contenuto principale delle arti. E non è un caso che la metafora teatrale ricorra con insistenza nelle narrazioni sui disastri ecologici.

Moniera di carbone, Germania 2015

In ogni catastrofe c’è infatti un elemento spettacolare, sublime persino: purché lo si guardi al sicuro, da lontano. Così, a chi osserva, Gaia non nasconde le sue ferite e il suo scontento, anzi, espone le une e l’altro e manifesta tutti i segni per rivelarci quel che accadrà; come nella mitologia greca conosce il futuro e ha poteri profetici, come gli indovini nella tragedia greca Gaia dà vaticini e profezie. Eppure come i cippi ammonitori lasciati sui luoghi delle catastrofi, la Terra resta inascoltata. Sicché siamo noi a dover finalmente vedere quel che non vogliamo vedere. Gaia è il teatro delle nostre esistenze, lo scenario distopico della nostra distruzione, la proiezione delle nostre possibilità di sopravvivenza. Gaia siamo noi ma, d’altro canto, siamo anche noi, o meglio noi in essa. La sua storia è la nostra storia, quel che è scritto sul suo corpo lo è anche nel nostro.

Perciò il naufragio di Gaia non può essere più guardato da una distanza di sicurezza. Noi tutti siamo nella tempesta e nella barca che affonda. Noi non guardiamo altri lottare per la vita, siamo noi stessi a cercare di non naufragare.

Cave del marmo di Carrara, Italia

Per capire l’impatto reale dell’uomo sul pianeta bisogna saper guardare con attenzione: il ‘teatro’, come atto stesso del ‘guardare’ (dall’etimologia greca del termine) diventa metafora per la presa di coscienza della condizione umana nella nostra epoca. La metafora teatrale presuppone che il teatro dell’‘antropocene’, cioè dell’epoca in cui storia della terra e storia dell’uomo si intrecciano, e la seconda viola e dilania la prima, abolisce ogni distanza tra attori e pubblico: non si può più assistere al naufragio e alla catastrofe dalla comoda e sicura posizione dello spettatore.

La nostra situazione “somiglia piuttosto alla Vita di Pi: sulla scialuppa di salvataggio c’è una tigre del Bengala! Lo sfortunato, giovane naufrago non ha più un lido stabile da cui potersi godere lo spettacolo della lotta per la sopravvivenza, e si ritrova a fianco di una bestia selvaggia indomabile per la quale funge sia da domatore che da pasto! Ciò che sta venendo verso di noi è quel che chiamo Gaia, e che bisogna guardare in faccia per non impazzire davvero” -scrive Bruno Latour.

Segherie a Lagos, Nigeria

La metafora teatrale si compenetra con la prassi teatrale e performativa.

Latour racconta di essere stato sollecitato a occuparsi di Gaia da una performance di danza che lo aveva obbligato a esperire emotivamente quel che significa l’irruzione di una potenza devastante e terribile nella condizione umana. Di converso, per amplificarne l’efficacia, le sue conferenze sono servite per una drammaturgia e sono diventate il copione di una lettura scenica.

L’arte performativa si misura infine con l’antropocene e si moltiplicano i progetti performativi che ambiscono ad avere una funzione sociale: attraverso la coesione di scienza ed arte, questi progetti  e queste performances invitano a non restare spettatori passivi di quel che sta avvenendo alla natura.

Versamento d'olio alla foce del Niger, Nigeria

Qualche esempio: il progetto artistico Storying otherwise, con Daria Deflorian come voce recitante (qui), e Le 5 Camille, cortometraggio di finzione per la regia di Igor Samperi (qui), che prendono ispirazione dal saggio-romanzo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto della filosofa e scrittrice americana Donna Haraway e si inseriscono nel contenitore Lingua madre. Capsule per il futuro per il LAC di Lugano. Oppure l’adattamento di Nemico del popolo di Ibsen col titolo Nemico del popolo per il futuro da parte di Lothar Kittstein, regia di Volker Lösch, che è un atto di accusa delle generazioni più giovani contro la riconversione dell’industria automobilistica all’elettrico, che non serve a ridurre le emissioni di COe si configura come un’altra grandiosa bugia al servizio del capitale.  

   Esclusivamente al conflitto tra uomo e natura nell’antropocene è dedicato il progetto artistico, scientifico e sociale del berlinese Teatro dell’antropocene, un’iniziativa di cui abbiamo già parlato ma su cui torneremo più diffusamente in questo blog.  

Cosa ha a che fare il teatro dell'antropocene con la tragedia greca?

Le crisi ecologiche e climatiche esigono che si prendano delle decisioni improcrastinabili. Come nella tragedia greca, la decisione è tra due sventure ugualmente difficili da sopportare. O si decide di andare verso la catastrofe, ignorando quel che si conosce; oppure bisogna rinunciare a uno stile di vita, ed è una rinuncia tremenda, avvertita come una privazione essenziale, come un lutto. In questo dilemma consiste la tragedia dell’antropocene, come ha scritto Frank M. Raddatz, ed è perciò naturale che la tragedia sia l’espressione artistica propria del nostro presente.

L’uomo contemporaneo, scrive ancora Raddatz, è nella situazione di Agamennone, con cui condivide la hybris, ‘arroganza’, che deve decidere se permettere che la flotta greca non parta per Troia, oppure sacrificare la figlia. Da una parte sta la necessità del progresso e la fiducia nelle sue sorti infinite, pur di fronte a risorse finite; dall’altra la necessità alla rinuncia a qualcosa che ci è carissimo, che ci è intimamente legato, che è parte della nostra vita. Non vi sono vie di mezzo. Senonché il protagonista tragico non è innocente, ma vittima della sua stessa prepotenza. Usando un’espressione di Michel Foucault, la drammaturgia dell’antropocene è una drammaturgia della cecità.

La categoria tragica aristotelica dell’hamartia, dell’‘errore’, e del suo tardivo riconoscimento, e specificamente dell’errore, volontario o involontario, commesso dall’essere umano come protagonista della storia, torna utile per giustificare il collettivo esame di coscienza che viene oggi richiesto al genere umano: perché per agire abbiamo bisogno di ripercorrere gli errori che abbiamo commesso, nella speranza non di poterli correggere, essendo ormai impossibile, ma almeno di rallentare quei processi che abbiamo messo in moto.

Come in una tragedia greca, siamo noi all’origine dell’errore e dobbiamo aver il coraggio di ammetterlo, per quanto ci sconvolga.

Piantagione di olio di Palma, Malesia

I personaggi della tragedia greca, e le strutture narrative di queste, slegati dal loro contesto originario, diventano allegorie della condizione umana.

Così l’Edipo Re, ha scritto ancora Frank M. Raddatz, si impone come “matrice teatrale dell’antropocene”. “Per molti anni" – continua Raddatz – "Edipo, lo scioglitore di enigmi, si ingannò sulla reale natura della propria storia. Dopo che, grazie alla forza della sua ragione, aveva detronizzato il mostro chiamato Sfinge, gli toccò il regno della polis di Tebe; così la scienza sperimentale, secondo Adorno, aveva raggiunto il trionfo funesto del dominio sulla natura, riducendone le forze cieche ad un sistema razionalmente spiegabile. Solo quando a Tebe scoppiò una epidemia, Edipo fu costretto a focalizzare criticamente la propria origine. L’analogia con lo scenario antropogenico è evidente. Anche il dilagante effetto serra, una peste climatica inguaribile, esige una valutazione complessiva dello stile di vita basato sullo sfruttamento delle risorse naturali, della tecnica nei suoi rapporti con la biosfera e una ricapitolazione della sua origine.”

 Concorda Bruno Latour: l’Antropocene racconta un “mito veramente edipico”. Ma “contrariamente a Edipo, per così lungo tempo cieco alle sue azioni, di fronte alla rivelazione degli errori passati noi dobbiamo resistere alla tentazione di accecarci nuovamente, accettando di guardarli in faccia, per poterci volgere, i grandi occhi spalancati, in direzione di ciò che viene verso di noi.” Perciò  il teatro dell’antropocene torna ad essere, come ad Atene, eminentemente politico, poiché la sua dimensione estetica è inscindibile da quella storica e dalla concretezza dell'azione nella polis.

Il teatro politico e sociale dell’antropocene è ancora all’inizio e avanza non senza difficoltà. Come ha scritto ancora Frank M. Raddatz nel suo recente Dramma e antropocene il teatro non si confronta ancora facilmente con temi ecologici. Secondo alcuni registi, questo dipende dal fatto che i fenomeni naturali, le tempeste, le alluvioni, lo scioglimento dei ghiacciai, siano molto difficili da portare sulla scena – un’obiezione che è contraddetta da tutta la storia del teatro, che da secoli mette in scena avvenimenti complessi come la guerra o le catastrofi, e che comunque vale assai poco nell’epoca della multimedialità performativa. Chi ha visto il film documentario canadese Antropocene – L’epoca umana, solo per portare un esempio, non può che essere convinto del potere delle immagini nel comunicare temi ecologici e porli sotto gli occhi di tutti.

Questi temi però riescono ancora scomodi in teatro, dove si chiede anzi evasione dall'attulità, e d’altronde un teatro che voglia indurre all’azione e alla partecipazione solo attraverso proclami, risulta spesso arido e declamatorio, emotivamente distante come un messaggio scientifico, un elenco di dati, una sfilza di previsioni. Il teatro dell’antropocene rischia di suonare, per usare ancora un personaggio tragico greco, come le profezie di Cassandra, una delle figure mitologiche che attraversano i secoli per raccontarci di assassini che non abbiamo visto, di stupri che non abbiamo voluto vedere, l'incendio di città prima ancora che sia appiccato.

Perciò, come scrive Raddatz, non c’è da registrare sulle scene contemporanee un moltiplicarsi di Cassandre.

I moniti di Cassandra saranno ascoltati solo se rivolti a gente il cui orecchio è accordato al frastuono delle trombe escatologiche.” – scrive ancora Latour. Ma altre sirene incantano quella gente, e i discorsi con la fine non si conciliano con un’esistenza condotta a velocità vertiginosa sul piano di un eterno presente, dimenticando il passato e ignorando le conseguenze del passato sul futuro, sul nostro ma soprattutto su quello di chi verrà dopo di noi. Non si spiega altrimenti perché, nonostante le prove delle conseguenze delle nostre azioni sulla terra, si continui a consumare molto più di quanto le risorse del pianeta permettono e a inquinare l'aria come se nulla fosse.  

Non si può impedire a Cassandra di guardare e di profetizzare. Non è un paradosso: Cassandra è figura più moderna che antica, perché è in età moderna che ha ampliato il suo sguardo e dal destino di una singola città e di una famiglia ha guardato al mondo, ha saputo prevedere tutte le crisi epocali della modernità, dalla Rivoluzione francese alle guerre del Novecento alla crisi di un’Europa dimidiata tra due blocchi e per decenni sull’orlo di una guerra nucleare.[1]

Cassandra ha parlato in tutte queste situazioni, con la sua lingua, lingua poetica, lingua di presagi da interpretare: e il peggio è stato e sarà di chi invece tacque, per quanto avesse anche lui capito, come di chi non seppe o non volle ascoltare.

  

Le immagini sono tratte dalla mostra ANTROPOCENE alla Fondazione MAST di Bologna:  35 fotografie di grande formato scattate da Edward Burtynsky mostrano con forza le drammatiche collisioni tra uomo e natura: la terraformazione del pianeta mediante l’estrazione mineraria, l’urbanizzazione, l’industrializzazione e l’agricoltura; la proliferazione di dighe e la sempre più frequente deviazione dei corsi d’acqua; l’eccesso di CO2 e l’acidificazione degli oceani; la presenza pervasiva e globale della plastica, del cemento e di altri tecnofossili; l’impennata senza precedenti delle deforestazione.

Le altre immagini sono di Sonia Bergamasco interprete di Resurrexit Cassandra, testo di Ruggero Cappuccio, regia di Jan Fabre, produzione Teatro di Napoli: https://teatrodinapoli.it/evento/resurrexit-cassandra/

                                                

                                                                

                                                                                

 

[1] Cfr. Thomas Epple, Der Aufstieg der Untergangsseherin Kassandra Zum Wandel ihrer Interpretation vom 18. Jahrhundert bis zur Gegenwart, Würzburg 1993.