Da ieri 18 dicembre è visibile in streaming il film di Emma Dante Le sorelle Macaluso, presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.nCon una riflessione su questo film, diamo seguito alla rubrica Tragico contemporaneo, sulla scia del post dedicato a Con il vostro irridente silenzio di Fabrizio Gifuni. Per l'ultimo spettacolo di Emma Dante dedicato alla tragedia greca, vedi qui l'articolo di Raffaella Viccei.
Cosa accade quando all’inizio della vita, quando tutte le speranze fioriscono, quando la parola futuro ha significato luminoso, cosa accade quando, in quel momento intoccabile persino dalla miseria, reso sognante dall’infanzia e dalla primissima giovinezza, cosa accade quando proprio allora irrompe improvvisa, inattesa la morte?
A questa domanda cerca di rispondere, con realismo disincantato, il film di Emma Dante Le sorelle Macaluso. Un film le cui linee narrative dipendono dall’omonima pièce teatrale, ma che negli spazi ampi del cielo, negli orizzonti solcati da grandi navi, negli azzurri incostanti del mare, è cinema, offre cioè uno sguardo che va al di là della prossimità, si apre a spazi che in teatro si possono solo immaginare.
Le sorelle Macaluso è un film densamente simbolico: il buco nel muro attraverso cui guardare il paesaggio rappresenta la parzialità e la ristrettezza del punto di vista della vicenda; il volo sinistro degli stormi vaticina l’evento luttuoso, prefigura il coro funebre e il lamento ma anche le metaforiche evasioni delle sorelle, equiparate a colombe, come il coro di fanciulle del poeta lirico Alcmane; la bacchetta magica giocattolo di bimbe non ha mai fatto incantesimi; il piatto si rompe e porta sfortuna, e inutilmente lo si riattacca; il palcoscenico vuoto di un vecchio cinema dalle pareti scrostate rinvia alla teatralità dell’esistenza umana; lì è stato proiettato un film dove si racconta di una macchina del tempo, e del sogno di poter riscrivere il passato; il cuore di un cervo ucciso, che una delle sorelle conserva come una reliquia, è allegoria di un sacrificio compiuto; e si potrebbe, e forse dovrebbe, andare avanti, perché nella cura di questo film ogni dettaglio, oggetto, elemento, può essere interpretato in senso simbolico, in questi simboli confluisce tra l’altro una certa arcaica miticità e la specificità rituale del Sud magico di Ernesto De Martino e naturalmente della Sicilia.
Eppure questa densità simbolica non sovraccarica la riflessione semplice, lineare del film, che può essere inteso come una lunga meditazione sulla morte e sulla sua capacità, quando piomba come evento inaspettato e capriccioso, di influenzare tutta la vita di chi resta, ossia di chi è legato a chi muore con un legame non scelto ma indissolubile, un legame che condiziona, nel bene e nel male, l’esistenza, che è spesso, sin dalle prime rappresentazioni letterarie che ne abbiamo nella nostra civiltà, legame di dolore, di lutto, di reciproca compassione: il legame tra sorelle.
Coerenti con lo scopo specifico del nostro blog, di questo film che a noi è parso commovente e poetico, e né scontato e nemmeno lento, un film le cui attrici sono tutte indistintamente bravissime, vogliamo qui sottolineare qualche aspetto che lo rende tragico in senso greco. Che poi una delle protagoniste, Ileana Rigaro, interprete della sorella maggiore, Pinuccia, nella vecchiaia, sia scomparsa immediatamente dopo la lavorazione del film, e perciò il film sia a lei dedicato dalle sorelle, aggiunge un elemento ulteriore di commozione.
Un film come Le sorelle Macaluso smentisce i verdetti di alcuni critici letterari del secolo scorso per cui la tragedia, come genere drammatico, sarebbe morta. Invece qui abbiamo tragedia nel senso più tradizionale del termine: la tragedia, infatti, rappresenta sempre l’irrompere della morte nello spazio della vita.
In Le sorelle Macaluso, a confrontarsi con l’insopportabilità, l’indefinibilità, il vuoto lasciato dalla morte, è una comunità di sorelle, e vi è qualcosa di profondamente arcaico in questo coro di sorelle dolorose e luttuose, arcaico ma insieme presente e immutabile. La sorellanza qui è paradigma del compianto, della solidarietà, del dover vivere insieme lo sconvolgimento, ai limiti della follia, portato dalla morte improvvisa: attraverso questo legame viscerale, che è di amore e philia in senso greco, il mondo dei vivi si concilia con quello dei morti, in un certo senso sconfigge la morte rendendola compagna di vita, ossia ricordo e memoria.
Così la sorellina più piccola morta accidentalmente, sacrificio crudele all’origine del trauma, quasi una inconsapevole Ifigenia, continua a vivere nel ricordo delle altre sorelle, anche se questo ricordo può diventare ossessione, generando fantasmi; o anche se la memoria di quel giorno, del giorno fatale, origina un senso di colpa inesauribile, che conduce sino alla pazzia; o anche se la morte impregna così tanto la vita da trasformarsi in malattia, segno di una familiarità maledetta.
Morte e follia si intrecciano spesso, se la morte è uno strappo inatteso, se tutto cambia in un attimo, come si dice in una delle battute del film, l’attimo in cui il buio dilaga improvviso e nerissimo proprio nel mezzo di una bella giornata di sole. E allora resta la domanda insoluta, cosa mai sia la morte, come si possa colmare quel vuoto che lascia, e se mai si possa colmare; e allora resta il dubbio conoscitivo: e se… E se le cose non fossero andate così…
Vi è un passo dell’Antigone di Sofocle, tragedia sulla morte e sul compianto negato, un passo oscuro, enigmatico, che mi sembra descrivere l’atmosfera emotiva che si stende sul film di Emma Dante e a cui il film dà forma. Il passo è cantato dal coro, perciò si tratta di parole che risuonavano accompagnate da musica e danza, e a cui ritmo e gesto donavano capacità di suggestionare:
Da tanto tempo, vedo abbattersi sulla casa i dolori dei morti sui dolori dei vivi, né una generazione libera l’altra dalla pena, ma un dio manda in rovina la casa, e non c’è liberazione. E adesso la luce vivificatrice splendeva nella casa, le radici resistevano, ma la polvere insanguinata della morte la offusca, insieme alla dissennatezza del parlare e alla follia della mente.
Come nella tragedia greca il centro del film di Emma Dante è la casa, centro della vita familiare in cui si succedono generazioni, microcosmo che però è metafora del macrocosmo in cui agisce l’esistenza umana, una casa che diventa archivio delle emozioni di chi ci ha vissuto, emozioni cristallizzate, fossilizzate eppure ancora operanti e attive anche nel più piccolo e insignificante degli oggetti, in un comò decorato con un panorama orientaleggiante, nei giocattoli riposti nei cassetti, nelle vecchie foto.
Come nella tragedia greca, una volontà o un capriccio ignoto obbliga i vivi a sofferenze ereditate dai morti; né dura la luce, quando pare aprirsi su un nuovo giorno: la polvere della morte la oscura, e per quella casa non c’è liberazione.
Casa, famiglia, sangue: tutto ciò appartiene alla tragedia greca, come pure la maledizione senza colpa di cui alcuni esseri umani sono vittima, come la precarietà dell’esistenza.
Ma l’Antigone ha un motivo essenziale in comune con le Sorelle Macaluso, perché l’Antigone è la tragedia del dovere di dover interpretare sino in fondo il ruolo della sorella; l’Antigone racconta la coraggiosa obbedienza a quella legge non scritta del cuore e della religione per cui un essere amato che abbiamo perduto per sempre può diventare più importante della nostra stessa vita.
L’Antigone contiene, ancora, l’archetipo del legame tragico della sorellanza e delle sue diverse sfaccettature.
Nel dramma di Sofocle, Antigone appartiene al regno dei morti, non riesce a superare il lutto per la morte del fratello, né la vergogna della sua insepoltura: e perciò vive desiderando di morire. Tra le sorelle Macaluso, Katia è la più vicina ad Antigone: cerebrale, rivoltosa, del tutto incurante della propria femminilità, su di lei ricade la vergogna di aver spinto la sorellina ad un gioco pericoloso e fatale; personaggio dunque accompagnato dall’ombra della morte, vive il resto della sua esistenza in lutto, desiderando morire, per pagare il fio della colpa incolpevole, e alla fine, per questo, si prepara meticolosamente alla tomba.
Dall’altra parte, invece, c’è Ismene, che nella tragedia di Sofocle, almeno all’inizio, crede alla possibilità di superare il lutto, di andare avanti, di sopravvivere: come la Pinuccia delle sorelle Macaluso, Ismene è metà madre e metà sorella, ha una cura costante, discreta, non eroica, considera la propria femminilità come subordinazione ai maschi, non si oppone in alcun modo alla violenza, cerca un compromesso che aiuti a vivere.
Il chiaroscuro tra le diverse, antitetiche maniere di vivere la morte e il lutto tra sorelle penetra anche altrove nel teatro di Sofocle: così abbiamo Elettra, guidata da un amore ossessivo e incestuoso per il padre Agamennone, assassinato dalla madre, che non supera il dolore dell’assenza paterna e vive follemente nella speranza della vendetta, consumata dall’odio per la madre che è anche assassina. Ne è l’antitesi sua sorella Crisotemi, che si adatta a vivere con la madre sanguinaria e il suo nuovo amante, non si lascia schiacciare dal passato, preferisce la rassegnazione e la malinconia all’odio. Sorelle similissime e insieme contrapposte, una bella, l’altra androgina, una chiamata a dare parole di assennatezza, a sostituirsi ad una madre assente, l’altra invece votata alla ribellione, alla rivolta, a dire ‘no’ comunque e nonostante, e perciò a scontrarsi con il muro dell’offesa e del rifiuto.
Emma Dante penetra nella complessità del rapporto sororale, sempre in bilico tra amore e odio.
Nessuna delle sorelle Macaluso superstiti alla morte della più piccola ha l’esclusiva del dolore, come anche nella tragedia greca il peso del dolore non ricade sulla sola Antigone o sulla sola Elettra. Il dolore, come la follia, serpeggia fra tutte le dolenti figure del coro sororale: è anzi connaturato alla responsabilità di chi la ‘casa’, ossia la vita, vorrebbe ancora farla crescere, di chi la vorrebbe tutelare, di chi fa tesoro del passato e non se ne serve come di strumento di distruzione.
Un dolore sottile e normale, quello delle sorelle Macaluso più ragionevoli, e non gridato come è quello di Katia (oppure del suo antico archetipo Antigone), la sorella ribelle che si rifugia nei libri rifiutando il mondo e alla fine si uccide.
Anche il dolore di chi va avanti, di chi si fa una famiglia o ricerca la gioia del corpo o la puntualità del lavoro, diventa ugualmente avvolgente e sempre contemporaneo, come il fantasma della sorellina fissato in un attimo di gioia, un attimo, quell’attimo prima che tutto cambiasse. Un fantasma che solo la sorella maggiore, Pinuccia, la meno ‘colpevole’ delle altre dell’incidente, continua a vedere, come se il tempo non fosse mai passato.
Altri dolori saranno contenuti per quella stessa casa, ma il film – come una tragedia greca – non li narra, vede quelli nuovi sovrapporsi a quelli antichi, la malattia e la vecchiaia che divora le sorelle e le loro vite senza speranza di liberarsi da quell’unico evento tragico, che forse si poteva prevedere, di cui non erano stati colti i segni, durato un attimo solo divenuto poi eterno.
Unità di luogo, di azione e anche di tempo: perché il passare delle stagioni è illusorio; nulla cambia e l’ultima scena ripete la prima, uno squarcio del muro per guardare lontano. Si ricomincia daccapo: e in agguato c’è la morte e il suo appuntarsi sui più fragili, capri espiatori di una generale legge di sofferenza.
Il film di Emma Dante diventa tragedia senza tempo e senza soluzione, una riflessione sul significato della morte per le vite di tutti, e tanto più attuale adesso, durante una pandemia in cui i morti sono diventati numeri freddi e senza alcuna caratterizzazione. Dietro ognuno di quei numeri ci sono invece storie di lutto e di compianto, di ricordi e di vite strappate, c’è l’essere umano a cui non vengono tributati onori e applausi: nel film appare persino crudele e beffardo l’applauso destinato ai traslocatori che riescono a far scendere con una gru la bara di Katia dal piano alto senza ascensore dello stabile dove si trova la casa sino al carro funebre in strada. Quell’applauso non è per la donna di dolori contenuta nella bara, ma per chi ha saputo finalmente trarla fuori di lì, trasportarla come un oggetto, evitando le ripide e difficili scale.
Piccole vite senza importanza, che scompaiono per piccoli equivoci senza importanza, piccoli dolori da cui però si alza un unico immenso, assordante lamento corale.
Eppure, come nella tragedia greca, anche nel film di Emma Dante la morte non è portata in scena, non è resa cioè visibile. Ma proprio così diventa più presente che in infinite, realistiche, anestetizzate riproduzioni.
L’assenza/presenza della morte avrà un valore catartico? Non sappiamo rispondere a questa domanda, perché ancora non ci è chiaro in cosa davvero consista la catarsi tragica.
Segnaliamo i due ricchi volumi Sorelle e sorellanza nella letteratura e nelle arti, a cura di Marina Guglielmi e Claudia Cao, e L' eredita' di Antigone. Sorelle e sorellanze nelle letterature, nelle arti e nella politica, a cura di Monica Farnetti e Giuliana Ortu. I volumi spaziano da Omero alla letteratura contemporanea, e offrono la sintesi del lavoro biennale di un gruppo di ricerca sull'argomento diretto da Monica Farnetti presso le Università di Sassari e Cagliari.