Il reenactment è una delle forme performative del teatro contemporaneo; in questo Natale 2020, soffuso di indefinita nostalgia per un tempo pre-pandemia, il reenactment di grandi classici, come ‘Natale in casa Cupiello’, non è solo un esercizio estetico, ma anche storico e interpretativo.
In questo inedito Natale, in un momento particolare in cui la contaminazione schermo/palcoscenico è una necessità che sembra aprire nuove forme di ricezione e persino produzione dell’atto teatrale, proponiamo per ‘Tragico contemporaneo’ una lettura del film di Edoardo De Angelis, andato in onda su Rai1 il 23 dicembre (5 milioni di spettatori, share del 23,9%). (S.F.)
Nel celebre libro-intervista di Peter Bogdanovich dedicato al regista di Quarto potere, Orson Welles non esitava a definire Eduardo De Filippo il più grande attore che avesse visto recitare in teatro, superiore a chiunque altro, seppur destinato a perdere la sua magnetica presenza una volta sul grande schermo: “Sulla scena non c’è nessuno in Europa che gli si possa anche solo avvicinare. Al cinema non c’è più”. Va da sé che chiunque si accosti, non soltanto a un testo del grande drammaturgo, o almeno a uno dei suoi più noti, ma anche e soprattutto a uno dei personaggi da lui interpretati, risulti perdente in partenza.
È quanto accade, ad esempio, a chi osi avvicinarsi a Natale in casa Cupiello, la commedia composta nel 1931 che descrive con crudeltà mista ad affetto uno spaccato familiare nei giorni a ridosso della festività più sentita dalla popolazione napoletana. Una famiglia disfunzionale, si direbbe oggi, alle prese tanto con la sbandata della figlia “sposata bene” con un uomo facoltoso, unione che assicura l’agiatezza e la possibilità tanto agognata di un’ascesa sociale ed economica, quanto con le intemperanze di un figlio maschio più che giovanotto ma ancora monello. Un nucleo allo sbando, dominato dal distratto e svagato capofamiglia Luca, vittima di meschine e piccolo-borghesi convinzioni, tutto preso, come ogni anno, dalla realizzazione di un presepe che deve fare concorrenza a quello del vicino. Una famiglia su cui vigila, angosciata e paziente, la madre, Concetta, una donnetta che prova a tenere assieme quei pezzi rotti di un quadretto dissestato, assecondando non soltanto i capricci di marito, figlio e figlia, ma anche le bizze del sospettoso genero e del petulante cognato.
Come in altri casi, anche in questo la visione di una nuova trasposizione della commedia può risultare difficile da digerire a causa della benedetta e ingombrante esistenza di due versioni televisive proposte e realizzate dallo stesso autore a distanza di quindici anni ed entrate nella memoria di generazioni di spettatori. In quella in bianco e nero del 1962, piccoli scampoli del boom economico fanno capolino nelle vicende di una casa che sembra rimasta ferma nel tempo, come la condizione mentale puerile e incolta, incapace di evolversi, dei maschi che la abitano. Mirabilmente, così l’autore presentava e sintetizzava al pubblico il suo lavoro in apertura di quella trasposizione:
“Eccomi a voi. Udrete canti e spari dei colorati fuochi d’artifizio che accompagnano il rito natalizio insieme ai commoventi zampognari. Ognuno il suo presepio l’ha allestito. Pure Luca Cupiello l’ha costruito: è piccolo, ridicolo, meschino ma lui lo vede grande come un regno e ci si perde dentro a tale segno da chiacchierare con Gesù Bambino. Vorrebbe mescolarsi coi pastori poiché li sente battere quei cuori. Ma le montagne sono di cartone e quei pastori son di terracotta. Pure i re magi ai piedi della grotta hanno usato la latta per corone. L’innocenza di Luca è fuori orario, il suo mondo dissolve. Su il sipario!”
Alla fine del 1977 risale la seconda trasposizione per la RAI, quella a colori e ancora oggi la più nota, ambientata in quel 1931 in cui venne scritta e andò in scena per la prima volta il giorno di Natale al teatro Kursaal, in seguito Cinema Filangieri, nel cuore della Napoli “bene”, a pochi passi da Palazzo Scarpetta, l’edificio che il padre naturale del grande attore, Eduardo Scarpetta, aveva fatto costruire e decorare con riferimenti alle sue commedie e che oggi è sede della Fondazione De Filippo.
Questa versione è entrata nell’immaginario collettivo, e in particolare dei napoletani, divenendo tutt’uno con il testo scritto. Se le figure di Luca Cupiello di un Eduardo ormai anziano, dell’intensa Concetta di Pupella Maggio, dell’insolente Tommasino di Luca De Filippo, della nevrotica Ninuccia di Lina Sastri, del collerico zio Pasquale di Gino Maringola, sono diventate talmente familiari tra gli spettatori tanto da aver identificato personaggio e interprete in maniera indelebile, anche le pause, le intonazioni, le gestualità di quella trasposizione sono divenute le uniche possibili, guardate, ascoltate, assimilate visione dopo visione, sedimentate nella memoria collettiva.
Croce e delizia per tutti gli appassionati di teatro e di Eduardo, queste versioni televisive restituiscono solo in parte l’esperienza della rappresentazione teatrale, di fatto ‘tradendola’: mancano le pause, gli applausi a scena aperta, gli ammiccamenti al pubblico, col quale spesso Eduardo flirtava, allungando così, e talvolta a dismisura, la durata dello spettacolo. Non sono, cioè, rappresentazioni teatrali semplicemente filmate, come avvenne per le prime commedie di Eduardo trasmesse in diretta negli anni Cinquanta, ma trasposizioni appositamente realizzate per il mezzo televisivo su di un finto palcoscenico – si usavano in genere studi e teatri di posa – e fornite di una grammatica fatta di precise inquadrature e studiati movimenti di macchina come nella migliore tradizione degli sceneggiati televisivi di quegli anni.
Dunque, se da un lato i diversi cicli eduardiani realizzati per il piccolo schermo – anni Cinquanta, 1962, 1964, 1975, più altri occasionali – sono un patrimonio straordinario, che testimoniano tra l’altro il livello di sensibilità culturale della televisione di Stato in quei decenni, dall’altro costituiscono un termine di paragone costante e inarrivabile.
Forse è anche per tale ragione che assistere a una qualsiasi rappresentazione di una commedia eduardiana, o almeno a una di quelle più note, messa in scena da chiunque altro, genera effetti di straniamento, di automatico confronto con quei modelli fissi nella memoria di generazioni di spettatori tanto da divenire paradigmatici. E ciò è avvenuto prima di tutto con le pur pregevoli trasposizioni di Luca De Filippo e Francesco Rosi. Difficile, se non arduo, poi ipotizzare un rifacimento di queste opere in altri contesti geografici, sociali e culturali che non siano quelli ideati da Eduardo. Come si potrebbe trasferire altrove l’atmosfera del freddo Natale partenopeo con le sue tradizioni, le sue atmosfere, i suoi rituali, la creazione e la venerazione del presepe? Ecco, dunque, che alcune opere di Eduardo, almeno quelle intrinsecamente legate alla realtà napoletana, non possono sfuggire a questa collocazione spaziale.
Nasce dunque con queste pesanti pregiudiziali la terza versione televisiva della commedia proposta dalla RAI a centoventi anni dalla nascita del drammaturgo con la firma di Edoardo De Angelis, regista napoletano nato pochi mesi dopo la versione del 1977 e certamente cresciuto con quel mito, autore di un pugno di film – Mozzarella Stories (2011), Perez. (2014), Indivisibili (2016), Il vizio della speranza (2018) – che nell’ultimo decennio hanno offerto uno sguardo inedito sulle condizioni di vita del territorio partenopeo e casertano.
Non siamo in presenza soltanto di una legittima trasposizione teatrale di quell’opera ma dinanzi a un prodotto televisivo che si colloca nel solco delle due precedenti versioni, con tutto il peso che esse portano e che gravano tanto sulla sua realizzazione quanto sulla sua fruizione. Un lavoro che parte certamente svantaggiato ma che proprio per questo ha il diritto e il dovere di proporre un’interpretazione radicalmente diversa. Ciò in parte avviene nei dialoghi, sostanzialmente rimasti inalterati, ma spogliati di quella irresistibile vitalità infusa da Eduardo e dai suoi attori, tanto da risultare in buona parte anestetizzati dal pathos e dalla verve che ci si attenderebbe, come risalta, ad esempio, nella scena della lettera scritta da Tommasino alla “cara madre”.
Differentemente dal testo e dalle versioni del 1962 e del 1977, non ci troviamo su di un palco che assicura unità di tempo e di azione, ma siamo continuamente portati da un esterno nevoso agli interni dell’appartamento dei Cupiello. È tutta in questa scelta di dare forma cinematografica a un testo che non è mai approdato al grande schermo l’operazione di De Angelis, che prova non soltanto a spogliare la commedia della presenza di Eduardo, ma anche e necessariamente a smarcarsi dalle inquadrature realizzate nelle precedenti versioni televisive.
Sin dai primi secondi, l’operazione del regista si palesa tramite il lungo pianosequenza iniziale, che parte dal terrazzo dello stabile nel quale vivono i Cupiello con l’inquadratura di alcune figure presepiali – leitmotiv della commedia – dinanzi alle quali sosta un gruppetto di zampognari, dai quali si stacca, venendo incontro alla protagonista Concetta, il regista in persona – intabarrato con cappello e sigaro in bocca tanto da rievocare la silhouette di Orson Welles, ancora lui! – che con un gesto della mano, alla stregua di un demiurgo, dà l’avvio alla recita.
Da qui seguiamo Concetta lungo i meandri del palazzo, fino all’appartamento dei Cupiello, dove la donna prepara il caffè per il marito Luca: un incipit che ricorda quello di Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977), film per eccellenza giocato tutto tra gli spazi dell’appartamento e quelli del terrazzo condominiale. Altri sono poi i riferimenti cinematografici per le scene di interno dove avviene lo scontro familiare in due camere e cucina, come aveva magistralmente fatto qualche anno fa Roman Polanski con Carnage (2011) e reiterato, anche se all’interno di una sala teatrale, con Venere in pelliccia (2013), dimostrando solo con i dettagli come sia possibile passare dal teatro al cinema. Ma De Angelis, che non è Eduardo né tantomeno Polanski, resta impigliato in questo tentativo di emanciparsi dal drammaturgo cercando al contempo di aderire al suo testo. E a farne le spese sono le performance degli attori, tra i quali, peraltro, non si avverte mai una vera e propria alchimia.
Il Luca Cupiello di Sergio Castellitto è forse il principale imputato, nel tentativo di offrirsi quale protagonista un po’ svagato e piccolo-borghese segnato da quella ristrettezza mentale e culturale teneramente messa in mostra nella versione televisiva del 1962. L’impressione che l’attore non sposi completamente il personaggio non è certo dovuta al fatto che egli non sia napoletano. Pensiamo soltanto alla gloriosa Filumena Marturano di Joan Plowright nella versione londinese di Franco Zeffirelli o a quella di Mariangela Melato nella trasposizione di qualche anno fa, sempre per la RAI, al fianco di Massimo Ranieri. E non c’entra neanche il fatto che negli occhi e nelle orecchie, oltre che nel cuore, tutti abbiamo i gesti, le espressioni, i tremiti della voce di Eduardo. Generalmente e altrove ottimo, Castellitto qui invece pare recitare in maniera monocorde, senza particolari guizzi, quasi limitandosi a servire il copione ma senza mai entrarci completamente dentro e crederci fino in fondo.
Dalla scelta e dalla resa del protagonista dipende quindi gran parte dell’esito della trasposizione, nella quale non brillano particolarmente gli altri interpreti. A cominciare da Marina Confalone che, al pari di Castellitto, ha provato a scrollare dalle spalle il peso non tanto della scialba Concetta di Nina De Padova del '62, quanto piuttosto di quella insuperabile proposta da Pupella Maggio nel '77, vera e propria antagonista del Luca Cupiello di Eduardo, il controcanto concreto e pratico a quel marito leggero e svagato. L’interpretazione di Marina Confalone, unica attrice eduardiana del cast nonché presente giovanissima nel terzo atto della versione del '77, sembra forzatamente giocata in sottotono, attenta a non enfatizzare le battute e i gesti, quasi come se fosse alla costante ricerca di una via alternativa alla rappresentazione di quel personaggio.
E francamente deboli sono le scelte degli altri componenti della famiglia: Adriano Pantaleo, che ha il physique du rôle ma non l’adeguata caratura per il personaggio di Tommasino, ha sulle spalle non soltanto la performance del macchiettistico Pietro De Vico ma soprattutto quella indimenticabile di Luca De Filippo; Tony Laudadio tenta di inserirsi nel solco delle precedenti versioni televisive del fratello di Luca Cupiello, il parassitico e collerico Pasquale, offerte magnificamente da Enzo Petito e Gino Maringola; niente di più aggiunge Pina Turco alle Ninuccia di Elena Tilena e Lina Sastri; piuttosto imbambolato Alessio Lapice nel ruolo dell’amante Vittorio rispetto alle caratterizzazioni di Carlo Lima e Marzio Honorato; bene ma non benissimo, poi, Antonio Milo nel ruolo di Nicola Percuoco, il marito di Ninuccia ferito nell’onore che vanta un’ottima interpretazione da parte di Pietro Carloni nella versione del ’62.
Cosa lascia dunque la visione di questo nuovo adattamento?
Se la resa complessiva fatica a essere del tutto accettata, vale allora la pena soffermarsi sui caratteri di originalità offerti dal regista. Ad esempio quando si focalizza non tanto sul rapporto, qui molto attenuato, tra madre e figlio, una delle sottotracce del testo ripresa in maniera del tutto simile anche nel breve ma folgorante Gennareniello, quanto piuttosto su quello tra sorella e fratello, come si evince in una delle scene più riuscite, quella dell’abbraccio tra i due sul terrazzo sotto la neve dopo lo scoppio della tragedia e il conseguente malore del capofamiglia.
Oppure quando insiste sulla presenza del presepe, come nella scena dell’acquisto dei re magi presso la bottega dell’artigiano, nel testo soltanto evocata; scena che permette, tra l’altro, di citare il primo episodio de L’oro di Napoli (Vittorio De Sica, 1954), Il guappo, con la sua insuperata visione del capoluogo partenopeo nel giorno della Vigilia di Natale, quando seguiamo Luca Cupiello tra vicoli, acquafrescai e botti lanciati dagli scugnizzi alla stregua del Saverio Petrillo interpretato da Totò in quel celebre brano, da cui peraltro sembra essere desunto anche il ritmo sincopato del tamburo che nel pianosequenza iniziale accompagna i primi movimenti di Concetta, quasi presagendo una tragedia imminente.
Sono questi innesti del regista a rappresentare i veri lampi di creatività, proprio perché slegati dal testo eduardiano e dalle versioni televisive precedenti. Se magari ci si fosse spinti maggiormente in questa direzione, scegliendo di ampliare e approfondire altri aspetti collaterali, soltanto accennati dal drammaturgo, si sarebbe potuto forse offrire un’interpretazione più personale e originale di un testo che reclama a gran voce maggior coraggio.
Bibliografia
Donatella Fischer, Il teatro di Eduardo De Filippo. La crisi della famiglia patriarcale, Oxford 2007.
Eduardo. Modelli, compagni di strada e successori, a cura di Francesco Cotticelli, Napoli 2015.
Le prime due immagini: 1. Eduardo e Pietro de Vico nell'edizione del 1962 diretta da Eduardo; 2. Enzo Petito, Pietro De Vico, ed Eduardo nell’edizione del 1962 diretta da Eduardo De Filippo; 2. e 3: dalla versione del 1977, diretta sempre da Edoardo: Edoardo e Lina Sastri; Edoardo e il figlio Luca. Le altre immagini sono tratte dall'edizione 2020 del film di Luca De Angelis.