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Il romanzo The Watch dello scrittore statunitense di origine indiana Joydeep Roy-Bhattacharya, apparso nel 2012, riscrive, ambientandolo durante l’occupazione americana dell’Afghanistan, il mito di Antigone.

Il libro denunciava, già dieci anni fa, le atrocità  dell’occupazione e l’enormità delle sue conseguenze, sia sul popolo afgano che sui militari occidentali. Per questo fu definito con una certa esagerazione il 'primo grande romanzo sulla guerra in Afghanistan'. L'autore ne scrive per dovere morale, per alzare un lamento e un atto di dolore per le vittime di ambedue le parti, occupanti e occupati, prestando voce agli uni e agli altri, mantenendo un'epica distanza dalle vicende narrate, costruendo un mosaico contro la guerra in generale e contro quella guerra in particolare.

Come nel primo poema sulla guerra, l'Iliade, vincitori e vinti sono accomunati dalla stessa sventura. E come nelle battaglie omeriche, la polvere si alza dal campo di battaglia, confonde i soldati, offusca il sole, rende quasi ciechi. La polvere del deserto diventa metafora dell'umana fragilità, dell'instabilità delle umane cose e di un teatro di guerra dove nulla è certo, il nemico si nasconde e talora sembra non esistere affatto. La guerra viene perlopiù combattuta contro presenze umbratili, forse immaginarie, miraggi.

Nel vuoto di spazi sterminati si perdono le urla di aiuto e anche gli appelli al dialogo. Contro chi combattono gli americani? E chi, invece, debbono aiutare? Il popolo afgano, a cui il libro è dedicato, per gli occupanti è pur sempre una presenza ostile, indistinguibile dai nemici talebani. E quel popolo, e di sicuro la sua parte indifesa, i bambini, i vecchi, le donne, viene destinata al sacrificio più insensato. 

Questo romanzo non può che tornarci alla mente in queste ore drammatiche per l’Afghanistan, ore in cui vent’anni di storia sembrano cancellati, i talebani sono tornati al potere e si manifestano le ipocrite preoccupazioni occidentali per le sicure violazioni dei diritti umani nel martoriato paese[1].

Copertina del romanzo L'attesa, atmosphere libri

 

Questa la vicenda da cui prende le mosse il romanzo di Roy-Bhattacharya, palesemente ispirata alla tragedia di Sofocle: siamo in una base militare nel deserto afgano, vicino a Kandahar. Tutt'intorno, il deserto. Un attacco improvviso provoca molte perdite e feriti tra i soldati americani, ma l'assalto alla base non riesce. Gli attentatori eliminati sono sette e sei corpi vengono lasciati nel deserto, come esca per chi volesse riprenderseli, sorvegliati dai cecchini. Il presumibile capo, invece, viene portato nella base: il corpo sta già andando in putrefazione, ammorba l'aria, ma l'ordine è tenerlo lì e filmarlo nella sua oltraggiosa decomposizione, per farne mostra in televisione come un trofeo e dare orrida prova di cosa succede ai nemici degli americani. Si presume che il commando fosse composto da talebani, ma non se ne ha certezza alcuna. Il deserto nasconde segreti, come un mare profondo e inesplorato, in cui la base americana si mantiene con difficoltà all'ancora.  

Improvvisamente qualcuno si fa strada nel deserto, affondando nella sabbia con la sedia a rotelle. Le sentinelle credono di avere un'apparizione, increduli che qualcuno, pur mutilato, possa avanzare su quel terreno impervio e avere il coraggio di presentarsi, da solo, davanti alla base. Si avvicina, urla ai soldati di guardia. La voce è di una bambina, coperta completamente dal burka: chiede che le si restituisca il corpo del fratello, il capo degli attentatori, per seppellirlo. Aspetterà sino a quando non otterrà il suo scopo. Si apre un'estenuante trattativa tra il comandante della base e la ragazza.

Sono sette i personaggi di cui si intrecciano storie, ricordi, pensieri. A due di essi viene dato, nel titolo del corrispondente capitolo, il nome di Antigone ed Ismene.  Antigone è ovviamente la figura in filigrana della giovane afgana che rivuole il corpo del fratello. 

La ragazza si chiama Nizam, un nome ambiguo, sia maschile che femminile. Ed in effetti Antigone/Nizam si mostra debole come una donna, per giunta mutilata, e forte come un uomo. La ragazza non può camminare, eppure sembra aver attraversato chilometri tra montagne e deserto; seppellisce inoltre da sola tre dei corpi rimasti fuori dalla base, quelli più esposti allo scempio da parte di avvoltoi e iene, come mossa da una forza superiore. Il narratore ne legge i ricordi: ha subito la gravissima mutilazione alle gambe durante un attacco americano, nel quale ha perso tutta la famiglia. La sua improvvisa apparizione, un prodigio, suscita sconcerto, pietà ma anche terrore nei militari assediati, come quando si pensa di avere un'epifania di cui non si capisce la natura.

Torretta di guardia in afghanistan

La ragazzina col burka, proprio come se fosse un essere soprannaturale, si dimostra capace di resistere per tre giorni alle terribili escursioni termiche del deserto afgano, al continuo turbinio della polvere, e pure alle minacce di morte che vengono dalla base, dato che i cecchini americani stanno giorno e notte a sorvegliarla, pronti a far fuoco. Non cede nemmeno alle incitazioni ad arrendersi dell’interprete afgano che non è della sua stessa etnia ed oscilla tra compassione e sospetto per lei: è proprio a quest'interprete che viene accostato il nome di Ismene, della sorella opaca e dubbiosa sull'utilità dell'azione di Antigone.  

ragazza con burka e sedia a rotelle

Nizam riesce però a soggiogare i soldati americani grazie al coraggio, alla forza d’animo, alla determinazione. I militari e quell'essere infelice hanno molto in comune: sono gli ultimi della terra, i predestinati al sacrificio, coloro di cui non si ricorderà il nome, offesi nei corpi e nella mente. Sono coloro che la guerra la subiscono e non la decidono. Sono le vittime del potere e della violenza. 

I soldati cmprendono le ragioni di Nizam. La sua richiesta commuove e risulta legittima a quei soldati che, lontano da casa e dagli affetti, rischiano ogni giorno la vita e vorrebbero a loro volta, se uccisi, che il loro corpo tornasse subito a casa, restituito alle famiglie. Nizam infine riesce ad ammaliarli con la musica, poiché all’improvviso si mette a suonare uno strumento a dodici corde, il cui suono pare avere l’effetto di un incantesimo. I militari americani chiedono al loro capitano di restituire il corpo del terrorista alla sorella, di lasciarla andare. Le offrono del cibo, le chiedono di lasciarsi curare. Ma la pietà dei semplici non corrisponde al volere dei potenti: per radio, al capitano arrivano ordini superiori. Bisogna liberarsi di quella creatura imbarazzante, eliminarla, farla scomparire. 

bambino soldato afgano

Nizam pare creatura della fantasia, uno spirito del deserto, un essere asessuato che agisce tra magia, barbarie e disperazione, destinata a diventare una vittima pietosa e un capro espiatorio. Fingendo di andarla a recuperare per portarla in salvo, ed anzi destinarla alle cure dei medici americani, il capitano della base, all’insaputa dei soldati, la fa uccidere dal migliore dei suoi tiratori scelti. Nizam, la sorella che voleva solo onorare il fratello ucciso, viene ingannata tragicamente come Ifigenia e giustiziata come un animale da sacrificio. 

soldati in afghanistan

Il capitano, ovvia controfigura di Creonte, è un uomo mediocre, privo di iniziativa, rappresentante di un militarismo ottuso e inflessibile. Uccidendo Nizam, nonostante il parere contrario dei soldati, che provano affetto per lei, il capitano pensa di imporre l’ordine ad una truppa impaurita e pronta alla diserzione, i cui uomini si sentono assediati da presenze invisibili: nelle visioni oniriche dei vari personaggi vengono infatti drammaticamente a galla le paure ed i problemi che turbano questi uomini mandati a combattere una guerra di cui non capiscono più i motivi.

soldati in afghanistan

Gran parte del romanzo racconta i sogni, gli incubi, i ricordi, i deliri di alcuni degli americani implicati nella vicenda. Il vero protagonista è così un collettivo, un coro, che vive in una condizione di profonda instabilità emotiva, assediato dai sensi di colpa e dalla vergogna.

Le paure che si agitano nell'inconscio degli americani non hanno nulla a che fare con l’Afghanistan, ma allignano nei loro luoghi d’origine e nell’educazione ricevuta, affondano le radici non nella situazione eccezionale della guerra in un paese lontanissimo e sconosciuto, ma proprio nella società americana, nel suo apparente benessere minato dalla crisi economica, nei fragili affetti fagocitati da una realtà in perenne e multiforme conflitto. Non vi è un mondo civile contrapposto a un mondo di barbari, non vi è un mondo sano che possa guarire un mondo malato, non vi è un Dio giusto e uno sbagliato, un Dio a cui appellarsi e al quale chiedere un'indicazione.

Creonte’ e ‘Antigone’ valgono come  allegorie della condizione umana: Creonte del potere, con le sue mille forme e metamorfosi, un potere sempre diverso eppure sempre uguale a sé stesso, in qualsiasi situazione venga esercitato, a Kabul, negli Stati Uniti, in Europa, nel deserto come nella metropoli. Il potere è una macchina da distruzione, composta da infiniti ingranaggi a loro volta distruttivi.  Il potere schiaccia, tortura, uccide, sia fisicamente che psichicamente. Antigone, d’altra parte, è allegoria della vita nuda e indifesa, la vita inerme e perciò ritenuta insignificante, svilita e soppressa dal potere. In una visione desolata della storia, nessun sostanziale processo o cambiamento è possibile. Il potere allunga i suoi tentacoli e la sua logica dovunque e la guerra ne è la manifestazione più immediata. I deboli e gli indifesi sono destinati a soccombere. 

soldati in afghanistan

Vittime sono gli afgani, dei talebani, di loro stessi, e infine di chi si è dichiarato loro liberatore. Ma vittime sono anche i soldati americani, che hanno scelto la guerra come ripiego e fuga da realtà che non sopportavano e si ritrovano nell'inferno. Carnefici sono gli afgani che scelgono il terrore; carnefici gli occupanti, che colpiscono alla cieca in preda al panico e alla confusione.

Nella figura di Nizam, traspaiono altri personaggi della tragedia greca, oltre ad Antigone: Filottete, colui che porta l'eterna e inguaribile ferita alla gamba, la vittima della comunità che lo isola e la ripudia, la prima vittima incolpevole della guerra, che in guerra nemmeno arriva; Ifigenia, la vittima sacrificale inconsapevole, che crede di recarsi al proprio matrimonio e viene invece immolata alla ragion di Stato dallo stesso padre. Qualcosa in lei ricorda anche Cassandra, che sulle mura impazzisce alla notizia della morte di Ettore, e deve guardare lo scempio del suo cadavere. 

La tragedia greca, ma anche i classici in generale, diventa nel romanzo anche testo di riflessione su cui si esercita un'interpretazione viziata. Questa è demandata alla voce di  Nick Frobenius, un luogotenente al quale si dà con una punta di ironia il nome di un famoso etnologo tedesco, dalla solida formazione umanistica, che nei classici, e nell’Iliade in primo luogo, cerca la spiegazione per l’ineluttabilità della guerra.

Al contrario della maggioranza dei suoi commilitoni, Frobenius si è arruolato credendo alla giustizia di quella spedizione, alla sua giustificazione. Le buone letture lo hanno educato ad un patriottismo cieco e fiducioso, e tanto più lo delude il cinismo o la sfiducia degli altri americani. Cercando di convincere il capitano del valore dell’eroismo e del contenuto etico del combattimento, credendo di potergli trasmettere l'ideale della Patria prima d'ogni altra cosa, gli regala le tragedie di Sofocle: ma quello non le legge, e non solo perché non ha tempo di farlo, ma soprattutto perché non crede che la guerra abbia motivi ideali o possa offrire altri vantaggi se non quelli economici. Il capitano volentieri si presta ad essere un ingranaggio del potere, un mero esecutore degli ordini, orgogliosamente privo di pensiero autonomo.

visione notturna in afghanistan

Frobenius  è al contrario uomo di libri. L’Antigone in particolare ricorre nella sua esistenza a marcare delle cesure e a fornire delle premonizioni.

Nel delirio della febbre, Frobenius ricorda quando al college ha inscenato l’Antigone; doveva leggere i vv. 115 e seguenti del coro, la parodo, dove si descrive il nemico che «simile ad aquila alto volò sulla terra, coperto di un’ala candida di neve, con armi molte e con cimieri ornati di crine. Fermo sulle case, spalancando in cerchio sulle sette porte le fauci dalle lance insanguinate, dileguò prima di saziare del nostro sangue la mascella…».

La sua prova attoriale fu però un fallimento, perchè allora non poteva sentire e vedere quel che leggeva: il ricordo di quei versi invece gli si spalanca nella memoria nel momento in cui, colpito da un proiettile, non respira, e il medico della base tenta di rianimarlo. In quel momento, i versi di Sofocle diventano parola viva. La guerra che i versi di Sofocle descrivono con ardite metafore afferra allora Frobenius in tutta la sua più concreta e crudele verità.

Ancora un’altra volta, da ragazzo, gli fu chiesto di leggere il discorso di Creonte: «Io detengo il potere e il trono, essendo il parente più stretto dei morti. È impossibile conoscere a fondo animo, pensiero e giudizio di qualunque uomo, prima che si sia rivelato esperto nel potere e nelle leggi…».

donna con il burka

Frobenius decise allora di stare dalla parte di Creonte: l'amore per lo Stato deve superare qualsiasi altro legame, questo aveva imparato dai classici. Dopo l'11 settembre si era arruolato convinto di dover vendicare l'onore offeso del proprio Paese. Come l'Ettore omerico, si sarebbe vergognato se non fosse andato in guerra per continuare a vivere indifferente negli Stati Uniti.

La vita gli aveva dato da recitare la parte di Creonte, di chi difende lo Stato e per questo considera la guerra come un evento necessario, nonostante le atrocità che sempre l’accompagnano. Ma come Creonte, anche il luogotenente sbaglia irrimediabilmente: la guerra lo priva degli affetti, perché perde la moglie che non può sopportare la sua lontananza e abbandona anche il vecchio padre, malato di Alzheimer; gli ideali in cui ha creduto non esistono, perché quella guerra non vendica le vittime dell' 11 settembre, ma provoca altre vittime innocenti. Tra il luogotenente americano e i nemici, i talebani, non viene a porsi così nessuna distanza etica.

Frobenius muore e solo alla fine del suo destino tragico, come Creonte, capisce di aver sbagliato. Come Creonte anche il luogotenente è completamente annichilito, distrutto, e i versi del finale dell’Antigone tornano ossessivamente nel suo delirio. «Ancora i suoi fottuti greci…», commenta ironicamente un commilitone pur addolorato. A che servono i classici se invece di una cultura di pace educano alla cultura della guerra?

Anche un altro personaggio del romanzo, il dottore della base, sogna un’Antigone, quella cinematografica di Yorgos Javellas del 1961 con protagonista Irene Papas, e sogna l’attrice mentre dice ad Ismene che seppellirà il fratello e giacerà con lui, commettendo sacro delitto. Il ricordo onirico del film diventa una mise en abîme della vicenda del romanzo e rivela come, per i militari di stanza nella base, tutta quella guerra abbia qualcosa di inverosimile, di irreale, di fittivo: ognuno si sente più spettatore che protagonista di una storia più grande, indominabile nel suo procedere. La realtà diventa una vecchia pellicola sbiadita. 

Irene Papas interpreta Antigone (1961)

Sono sei, nel romanzo, le citazioni letterali o riadattate dalla tragedia di Sofocle, compresa l’Epigrafe iniziale, costituita dai versi nei quali Antigone orgogliosamente afferma dinanzi a Creonte di non aver paura di morire, ché morire è destino di tutti e che la condanna non le causa dolore: «se avessi tollerato che il figlio morto di mia madre fosse cadavere insepolto, per quello proverei dolore», afferma Antigone (vv. 466-468). Solo la vergogna sopravvive: la vergogna di trucidare innocenti che si vorrebbero invece liberare, la vergogna di non sapere da che parte stare, la vergogna di combattere con il desiderio costante e codardo di fuggire, la vergogna di sé stessi, della propria condizione.

Il romanzo va accostato ad altri romanzi allegorici, in cui una fortezza militare resta come ultimo baluardo della ‘civiltà’ contro i barbari che la circondano: penso in particolare al Deserto dei tartari di Dino Buzzati (1940) e ad Aspettando i barbari di John M. Coetzee (1980). Le differenze tra Antigone/ Nizam e gli americani paiono incolmabili: tutti i comportamenti di Nizam ingenerano sospetto o incomprensione, come l’offerta in dono di un agnello sgozzato. E d’altra parte la ragazza rifiuta tutto ciò che le viene offerto, dal cibo alle cure mediche. Accetta di essere perquisita: e il suo onore viene così irrimediabilmente ferito. Tra i due mondi non c’è alcun ponte, alcuna possibilità di comunicare. E dunque: chi sono i barbari? E chi invece i portatori di civiltà? Chi sono i carnefici e chi sono le vittime?

Su tutto il racconto aleggiano queste sostanziali domande: l’interprete afgano, che perora la causa americana dopo che i talebani gli hanno sterminato la famiglia, sospetta di Nizam, la considera fino all’ultimo un pericolo, un diversivo mandato dai talebani per distrarre i soldati della base e portare a segno un altro attacco. Il sospetto pare giustificato: Nizam in effetti nasconde un coltello, dunque sembrerebbe pronta anche ad uccidere. Eppure nessun essere umano potrebbe apparire più inerme di lei. Ma vuole davvero uccidere, come il fratello? E perché il fratello ha capitanato l’attacco terroristico? Gli americani non capiscono il ruolo e l'appartenenza del morto il cui cadavere è conteso. Tutto appare confuso: perché gli afgani non sono solidali tra loro? Sono un solo popolo, o sono un mosaico di etnie? Il fratello di Nizam era un talebano? 

Donna e ragazzi in Afghanistan

Il fratello di Nizam/Antigone, si viene a sapere dopo, non era un talebano, ne era anzi un oppositore. L’attacco alla base americana aveva dunque motivi patriottici, voleva portare una rappresaglia contro i potenti alleati del nuovo governo, tirannico come quello dei talebani. Al patriottismo idealistico e nondimeno violento di uomini come Frobenius, dalla parte americana, si contrappone il patriottismo altrettanto violento degli afgani, vittime sia dei talebani che degli occupanti.

Il mondo dell’Afghanistan diviene dunque un coacervo inestricabile di situazioni, un mondo diverso eppure accomunato al nostro dall'uso della violenza; un mondo che vive in un eterno, crudele, presente, un mondo senza memoria e senza passato. Solo qualcuno dei più scrupolosi militari americani si è peritato di leggere la storia afgana, nessuno conosce le lingue del posto, i soldati navigano nell'ignoto e nell'alterità. Ed anche quando è più consapevole, il punto di vista occidentale rimane distorto: imbevuto di storia antica, quelle terre restano anche per il colto e idealista Frobenius le lande in cui arrivò Alessandro Magno, cioè terra di conquista e di occupazione, da cui si va via quando non fa più comodo, a dispetto delle vite sprecate e distrutte, a dispetto della libertà promessa e mai davvero donata. 

L’Afghanistan, nel romanzo, si trasforma in uno scenario distopico senza precise caratteristiche geografiche, un luogo desertico, lunare, vuoto d’uomini, da incubo. In questo altrove, si rivelano le inquietudini della società americana che dal secondo dopoguerra si confronta con guerre all’apparenza giuste, intraprese ufficialmente per motivi umanitari o per reazione al terrorismo, ma animate da puri intenti imperialistici. Il romanzo, così, appare quasi una lunga sequenza onirica, in cui le menti dei personaggi, tutte instabili e disturbate, danno forma alla cattiva coscienza dell’espansionismo bellicista americano, al ricordo vivo delle ultime guerre, dalla Corea al Vietnam all’Iraq.

Nel resoconto delle voci americane si rispecchia anche, attraverso storie private e quotidiane, il trauma dell’11 settembre, la paura permanente e l’orgoglio nazionalistico spesso cieco e razzista, lo stress post-traumatico che ha creato, sin dal Vietnam, schiere di disadattati, incapaci di tornare alla vita civile e tormentati dalle esperienze di guerra.  

Visione di guerra notturna

Il romanzo di Roy-Bhattacharya vale dunque come una condanna senza appello del colonialismo occidentale, della guerra e del suo orrido mondo artificiale: un incubo perpetuo, di deliri, confusione, sangue, polvere; un mondo in cui l’umanità viene disonorata, cancellata, dissipata, sia dai vincitori che dai vinti. Non vi sono dei, nel mondo ‘altro’ della guerra, solo gli eventi furiosi della natura, le tempeste di sabbia, la nebbia impenetrabile, la pioggia, la fitta oscurità, il gelo ed il caldo che dissecca, segni terribili di una natura che domina la fragilità degli uomini burattini, feriti, devastati, smembrati dalle loro stesse armi, simbolo ironico del progresso tecnologico. La natura schiaccia contro le montagne gli elicotteri, si fa gioco degli occhi dei droni, avvolgendoli nell’oscurità. La guerra non decreta per nessuno la vittoria, ma solo una profondissima umiliazione delle parti, con l’amara constatazione che «tante cose ci sono terribili, ma nessuna è più terribile dell’uomo» (Antigone, vv. 332-333).

Forse solo la musica e il canto, che riecheggia nella desolazione impietosa del deserto, atto di coraggio e di resistenza da parte di Nizam, donna dalla forza di mille eserciti, può provare, almeno per un attimo, a lenire la dolorosa coscienza del limite per tutti invalicabile: l’ineluttabilità della morte.

Deserto in Afghanistan

 

[1] Il riferimento alla tragedia di Sofocle diventa esplicito nel titolo dato alla traduzione francese apparsa presso Gallimard, Une Antigone a Kandahar, mentre la traduzione italiana, uscita per atmosphere libri, suona  L’attesa. Si può acquistare qui:  https://www.atmospherelibri.it/?s=attesa&post_type=product

 

Alcune delle foto sono tratte dal Diario afgano di Alberto Alpozzi (2012), reperibile qui: http://www.albertoalpozzi.it/blog/diario-afghano.html. Altre foto sono di Enrico Mascheroni, dai suoi 'Appunti di viaggio', pubblicate qui: https://www.nikonschool.it/life/afghanistan.php. La foto della ragaza con burka in sedia a rotelle è di Romulo Sans: https://trendland.com/romulo-sans-crushed-at-white-box-gallery/ Le altre sono immagini di agenzia o reperite in rete.