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Alcune delle notizie dalla guerra che si sta combattendo in Ucraina riportano alla mente temi e questioni che si trovano nella tragedia greca: a chi appartiene il corpo del nemico ucciso? Perché si infierisce sul cadavere del nemico o lo si tortura quando è prigioniero?

Perché al nemico vengono negati, ancora nel XXI secolo e nonostante la Convenzione di Ginevra, dignità, rispetto, compassione? Il corpo del soldato ucciso in guerra 'appartiene' allo Stato per cui ha combattuto, che deve onorarlo con funerali pubblici, o deve subito essere restituito alla famiglia?  

Nella tragedia greca, la consuetudine, basata soprattutto sulla forza del legame familiare che impone il lutto e l’onore dei morti, sembra contrapporsi a norme che pongano al primo posto, rispetto all’ambito del privato, la ‘cosa comune’ in senso materiale ed etico: pensiamo ovviamente ad Antigone, che si oppone all’ordine di Creonte di lasciare insepolto Polinice in quanto nemico della città, opposizione coraggiosa  in nome di leggi non scritte basate sulle tradizioni e sulle ritualità  religiose.  Aiace si uccide, Museo di Vulci

La questione del destino che spetta al corpo del nemico sta al centro anche dell'Aiace di Sofocle. I capi greci vorrebbero negare la sepoltura all'eroe che si è ucciso, perché a un nemico non si concedono onori funebri. Aiace, infatti, era divenuto loro nemico, voleva vendicarsi di loro, torturarli e trucidarli, perché gli avevano negato il premio promesso. Aiace, uno degli eroi più valorosi e forti dell'esercito greco, era diventato così un temibile nemico interno al suo stesso esercito, pur non essendo affatto un traditore. I propositi di vendetta di Aiace non erano però riusciti, perché la dea Atena lo aveva reso folle e cieco: così quello aveva menato strage tra mandrie di animali, credendo invece di stare uccidendo i capi greci che lo avevano offeso. Quando infine prende coscienza di ciò che era accaduto, la vergogna di essere deriso non gli lascia scampo: nella tragedia di Sofocle, Aiace si uccide trafiggendosi sulla sua stessa spada.

Aiace vale insomma come una vittima dello stesso sistema a cui appartiene, a cui non ha voluto prestare obbedienza fino in fondo: il sistema lo ha rifiutato e ne ha decretato l'estraneità e la diversità. Non diversamente Filottete viene abbandonato su un'isola deserta dall’esercito greco che sta navigando verso Troia perché la ferita al piede lo rende inservibile come soldato e le sue urla di dolore disturbano la vita comunitaria.

Queste tragedie ci dicono anche che ogni guerra si basa sull'uso del corpo umano e sulla sua reificazione. Il corpo del soldato racconta la guerra, con le sue cicatrici delle ferite, con i traumi non superati, anche con i segni evidenti, come i tatuaggi, che siano i numeri dei campi di prigionia o le svastiche naziste, che denunciano chiaramente da che parte si sta o si è stati costretti a stare. Il corpo del soldato, però, è una cosa, una macchina che deve funzionare per essere utile, un'arma che agisce sulla base di impulsi esterni, non seguendo la propria volontà. Tanto più quando muore, il soldato diventa una 'cosa', un ingranaggio rotto. Naturalmente la violenza della guerra non trasforma solo i cadaveri dei soldati in ‘cose’, ma anche tutte le altre vittime: nel racconto della guerra esse sono numeri e solo la pietà privata può restituire loro la dignità di esseri umani, reintegrandoli nella comunità di cui fanno parte attraverso i funerali.

La forza ha come effetto la privazione dell'umanità, come scriveva Simone Weil (1909-1943) nel memorabile saggio L'Iliade poema della forza: «Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’ Iliade è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae». La guerra è l’esercizio supremo della forza sull’essere umano. A questo aspetto della guerra e del suo ripetersi nella storia umana fu sensibile un poeta e drammaturgo come Heiner Müller (1929-1995), davvero poco affine a Simone Weil. Eppure da due punti di vista opposti, l'uno da una visione materialistica della storia, l'altra da una visione intrisa di spiritualità, i due giungevano, guardando ai ‘classici’ greci, a Omero come alla tragedia, a conclusioni simili rispetto all’effetto della guerra: la reificazione del cadavere e in generale del corpo umano, la sua riduzione a 'nuda vita'.

 

Nei suoi drammi e nella sua poesia, Heiner Müller fu molto attento alle ripercussioni dei traumi psicologici sul corpo umano. In parte, questo fu conseguenza del suo rapporto con la prima moglie, la poetessa Inge Müller (1925-1966, nell'immagine sotto), che durante i bombardamenti di Berlino rimase sepolta per giorni sotto le macerie della propria casa e si era salvata solo grazie ad un cane che, sepolto con lei, aveva attirato l’attenzione dei soccorritori abbaiando. Inge Müller non superò mai il trauma e dopo vari tentativi di suicidio riuscì nel suo intento. Sicuramente questa vicenda ebbe molto peso nell’immaginario di Heiner Müller, che come uomo di teatro si interrogò costantemente sulla rappresentabilità dei processi psichici e delle emozioni sulla scena attraverso il corpo dell'attore.

Inge Mueller (1925-1966)

Perciò tra i personaggi tragici greci predilesse Filottete, che funge anche come sua figura di rispecchiamento nel momento in cui il giovane Müller, nel 1961, fu espulso dal sindacato degli scrittori della DDR e fu vietata la rappresentazione delle sue opere. La ferita di Filottete concretizza fisicamente e visivamente la frattura che lo separa dalla comunità, nella quale lo stesso Filottete, l’emarginato, vale come 'ferita', come l'anello che non tiene, lo smaglio nella trama di una società compatta. Ma se la vicenda mitologica di Filottete lascia aperta la possibilità di una sua reintegrazione nella comunità, quella di Aiace, invece, non lascia adito a speranza alcuna. Anche per questo, nell’ultima fase della vita di Heiner Müller, la figura di Aiace è ricorrente nella sua poesia.

Combattente di Azovstal mostra i tatuaggi sulle braccia

Aiace non ha alternative al suicidio, avendo perso, con il legame con la comunità, il suo ruolo nel mondo e la sua funzione rispetto agli altri ma anche rispetto a sé stesso. La sua storia di disperazione ha tanto più senso nell’ambito di una comunità militare che si basa su valori come onore e rispetto e nella quale una vita nel disonore e nella vergogna non è ammissibile. Ma Heiner Müller rende Aiace una figura allegorica dal significato più ampio, ossia l’archetipo di tutti coloro che hanno fortemente creduto ad un’idea, sono stati ingannati dalle promesse di un capo o di un movimento, hanno dato la loro vita per un sogno, per un’utopia, hanno creduto di difendere la patria e non possono sopportare il disincanto e la disillusione.  Aiace diventa anche una figura di identificazione autobiografica, dato che Müller, come del resto tutta la sua generazione, ha vissuto fra due dittature, quella nazista e quella socialista, e ha dovuto esperire e assistere alla disillusione causata dall’una e dall’altra.

L’adesione di massa al nazismo, infatti, non poteva certo essere giustificata con un obnubilamento della coscienza collettiva. I Tedeschi, la gran parte dei Tedeschi, avevano creduto alle promesse di rinnovamento della Germania propagandate da Hitler e dai nazionalsocialisti: perciò, quando l’ultimo atto del regime stava per essere scritto, molti si suicidarono perché non potevano sopravvivere alla disillusione. Lo stesso accadde nella dittatura di segno ideologico contrario, il comunismo. Quando si vennero a conoscere i crimini commessi da Stalin, anche oscuri funzionari del partito comunista tedesco, dopo aver tolto dal muro l’effige della ‘grande guida’ del movimento dei lavoratori e averla calpestata, si tolsero la vita.

 

Così Aiace, il ‘doppiamente ingannato’, dagli uomini e dagli dei, diventa per Heiner Müller l’emblema di tutti coloro che sono stati ingannati dalle ideologie e dalle utopie politiche. Nella storia umana la guerra costituisce il mezzo perché le ideologie provino a realizzare i loro progetti espansionistici e nella guerra il singolo individuo, che crede con tutto sé stesso a ciò per cui combatte, si reifica e, se muore, se ne perde pure il ricordo. Questo accade dalla guerra di Troia in poi, nel vortice del «Tango» della storia, come lo definisce Müller, dalla rivoluzione francese a quella bolscevica, dalle guerre napoleoniche a quelle contro Hitler, dalla guerra dei partigiani a quella dei terroristi: tutto si condensa nella solitudine incolmabile del singolo individuo, che diventa carne da macello o che poi si rende conto di essere stato dalla parte sbagliata e che, come Aiace, non può che abbracciare la propria stessa spada infissa al suolo, portando a termine la propria vita con un gesto eroico, in cui però il nemico non è un altro, ma sé stesso. Cade così l’ultima illusione: nella guerra non esiste mai una parte sbagliata e una giusta, tutte le parti in guerra sono dalla parte sbagliata, e dopo la guerra, come dopo quella di Troia, resta solo il dolore «di una cagna che ulula» intorno alla città distrutta.

Klaus Zilla, immagine per Ajax zum Beispiel di Heiner Mueller

Nella tragedia di Sofocle, come dicevamo, anche il cadavere di Aiace è oggetto di una contesa crudele e grottesca contemporaneamente, perché i capi greci vorrebbero negargli la sepoltura, dato che il nemico resta nemico anche dopo la morte. Un’idea che non è affatto anacronistica, come sta mostrando, per quel che ne riusciamo a sapere, la guerra in Ucraina. Un’idea che contribuisce al pessimismo storico dell’ultima fase della vita di Heiner Müller, dopo il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, quando lui stesso sa di avere ancora poco da vivere, essendo malato di cancro.

Dopo il fallimento del socialismo reale, il temuto mostro capitalistico sembrò al poeta impossessarsi in maniera ormai inevitabile di ogni aspetto della vita e della storia. Tutto, compresa l’arte, diventava merce, un processo inaccettabile per chi aveva combattuto in prima persona l’imposizione del denaro come unico metro di valore. A chi, come Aiace, scopre di non aver saputo vedere la realtà, non resta che scomparire di scena. La poesia, che era sopravvissuta persino all’orrore di Auschwitz, non ha più senso, non riesce più a trasformare il mondo e a trasfigurarlo. Non si possono più scrivere tragedie, perché la parola non riesce più a rappresentare il ripetersi inarrestabile delle tragedie della storia. Non resta allora che inventare il silenzio. Non resta allora che il sangue di Aiace, il sangue degli animali che ha ucciso, il sangue del suo corpo trafitto.

 (…)

Comunisti caduti in guerra contro Hitler

giovani come gli incendiari di oggi poco

sapendo forse come gli incendiari di oggi

sapendo altro e altro non sapendo

succubi di un sogno che rende soli

nel traffico circolare della merce con la merce

i loro nomi dimenticati e cancellati

nel nome della nazione dalla memoria

della nazione qualunque cosa sia o possa diventare

nella miscela attuale di violenza e oblio

nel freddo dello spazio senza sogni

IO AIACE CHE SPARGE IL SUO SANGUE

CURVATO SULLA SUA SPADA SULLA SPIAGGIA DI TROIA

 

(da: Aiace per esempio, Ajax zum Beispiel, poesia scritta nel 1994, ora in Heiner Müller, Die Gedichte, Frankfurt 1998 (= Werke 1), pp. 292-297, traduzione di Anna Maria Carpi in Non scriverai più a mano, Scheiwiller, 2006. Si può ascoltare qui: https://www.youtube.com/watch?v=MkxUJrUimLQ)

Commemorazione di Stalin in Russia