default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Adel Hakim e il Teatro Nazionale Palestinese.

Adel Hakim nacque a Giza, in Egitto, vicino al Cairo nell’ottobre 1953, ed è morto a Ivry-sur-Seine, in Francia, nell’agosto 2017.

Dopo l’infanzia trascorsa in Egitto e la scuola con i gesuiti in Libano, si trasferì in Francia nel 1972, dove conseguì un dottorato in filosofia e si formò in teatro con Ariane Mnouchkine e John Strasberg. Con l’attrice e regista francese Élisabeth Chailloux, fondò nel 1994 la compagnia Théâtre de la Balance e condivise dal 1992 sino alla morte la direzione del Théâtre des Quartiers d’Ivry, fondato da Antoine Vitez nel 1972. In questo teatro nel 2011 Hakim avviò una partnership con il Teatro Nazionale Palestinese El-Hakwati (https://el-hakawati.org/)  a Gerusalemme Est, scegliendo Antigone di Sofocle per inaugurare tale collaborazione.

L’Antigone debuttò al Teatro Nazionale Palestinese nel 2011;  lo spettacolo fu poi rappresentato a Cipro, in Belgio e in Francia, dove ricevette il Premio per il miglior spettacolo straniero 2012, ed infine, nel 2017, alla Comédie di Ginevra, con una risonanza internazionale che costituisce un’eccezione per una produzione del Teatro Nazionale Palestinese: altre messe in scena, come Des Roses et du Jasmin dello stesso regista, che racconta la storia tragica di una famiglia dal 1944 al 1988, il cui destino si intreccia a quello degli ebrei e dei palestinesi, non hanno avuto una diffusione paragonabile a quella dell’Antigone. La ragione del successo di Antigone sta certamente nel fatto che il mito offre materiale considerato ‘universale’ e perciò lontano dalle questioni della contemporaneità, un racconto che si presta a riflessioni generali senza legarsi strettamente all’oggi, ponendosi al di sopra delle dispute più marcatamente politiche.  

L’ Antigone di Hakim rappresentata al Théâtre des Quartiers d’Ivry si può vedere a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=hxS5TnvxznA

Il Teatro nazionale palestinese è stato chiuso oltre 200 volte dall’autorità israeliana sin dalla sua fondazione nel 1984, con varie motivazioni tra cui i debiti. Si è sostenuto solo con finanziamenti privati che arrivano da collaborazioni internazionali, non da Israele e non dalla Palestina.  L’ultima attività che sono riuscita a rintracciare è un festival per bambini all’inizio del 2024. Il teatro non può operare nei confini israeliani di Gerusalemme (https://www.jerusalemstory.com/en/organization/palestinian-national-theatre-el-hakawati). Per una testimonianza di Gabriele Vacis, che vi ha lavorato nel 2009, vedi qui: https://www.teatroestoria.it/pdf/30/Gabriele_Vacis_458.pdf. La tesi dottorale di Astrid  Chabrat-Kajdan sul Teatro Nazionale Palestinese è per me inaccessibile.

L’Antigone del Théâtre National Palestinien (photo: © Nabil Boutros)

 Antigone in arabo.

Poiché le rappresentazioni dell’Antigone si sono svolte principalmente al di fuori della Palestina, davanti a un pubblico per lo più non arabofono, il testo di Sofocle è stato tradotto due volte: dal greco all’arabo e poi dall’arabo al francese. Hakim ha utilizzato la traduzione in arabo letterario realizzata dall’egiziano Abdel Rahman Badawi. La scelta dell’arabo egiziano e non dell’arabo palestinese per la traduzione si spiega con le qualità poetiche attribuite a questo dialetto. Tuttavia, essa comporta delle conseguenze per gli attori e il pubblico palestinese. Dall’inizio degli anni Settanta, infatti, le opere teatrali palestinesi sono rappresentate esclusivamente in dialetto palestinese, per raggiungere il pubblico tanto delle città quanto dei villaggi. È stato quindi impegnativo per gli attori palestinesi imparare e comprendere le proprie battute, così come per il pubblico seguire lo spettacolo durante le rappresentazioni in Palestina. La scelta della traduzione mostra perciò che il pubblico principale a cui lo spettacolo era rivolto non era quello palestinese, ma internazionale, e che Hakim pensava principalmente a un pubblico francese o francofono. Questo slittamento linguistico opera un distanziamento non solo dall’originale greco, ma anche da un parallelismo troppo semplice tra la vicenda mitologica messa in scena da Sofocle e la situazione palestinese. In generale, la traduzione si attiene al testo di Sofocle, talora semplificandolo. C’è solo un sostanziale cambiamento all’originale e alla struttura della tragedia.

Il quinto e ultimo stasimo del coro, infatti, viene soppresso e sostituito da una poesia di Mahmoud Darwish, uno dei maggiori poeti arabi contemporanei. Nato a al-Birwa, nell’alta Galilea, durante la costituzione dello Stato di Israele nel 1948, il suo villaggio fu distrutto e la sua famiglia fuggì in Libano, rientrando segretamente in patria l’anno successivo. Da giovane, Darwish dovette affrontare gli arresti domiciliari e la reclusione per il suo attivismo politico e per aver letto pubblicamente le sue poesie. Per ventisei anni, fino al 1996, anno del suo rientro in Palestina (Sono venuto ma non sono arrivato/ sono giunto ma non sono tornato), visse in esilio tra Mosca, il Cairo, il Libano, la Tunisia e Parigi. Muore all’età di 67 anni a Houston, in Texas, il 9 agosto 2008, per le complicanze di un delicato intervento al cuore. «In tutti questi spostamenti, lo scrittore palestinese studierà la lingua ebraica (la prima lingua straniera che ho imparato, all’età di dieci o dodici anni) e si dedicherà alla poesia, trasformandola in una “patria” per il popolo palestinese apolide. Tutti luoghi che costituiranno le tappe del vissuto del poeta, una geografia legata agli odori perché ogni odore “è memoria, è tramonto” che diventa per sempre traccia indelebile»[1]. Considerato il poeta più importante e rappresentativo della Palestina e uno dei più grandi poeti arabi contemporanei, Mahmud Darwish ha pubblicato una trentina di raccolte di poesie e prose, tradotte in oltre venti lingue, tra cui, parzialmente, l’italiano.

Adel Hakim sostituisce dunque il quinto stasimo della tragedia greca con la poesia Su questa terra del poeta nazionale palestinese recitata dalla voce registrata di Darwish. Cerchiamo di capire perché.

L’Antigone del Théâtre National Palestinien (photo: © Nabil Boutros)

Il coro dell’Antigone e la poesia di Darwish.

Il quinto e ultimo stasimo dell’Antigone si situa dopo il contrasto tra il veggente Tiresia e Creonte. Oscuramente, Tiresia prevede gravi sciagure per il nuovo re che ha appena condannato Antigone a morte: Creonte lo contraddice, ma poi cambia improvvisamente idea, si avvia di fretta per seppellire finalmente Polinice e liberare Antigone. A questo punto, nella tragedia sofoclea il coro interviene per cantare le lodi di Dioniso e di Tebe. Ecco la traduzione dei vv. 115-1154:

Dio dai molti nomi, vanto della sposa cadmea e stirpe di Zeus dal tuono profondo, tu che vegli sull’inclita Italia e regni nelle valli di Demetra Eleusinia, che sono di tutti; o Bacco, che abiti la città madre delle Baccanti, Tebe, presso l’umida corrente dell’Ismeno, vicino al seme del drago selvaggio,

te vide sulla rupe a due cime la luce fumosa delle torce, dove si avanzano le nonfe di Corico, seguaci di Bacco; te vide la sorgente Castalia; te mandano le alture coperte d’edera dei monti di Nisa e le verdi balze ricche di vigneti a visitare le strade di Tebe, quando parole immortali gridano euoè.

Somma fra le città tutte, questa tu onori, insieme alla madre incenerita dal fulmine; anche ora, mentre la città intera è posseduta da morbo violento, va’ con il tuo passo purificatore, oltre le pendici del Parnaso o lo stretto che geme.

O tu che guidi le danze degli astri fiammeggianti, custode di voci notturne, figlio nato da Zeus appari, o sovrano, insieme alle tue compagne, le Tiadi, le quali, invasate, tutta la notte danzano in onore di Iacco che dà gioia.  (Traduzione di Luigi Belloni)

Il coro invita Dioniso a proteggere Tebe e sembra nutrire ancora speranza che la città sia guarita dal morbo violento della discordia e purificata dallo scempio del cadavere lasciato insepolto. Il canto corale può quindi essere inteso come un annuncio di purificazione, di catarsi, di guarigione, che tocchi Tebe, la terra cara al dio, ma profanata prima dall’incesto di Edipo, poi dalla guerra fratricida e infine dall’insepoltura di un morto. I cittadini, che hanno visto succedersi sul trono il mostruoso Edipo e poi il tirannico Creonte, che hanno tremato per il tentativo di invasione di un esercito nemico capitanato da un figlio di Edipo, Polinice, ora vorrebbero finalmente liberarsi dalla maledizione che accompagna la famiglia regnante.

La catarsi auspicata dal coro in questo quinto stasimo ha anche un valore metateatrale: nel momento più alto della tensione drammatica, lì dove forse non tutto è perduto e Creonte può porre fine ai suoi errori, il pubblico spera persino che la vicenda inaspettatamente arrivi ad un esito felice. Assiste col fiato sospeso al precipitarsi dei fatti con l’aspettativa di giungere all’epilogo: ce la farà Creonte a seppellire il morto e a liberare Antigone, che ha fatto rinchiudere in una prigione di pietra, senza aria e senza luce? Nel finale concitato, il pubblico prova passioni violente, e certamente la ‘pietà’ e la ‘paura’ che sono le emozioni tragiche per eccellenza.  Il canto corale, rivolto a Dioniso, costituisce indirettamente un auspicio che tali passioni si acquietino, lasciando campo solo alla gioia. Ma le cose non vanno così.

Creonte – è vero -  si affretta a seppellire Polinice, e pensa di porre rimedio alle sue sciagurate decisioni. Ma arriva troppo tardi, nonostante le aspettative del coro e del pubblico, e sarà travolto dalla catastrofe. Il figlio Emone, fidanzato di Antigone, che aveva scoperto la ragazza ormai morta, impiccatasi nella grotta-prigione, si ucciderà davanti a lui. Euridice, madre di Emone e moglie di Creonte, dopo aver saputo che il figlio si è ucciso, si ritirerà tacitamente nelle sue stanze e si darà a sua volta la morte. Creonte diventa un ‘nulla’, privato degli affetti e anche del sostegno della città.  

Le speranze che aleggiano ancora nel quinto stasimo, una preghiera al dio Dioniso, dio liberatore e a cui sta casa Tebe, sono andate completamente deluse.

L’Antigone del Théâtre National Palestinien (photo: © Nabil Boutros)

 

Su questa terra

Al posto di questo stasimo, dicevamo, Hakim inserisce la poesia di Darwish:

Su questa terra hanno diritto alla vita:
il ritorno di aprile,
l’odore del pane all’alba,
le opinioni di una donna sugli uomini,
gli scritti di Eschilo,
l’inizio di un amore,
l’erba nata sopra una pietra,
le madri in piedi sul filo del flauto
la paura dei ricordi che invade gli invasori.

Su questa terra hanno diritto alla vita:
la fine di settembre,
una donna che saluta i quarant’anni
in tutto il suo splendore,
l’ora d’aria in una prigione,
le nuvole che imitano uno stormo di creature,
le grida di un popolo a coloro che sorridono alla morte,
la paura dei canti che assale i tiranni.

Su questa terra hanno diritto alla vita
la signora della terra,
la madre degli inizi e la madre di tutti i finali:
si chiamava Palestina, si chiama ancora Palestina.
Signora: io merito – perché sei la mia signora –
io merito la vita.[2]

La voce di Mahmoud Darwish risuona in una scena buia, i versi sono proiettati in francese e in arabo sulla parete posta sul fondo del palco vuoto. Nella replica che si può guardare su you tube, però, il nome ‘Palestina’ non compare. Probabilmente si pensa che il pubblico conosca a memoria la poesia o che capisca che la ‘signora’ evocata alla fine della poesia sia la Palestina. Oppure si tratta di sola e semplice censura, perché evocare la questione palestinese in Europa, nel 2011 come oggi, è sempre divisivo. Al canto e alla danza collettiva del coro tragico greco, si oppone la voce del poeta fuori scena, sola, dolente. Si tratta di una registrazione che ha il tono di una testimonianza e di una eredità, perché all’epoca della rappresentazione Darwish era morto.

Quali sono i punti in comune tra il quinto stasimo dell’Antigone e la poesia Su questa terra di Darwish?

Anche il canto greco, come la poesia di Darwish,  è un inno ad una terra, quella tebana, al suo paesaggio, all’epifania di un dio che la riconosce come madre e perciò la onora. Nel coro greco risuona il grido rituale del corteo di Dioniso (evoé), si ricordano le danze dei suoi seguaci e degli astri, complici dei riti notturni per il dio: il canto corale  evoca il mistero indicibile del culto dionisiaco, il suo legame con l’oscurità, le illusioni di cui si sostanziano i riti, le fiamme, la musica ossessiva, la sfrenatezza, tutti aspetti di Dioniso come dio della vita indistruttibile. Anche la poesia di Darwish è un inno alla vita, a tutto ciò che merita di vivere e per cui – d’altro canto – val la pena vivere. E su tutto la terra natale, la Palestina, terra madre come Tebe lo è per Dioniso. Una Palestina che – come Dioniso – è divina e di cui si attende l’epifania purificatrice.

La musica che accompagna la poesia è del Trio Joubran, un gruppo palestinese composto da tre fratelli musicisti originari di Nazareth, che ha curato tutta la colonna sonora della messa in scena di Hakim. Il pezzo con la registrazione della voce di Darwish è tratto dall’ album del 2009 À l’ombre des mots (All’ombra delle parole). La musica del Trio costituisce il legame più diretto tra la tragedia di Sofocle per la regia di Hakim e la vicenda palestinese. La poesia di Darwish, che sostituisce il quinto stasimo, costituisce il culmine emotivo dello spettacolo.

L’Antigone del Théâtre National Palestinien (photo: © Nabil Boutros)

 

Antigone e la questione palestinese.

Cosa lega il mito di Antigone alla storia della Palestina? Innanzitutto il tema della sepoltura e del lutto.  La tragedia di Hakim si apre con un prologo musicato: sulla scena vengono esposti due cadaveri avvolti in un sudario bianco. Entra un uomo reggendosi a due donne vestite di nero, che eseguiranno il compianto ciascuna su un corpo, dopo averlo riconosciuto. Sono Antigone e Ismene?  L’uomo che si appoggia a loro e poi assiste al rito è Edipo, oppure Creonte? Simbolicamente sono due donne appartenenti alla stessa cultura che eseguono il rito funebre parallelamente, ma è come se un muro invalicabile le separasse. Ognuno piange i propri morti, sotto lo sguardo del potente di turno che in giacca e cravatta, in un impeccabile vestito bianco che contrasta con il nero del lutto, assiste indifferente al dolore e alla disperazione.

Ma proprio quell’uomo potente, che ha creduto di poter decidere della vita e della morte altrui, nel finale della tragedia è travolto dalla catastrofe. Nonostante la poesia di Darwish apra uno spiraglio di speranza, chieda il riconoscimento della sacralità di quella ‘terra’ che è stata profanata, ogni aspettativa viene delusa dalla fine luttuosa. Nel finale parossistico Creonte officerà il rito funebre del figlio, il cui cadavere è visibile in scena, e della moglie, che si avvia in una schiera di luce nell’oltretomba. Come le due donne del prologo, esegue una danza che ricorda quella dei dervisci, roteando su sé stesso, in preda ad un dolore che è pazzia ma anche estasi. La tragedia finale, che spegne ogni speranza e ogni aspettativa,  si deve alla follia del tiranno, l’esito luttuoso che lo riguarda è una diretta conseguenza del suo desiderio di vendetta postuma, il risultato della sua cecità. Resta una terra (che si chiami Tebe o Palestina) piena di morti e un popolo disorientato, che ha nuovamente perso il suo Re. 

Mura e finestre.

La scenografia ideata da Yves Collet è semplice: un muro si erge davanti al pubblico, dal palcoscenico al soffitto, e funge da schermo per le proiezioni. Il muro ha una porta centrale, l’accesso alla reggia, come nella scena greca, ma è segnato  da diversi riquadri distribuiti come piccole finestrelle che possono evocare le mashrabiya (grate in legno tipiche dell’architettura araba) oppure il lato visibile di una lanterna traforata o ancora delle feritoie da cui si osserva il nemico. Oppure loculi di un cimitero. O ancora le finestre tutte uguali di palazzoni urbani di periferia.  

Cosa c’è al di là di quel muro impenetrabile? Quale è la città dilaniata dalla guerra, dove i fratelli si sono reciprocamente uccisi? Si tratta di una metafora per Gaza? Come sia, la scena metaforica rappresenta  una città in lutto, una città infestata da pezzi di cadavere, di una città oppressa dalla tirannia, che sta perdendo la speranza. Forse non è una città, ma un ghetto, un territorio controllato, circondato da filo spinato. A questo sembra alludere il quadrato luminoso che talora circoscrive la scena, dove agiscono i personaggi, mentre all’esterno del quadrato luminoso i personaggi del coro, divenuti spettatori, commentano quel che accade.

Il palcoscenico talora è illuminato da sottili quadrati luminosi, come il riflesso delle finestrelle, ma anche come candele, o buchi di una terra che è stata segnata dalla guerra e dalle mine. Lo spazio è ordinato, simmetrico, geometrico, molto pulito, come sotto osservazione, tetro come un campo di concentramento. Le uniche scene in cui penetra una luce bianca, accecante, sono quelle legate alla morte di Antigone e a quella di Euridice. In questo mondo grigio, dove gli uomini sono vestiti da anonimi burocrati, Creonte usa giacca e cravatta e annuncia i suoi proclami attraverso un microfono, quindi alla radio o alla televisione, come un odierno leader politico; le donne rappresentano invece la capacità di sacrificarsi per qualcosa che reputano più forte della politica e che agli interessi della politica resiste anche a costo della stessa vita: quel qualcosa è l’amore che le lega ai loro cari.

La giustificazione implicita dell’atto di Antigone, sacrificare la propria vita pur di dare sepoltura al corpo del fratello che una legge dello Stato vuole invece lasciare insepolto, costituisce infatti un altro trait d’union tra il mito greco e la storia palestinese. Adel Hakim lo ha dichiarato esplicitamente:

«Perché muore Antigone? Sono stati i palestinesi a darmi la risposta a questa domanda: Antigone muore affinché gli altri possano vivere meglio. La sua morte non è un suicidio, è un atto politico, un atto di resistenza, di contestazione. Muore affinché Tebe comprenda che è stata commessa un’ingiustizia, affinché Tebe diventi più giusta. Ed è ciò che dicono i palestinesi: alcuni palestinesi sacrificano la propria vita affinché il popolo palestinese abbia un futuro migliore. Si tratta dunque di un atto di vita, e non di morte.»[3]

Antigone, noi lo abbiamo scritto più volte, è un personaggio violento, non è l’eroina dei diritti universali e nemmeno della pace. Appartiene ad una famiglia incestuosa e non esita a dare la vita per difendere il diritto alla sepoltura di suo fratello, cosa che non avrebbe fatto per un marito, un figlio e meno che mai per uno schiavo. Ma questa violenza, questa intransigenza, che porta con sé nella catastrofe non solo Creonte, che aveva emanato l’editto di insepoltura, ma anche due innocenti, Emone e sua madre, Euridice, non è una violenza fine a sé stessa. Sull’esperienza di questa violenza si può e si deve edificare un mondo senza lotte intestine, senza contese territoriali, in cui ad ogni morto – come nel prologo della tragedia diretta da Hakim – sia dato ciò che è dovuto.

Anche quest’Antigone che usa la morte come strumento e nella quale echeggia il ‘desiderio di morte’ che la rende fascinosa, secondo la nota lettura di Jacques Lacan, quest’Antigone suicida e orgogliosa di esserlo, lancia un messaggio che è un’esortazione alla vita e alla riconciliazione: ‘Sono nata per amare e non per odiare’.

 

Ulteriori riferimenti bibliografici:

Chabrat-Kajdan, Astrid. "Sophocles’ Antigone by French Director Adel Hakim (2011). Using Greek Tragedy to Pay Tribute to Palestinian Resistance." In Greek Tragedy and the Middle East: Chasing the Myth, pp. 162-169. London: Bloomsbury Academic, 2024. Disponibile anche online su: www.bloomsbury.com

Ferraresi, Filippo. "L’Antigone palestinese nella banlieu parigina." https://www.klpteatro.it/antigone-teatro-nazionale-palestinese-hakim-recensione

La Comédie de Genève. Antigone. https://www.comedie.ch/fr/antigone

Schiano, Rosa. "Il teatro palestinese tra ripresa, partecipazione e identità." https://nena-news.it/il-teatro-palestinese-tra-ripresa-partecipazione-e-identita/

 

 

[1] Luigi Toni, Mahmud Darwish. “La storia è un diario d’armi scritto sopra i nostri corpi”https://orientxxi.info/magazine/articles-en-italien/mahmud-darwish-la-storia-e-un-diario-d-armi-scritto-sopra-i-nostri-corpi,6310

[2] La traduzione a cura di Tareq Aljabr è tratta da quest’edizione:  https://www.poesiadelnostrotempo.it/la-saggezza-del-condannato-a-morte-di-mahmud-darwish/

[3] https://inferno-magazine.com/2012/04/04/la-figure-politique-dantigone-entretien-avec-adel-hakim/