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Forse non è un caso che a essere premiati dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences come migliori attori protagonisti della anomala e sconvolta trascorsa stagione cinematografica siano stati scelti la Frances McDormand di Nomadland (Chloé Zhao, 2020) e l’Anthony Hopkins di The Father (Florian Zeller, 2020).

In molti hanno scritto – nonostante i pronostici puntassero sulla vittoria di due attori afroamericani (uno dei quali, Chadwick Boseman, morto peraltro prematuramente e da mesi individuato come trionfatore postumo) – che questi premi appaiono di fatto scontati poiché assegnati a due proposte attoriali di facile impatto: la prima, consumata in vesti e contesti disagiati, tanto coraggiosa da sfiorare l’automortificazione; la seconda, alle prese con l’ormai consueto numero del malato di Alzheimer, tanto strappalacrime da apparire al fondo ricattatoria.

In realtà, è bene sottolinearlo, ci si trova dinanzi alle prove francamente superlative di due grandi attori che sorreggono sulle proprie spalle i rispettivi film per l’intera loro durata e per i quali tra l’altro quei ruoli sono stati pensati e scritti. Due ruoli che presentano percorsi diversi eppure per certi versi simili tra loro, accomunati – oltre che dalla musica intimistica di Ludovico Einaudi – da una condizione esistenziale di disagio e dalla assillante ricerca di un proprio centro; ruoli nei quali ravvisare lontani richiami alle creature della letteratura pirandelliana e mitteleuropea di inizio Novecento. Nonché, pensiamo, l' archetipo narrativo odissiaco, cioè del'essere umano che cerca se stesso e lo cerca compiendo un lungo e difficile  il nostos verso il luogo d'origine, la casa, o meglio verso quel posto che si vuole riconoscere come casa.  

 

Di Nomadland, dominatore dell’ultima stagione dei premi da Venezia agli Oscar, si è detto di tutto. Lo si è per lo più esaltato o criticato perché letto come un pamphlet anticapitalistico che indugia sugli umili impieghi della protagonista – tra cui addetta allo stoccaggio merci per Amazon, cameriera in un fast food, donna delle pulizie in un bagno pubblico, raccoglitrice di patate – costretta a lasciare il piccolo agglomerato di Empire nel Nevada in seguito alla chiusura della US Gypsum, l’azienda specializzata nella lavorazione del gesso in cui era impiegata, e ad andare così alla ricerca di un altro avvenire.

Si è decantata la sua fotografia assieme alle immagini traboccanti di suggestivi panorami e poetiche inquadrature e lo si è trovato mortalmente noioso proprio per lo stesso motivo. Lo si è lodato per lo sguardo realistico non filtrato e lo si è ferocemente biasimato in nome di un presunto compiacimento nel mostrare la povertà e persino le precarie condizioni igieniche della protagonista.

Lo si è amato per il suo messaggio di libertà e gli si è rimproverato di essere una pallida copia dei film del passato sul mito della frontiera e del più recente Into the Wild (Sean Penn, 2008). Lo si è celebrato perché girato da una giovane donna di origini asiatiche ma si è guardato con sospetto alla moltitudine di riconoscimenti ricevuti che per tanti forse non avrebbe ottenuto se a dirigerlo fosse stato un uomo bianco.

 

Ma Nomadland è evidentemente molto altro. È un film di incontri e di rincontri, corredato da un palpabile rispetto per ogni forma di vita e da uno sguardo che non vuole giudicare o emettere sentenze ma che pone piuttosto delle domande allo spettatore. La sequenza che forse più di ogni altra racchiude il senso di questa pellicola arriva ben oltre la sua metà.

La protagonista Fern, che abbiamo visto girovagare nel suo van per gli Stati Uniti e sottoporsi a lavori dignitosi ma umili e a qualsiasi tipo di privazione rivendicando una propria indipendenza fisica ma soprattutto spirituale e di pensiero, si ritrova costretta a chiedere un aiuto economico alla sorella Dolly (Melissa Smith) per poter riparare la sua casa su quattro ruote.

Dopo circa 70 minuti di paesaggi selvaggi, di suggestivi tramonti, ma anche di enormi capannoni per stoccaggio merci e di claustrofobici interni di furgoni, ci ritroviamo in un tipico scenario da serie televisiva yankee, catapultati in un tranquillo viale che costeggia ville curate e abitate dalla media borghesia benestante di una non precisata cittadina. Sembra un pesce fuor d’acqua, Fern, in quel contesto ordinato e sonnacchioso nel quale si aggira con la sua andatura da cowgirl disarcionata. Dopo molto tempo, si rifà viva soltanto nel momento del bisogno con una sorella comprensiva e paziente. Il rito del barbecue nel cortile in compagnia di alcuni amici della sorella e del cognato pare stringere ancora di più la protagonista nelle spire della vita organizzata e abitudinaria da cui è fuggita per non appartenere a un mondo economicamente e socialmente ingiusto, come tiene a precisare dinanzi agli invitati che discettano di bolla speculativa e di affari fatti durante la crisi finanziaria.

A stemperare la tensione venutasi a creare in questa discussione è Dolly, di cui intuiamo un abituale ruolo di mediatrice, che nel ricordare e giustificare lo stile di vita della sorella, richiama lo spirito dei pionieri e dunque di una tradizione tutta americana.

Dopo lo scontro diurno tra Fern e il mondo che ha lasciato ormai da tempo, avviene il confronto notturno tra le due sorelle, a loro modo esponenti di due opposte ma complementari american ways of life. Dolly ha finalmente l’occasione di confessare a Fern quanto le sia mancata e quanto abbia sofferto per la sua decisione estrema di allontanarsi anni addietro dalla famiglia. Ma sottolinea anche un aspetto che serve a comprendere meglio il personaggio: le riconosce, cioè, di essere sempre stata più eccentrica e audace perché più sincera di chiunque altro e capace di leggerle nel profondo.

A spingere Fern, da sempre insofferente nei riguardi di una vita “normale” e “stanziale”, verso la vita nomade non è stata solamente la crisi economica né tantomeno il capitalismo, quanto piuttosto la perdita di un centro che aveva trovato nel rapporto col marito ammalatosi e poi scomparso, evento che ha ulteriormente radicalizzato uno spirito già libero e indipendente. Uno spirito non scevro del tutto da scelte ideologiche, che però non le impediscono di lavorare per una multinazionale come Amazon o di chiedere i soldi in prestito alla sorella agiata.

Non ha altra scelta che la strada, Fern. E viaggiare per non fermarsi. In questo suo peregrinare incontra persone differenti da lei ma che come lei hanno perso qualcosa o qualcuno. Da questo punto di vista, il personaggio di Fern può essere letto come una versione femminile e moderna di Ulisse che torna nella sua Itaca e dalla sua Penelope – Dolly, in questo caso – solo momentaneamente.

E tutti i personaggi che incontra sul suo cammino occupano narrativamente un ruolo ben preciso. A cominciare da Linda (Linda May), la prima donna nomade che conosce e da cui viene introdotta nel mondo dei senza fissa dimora su ruota, e dall’anziana malata terminale Swankie (Charlene Swankie) che vuole rivedere, prima di morire, il luogo dove scorse anni prima una moltitudine di nidi di rondine. E poi c’è Dave (David Strathairn), la Nausicaa del film, vale a dire l’uomo che forse può occupare il posto nel cuore di Fern dopo la perdita del marito, che intuiamo essere stata devastante per il suo equilibrio.

Nasce con lui un rapporto non meglio precisato, una relazione che in realtà non decolla per il rifiuto da parte di Fern di qualsiasi coinvolgimento emotivo, tanto che quando andrà a trovarlo presso casa sua, oramai ritornato ai doveri di padre di famiglia in occasione della nascita del nipote, le basteranno poche ore – durante le quali ha modo di vedere quell’uomo che tanto l’aveva colpita calato nei panni di nonno amorevole, partecipando non senza imbarazzo a una cena con la famiglia al completo – per capire ancora una volta di trovarsi in un posto che non le appartiene, come efficacemente mostra la scena in cui all’alba, mentre tutti dormono ancora, sfiora gli oggetti di quella casa prima di lasciarla in silenzio.

Perché Fern appartiene alla natura, al mare in tempesta, ai cieli sconfinati, all’aria aperta. E alla propria solitudine. Può al massimo di tanto in tanto ritrovarsi con la comunità di nomadi come lei, ai quali non deve spiegare nulla e dai quali può essere compresa. Come dal giovane vagabondo Derek (Derek Endres) che incrocia in un paio di occasioni, e che forse le ricorda una versione maschile e più giovane di sé, cui è legata da un banale ma significativo scambio di accendini.

È invece un orologio da polso l’oggetto che segna l’angosciante racconto di The Father, trasposto brillantemente al cinema dall’autore del già acclamato testo teatrale (2012). Un oggetto la cui costante perdita da parte del protagonista ben simbolizza e sintetizza la progressiva perdita di sé e delle proprie certezze. Quel che potrebbe a prima vista apparire l’ennesimo film sullo smarrimento della memoria e sulla sindrome di Alzheimer si dimostra invece un intelligente dramma da camera in cui allo spettatore viene riservato il medesimo trattamento assegnato al protagonista.

Per buona parte della durata del film, si vive cioè lo stesso smarrimento vissuto dall’anziano borghese Anthony chiuso in un confortevole appartamento londinese accudito dalla figlia Anne (Olivia Colman). Progressivamente, tanto gli ambienti quanto le persone accanto a lui si trasformano, cambiano sembianze e prospettive, e ci si mette un po’ a ricostruire lo stato della vicenda e a comprendere come stiano in effetti le cose.

Lo spettatore ci riesce, ma Anthony non più. Si partecipa con lui alla incapacità di cogliere la realtà ma al tempo stesso si comprende il tormento della figlia che cerca di reagire a questa graduale lacerante perdita. E un indizio sonoro di questa focalizzazione in sintonia col protagonista è offerto proprio durante i titoli di testa del film, quando seguiamo Anne per le strade di Londra recarsi da suo padre sulle note di What Power Art Thou? dal terzo atto del King Arthur di Henry Purcell: l’aria che soltanto alla fine della sequenza scopriamo essere ascoltata in cuffia da un assorto Anthony sprofondato nella sua poltrona.

 

Se la protagonista di Nomadland fugge dal mondo degli agi per perdersi nella natura e allontanarsi dai propri affetti bastando a se stessa, non si sa ancora per quanto ancora, il protagonista di The Father invece non può più fare a meno degli altri nel cercare di restare aggrappato ai propri ricordi e alle abitudini rassicuranti.

E se entrambi i personaggi sono condannati a una perenne messa in discussione della propria percezione della realtà e del mondo che li circonda, anche il loro agire, sia pure per motivi diversi e in contesti differenti, comporta ripercussioni sulla vita e sull’affettività dei propri cari. La figura di Dolly in Nomadland, che, come si diceva, ha dovuto fare i conti con la lunga assenza di Fern, non può fare altro che vedere e accettare ancora una volta la sorella andare via, e prendere atto che quella breve visita tanto improvvisa quanto attesa è stata motivata da semplici richieste economiche.

Anche il personaggio di Anne in The Father è costretto ad accettare l’allontanamento del proprio caro, prima mentale e poi anche fisico, quando si rende conto di essere incapace di arginarne la caduta verso l’incoscienza totale, scegliendo quindi di farlo ricoverare presso una struttura per malati di Alzheimer. È nel loro sconfitto sguardo, rivolto rispettivamente alla sorella scomparire nella luce dell’alba e al padre rinchiuso all’interno del nosocomio, che risiede il dolore non detto di chi subisce la vita degli altri.

E allora forse non è davvero un caso se la maggior parte dei votanti dell’Academy abbia voluto saggiamente premiare, a suggello di una stagione cinematografica ancora ingolfata in questa pandemia che ha sconvolto le vite di tutti, due storie sulla ricerca del sé e due magnifici interpreti i cui ruoli sono già divenuti iconici.