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“Che problema hai?”, fa lui. “Solitudine”, risponde lei al ragazzo con cui flirta svogliatamente.

Sola, in effetti, lo è Anne (Anamaria Vartolomei), 23 anni nel 1963, una brillante carriera universitaria in Lettere e tante ambizioni pur di non fare la fine di quelle colleghe che interrompono gli studi per sposarsi o, peggio, della propria madre (Sandrine Bonnaire, non più Sans toit ni loi), barista di provincia, a cui la giovane non lesina piccole, spocchiose alzate di testa. La vita in provincia e quella al pensionato universitario nel grande centro, qualche compagna di studi e di confidenze, qualche uscita, qualche festa, qualche ragazzo. A elettrizzare questa ordinaria e piatta esistenza sarà proprio un avvenimento, anzi, L’Événement, la inaspettata e sgradita gravidanza, l’inizio di una Via Crucis che condurrà la ragazza a scontrarsi con medici, amiche, un intero sistema sociosanitario che prevede il carcere per il reato di aborto.

La solitudine di Anne è la medesima provata da altre donne che come lei si sono trovate nella situazione di dover subire una gravidanza senza averla voluta, cercata, desiderata. La macchina da presa aderisce al corpo della giovane, alla sua pelle lattea, alla sua nuca sensuale, e la segue, la pedina, partecipa al suo disperato tentativo di sbarazzarsi dello sgradito piccolo ospite che cresce dentro di lei. Il tempo passa, le settimane scorrono e Anne mantiene quel segreto, come se fosse colpevole di un atto indicibile, anche con le sue due amiche, dopo averne colto giudizi poco lusinghieri sull’eventualità di gravidanze indesiderate e del ricorso all’aborto, salvo poi scoprire che anche loro possiedono una sessualità avida e disinibita. Il sesso è il vero tabu di quella società che sta aprendosi alla modernità e che dopo una manciata di anni sarebbe stata investita dal Sessantotto. Anne e le sue sorelle hanno la colpa e la sfortuna di essere ragazze prima di tutto quel che verrà e seguitano a vivere, a sopravvivere come tante altre donne trovatesi in quella condizione per decenni e per secoli prima di loro. E come spesso accade, sarà una donna (Anna Mouglalis) che compie aborti clandestini per soldi e forse per pietà, a risolvere – almeno in parte – la faccenda.

È un ‘affare di donne’, parafrasando il titolo di un celebre e importante film di Chabrol del 1988 nel quale la protagonista (Isabelle Huppert) compie aborti clandestini nella Francia occupata dai tedeschi. Quella pellicola, ispirata alla storia vera di una donna condannata e ghigliottinata per questo reato, costituisce un precedente fondamentale per L’Événement, tratto dal romanzo autobiografico di Annie Ernaux (2000) e trasposto al cinema dalla quarantenne Audrey Diwan. La paura di essere scoperta, denunciata, giudicata, ma soprattutto di dover interrompere gli studi, genera una sensazione analoga a quella vista in decine di film nei quali il/la protagonista di origini ebraiche cerca di mimetizzarsi, di nascondersi, di sfuggire all’autorità per aver salva la vita. Il clima di terrore vissuto da una donna che volesse abortire nella Francia degli inizi anni Sessanta non è poi tanto diverso da quello della guerra, e neanche della Romania di Ceaușescu, come in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (Cristian Mungiu, 2007), vincitore della Palma d’oro a Cannes, in cui il medesimo calvario è vissuto da un’altra studentessa universitaria che condivide la stanza con una collega pronta ad aiutarla.

È un affare di donne, L’Événement, perché gli uomini sono assenti o, peggio ancora, latitanti, se ne lavano le mani, appaiono deboli e restano generalmente sullo sfondo, come lo sbiadito padre della protagonista o come l’inconsistente ragazzo che ingravida Anne e che per indolenza non le tende una mano. Gli altri uomini che la giovane incontra nel suo percorso sono medici: uno vorrebbe aiutarla ma non intende andare contro la legge, un altro addirittura la illude somministrandole un farmaco che rafforza il feto invece di indebolirlo. Anche il professore di letteratura (Pio Marmaï) pare non comprendere il disagio di quell’allieva brillante che discetta di Sartre e Camus e che nelle ultime settimane non rende più chissà per quale oscuro motivo. Quello che poi sembra il peggiore di tutti, l’amico di corso al quale Anne confessa per primo la situazione, non vuole inizialmente saperne nulla e in un secondo momento tenterà persino un approccio sessuale, salvo poi riscattarsi almeno in parte quando inaspettatamente le presenta una ragazza che ha avuto lo stesso problema e che la introdurrà a colei che potrà risolvere la situazione, anche se l’operazione non sortisce gli effetti sperati. Ma non vogliamo anticipare la conclusione della vicenda.

Come purtroppo sovente accade, l’eloquente e sintetico titolo originale è accompagnato in Italia da uno didascalico e piuttosto semplicistico: La scelta di Anne, che riecheggia altri celebri precedenti – La scelta di Sophie (Alan J. Pakula, 1982), La scelta di Barbara (Christian Petzold, 2012) – nel tentativo di attrarre e incuriosire lo spettatore, in realtà lavora in senso contrario, finendo per apparire pleonastico. Se infatti la scelta della protagonista è espressa chiaramente, senza rimorsi, sensi di colpa e titubanze, quella della regista è ancor più palese: mostrare, cioè, allo spettatore, senza troppi giri di parole, la disperazione e la solitudine di chi si sia trovata per secoli in quella condizione o, peggio, che si trovi ancora oggi in qualche altra parte del mondo in quelle drammatiche circostanze. Un film politico, nel senso più puro del termine, che oltre a prendere legittimamente posizione lancia un grido di accusa contro un intero sistema patriarcale e maschilista proprio all’alba della contestazione e del Sessantotto.

Non è di certo un cattivo film, ma francamente neanche un grande film, questo ultimo ‘Leone d’oro’ che procede programmaticamente con l’intento di porre il pubblico dinanzi al calvario della protagonista e di scuoterlo, a volte percuoterlo, provocargli sensi di colpa e di vergogna[1], optando per situazioni visive in cui si arriva quasi a solidarizzare più col povero feto che con la giovane Anne, la cui intensa e bellissima protagonista costituisce certamente uno dei punti di forza della pellicola. Proprio il fatto di non lasciare nulla all’immaginazione ma di mostrare costantemente in primo piano il corpo di Anne in ogni circostanza – dal rapporto sessuale alla visita ginecologica, dal tentativo di abortire da sola con un ferro da calza all’operazione praticatale clandestinamente senza dover gridare per non fare insospettire i vicini fino all’espulsione del feto in un gabinetto – costituisce una scelta consapevole e a tratti di ostentata se non compiaciuta crudezza, lontana, ad esempio, dall’asciuttezza di un Bresson.

 Il trionfo veneziano del film su altre pellicole probabilmente superiori dal punto di vista estetico, poggia invece sulla sua valenza politica, sul fatto che sia stato diretto da una donna, che ponga al centro del piatto un tema ‘sacro’ come la battaglia sull’aborto, che i maschi ne escano piuttosto a pezzi. Nello stesso palmares, inoltre, il premio come migliore attrice della competizione è stato assegnato alla Penélope Cruz di Madres paralelas (Pedro Almodovar, 2021), un’altra pellicola che tratta di maternità e dei problemi a essa connessa nella Spagna di oggi alla costante ricerca di fare i conti con quella di ieri. Il film che ha trionfato a Cannes quest’anno, Titane (Julia Decournau, 2021), anch’esso diretto da una regista francese, vede addirittura il concepimento del feto con una Cadillac, come a dire meglio la macchina dell’uomo. Lo scorso anno, sempre a Venezia, a ritirare meritatamente il premio come migliore attrice era stata Vanessa Kirby, poi candidata anche all’Oscar, per Pieces of a Woman (Kornél Mundruczó, 2020), nel quale interpreta il ruolo di una donna che perde il figlio durante un parto in casa, evento ripreso in un lunghissimo quanto insostenibile pianosequenza.

La maternità – sia essa voluta, negata, interrotta bruscamente – è un tema centrale nella rappresentazione femminile del cinema contemporaneo, o almeno quello dei maggiori festival, e forse mai come in questo momento tanto presente sul grande schermo. Evidentemente non per essere esaltato, quanto piuttosto per essere messo in discussione, per denunciare l’identificazione della figura femminile con quella materna, per sottolineare il diritto di prelazione della donna rispetto all’uomo. Almeno al cinema, Anne non è più sola.

 

[1] Il che probabilmente dipende dalla dipendenza dal modello letterario. Sulla vergogna in generale nell’opera di Annie Ernaux, vedi Stefano Genetti, Annie Ernaux: per una poetica autosociobiografica della vergogna, in ‘Archivi delle emozioni’, II, 1, 2021,  http://www.archivi-emozioni.it/index.php/rivista/article/view/54