1944, 5 aprile. La guerra non volge ancora al termine, ma la sorte della Germania nazista è segnata. Il Führer non può concepire la sconfitta. Chiuso nel suo bunker di una Berlino già orrendamente massacrata, assistito da un suo protettore infernale, sfugge ad ogni attentato e manda all’impiccagione con processi di una notte i suoi attentatori; continua a impartire ordini assurdi in un parossismo di furore cieco.
Fra le vittime di questo finale impazzito c’è un uomo mite, intelligente, arguto. Si chiamava Erich Ohser, ma è entrato nella storia e nei ricordi come E. O. Plauen, col nome cioè del paese della sua giovinezza. Plauen aveva animo di artista, un artista ironico, delicato, profondamente legato ai sentimenti dell’amore, della famiglia, della pace. Non amava il regime che prese il potere nel suo paese, ma gli mancava la forza beffarda e dissacratoria di un George Grosz.
Amico del narratore per l’infanzia Erich Kästner e dei socialisti di «Vorwärts», satireggiò i caporioni del nazismo. Fu radiato dall’albo dei giornalisti e poté continuare a lavorare grazie allo pseudonimo. Dal 1934 al 1937 pubblicò l’opera sua che lo ha reso famoso, ma ancora sconosciuto in Italia, il fumetto «Padre e figlio».
Una di quelle deliziose scenette è la storia di una sconfitta. Due marmocchi giocano a bottoni. Arrivano padre e figlio, il figlio vuole entrare nel gioco, convince il padre a staccarsi un bottone dalla giacca, poi un altro e un altro ancora; il sole tramonta, i furbi vincitori vanno via con un sacchetto pieno di bottoni e due cinici sorrisi; padre e figlio invece tornano a casa corrucciati, reggendosi i pantaloni con le mani.
Uno dei vincitori ha il ciuffetto di traverso sulla fronte, come Hitler. Quando Plauen si lasciò sfuggire qualche parola di troppo, scattò la delazione. Fu arrestato dalla Gestapo insieme con l’amico Erich Knauf. Previde che la farsa del processo lo avrebbe condannato a morte, come condannò Knauf, e la notte prima si tolse la vita.
1945, 1° maggio. L’epilogo l’ha raccontato con la stessa glaciale disumanità con cui l’hanno vissuto gli attori, il regista Oliver Hierschbiegel nel film Der Untergang (‘La caduta’). Hitler nel bunker ha tolto la vita a sé stesso e ad Eva Braun dopo averla sposata. Subito dopo lo seguono Joseph Goebbels e la moglie Magda, che con la loro famiglia si sono rifugiati nel bunker. Goebbels è stato il ministro della Propaganda nazista e uno dei più stretti collaboratori di Hitler.
Teorico dell’indottrinamento spirituale della nazione, era mosso da un’ideologia pervasiva di arte e cultura: «Non basta sottomettere più o meno pacificamente le masse al nostro regime, inducendole ad assumere una posizione di neutralità nei confronti del regime. Vogliamo operare affinché dipendano da noi come da una droga».
I Goebbels hanno sei figli piccoli: Helga, Hildegard, Helmut, Holdine, Hedwig, Heidrun; uno solo è maschio, Helmut; la più piccola, Heidrun, ha quattro anni e mezzo. I genitori sono tenacemente convinti che sarà loro impossibile vivere in un mondo senza nazionalsocialismo. C’è nella madre la determinazione di una divinità delle tenebre, di una Medea rediviva.
Mette la fialetta di veleno nella bocca di ognuno dei piccoli, anche della più grandicella, dodicenne, che ha intuito la verità e rilutta in un inutile istinto di vita. Non una lacrima, non un bacio, o il regista ce lo ha risparmiato. Solo il breve tremito di ognuno dei corpicini sotto il lenzuolo che la madre ha steso su ognuno di loro.
1977, 18 ottobre. Nel carcere di massima sicurezza di Stammheim vengono trovati morti tre membri della RAF (Rote Armée Fraktion), organizzazione meglio nota da noi come Banda Baader-Meinhof. I tre sono i terroristi di estrema sinistra Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe, arrestati nel 1972 insieme con Ulrike Meinhof, e già condannati all’ergastolo. Ulrike si era suicidata il 9 maggio 1976.
Quando tutto ciò accade guidano il governo federale i socialdemocratici di Helmut Schmidt, politico raffinato, intelligente, colto, arguto, abile, direttore del migliore settimanale politico del mondo (Die Zeit), amico dell’Italia, promotore del dialogo fra i due stati tedeschi e attento alla difesa della pace mondiale, cancelliere per otto anni dal 1974 al 1982, volto sorridente e rassicurante. Politico di razza, un vero statista, riformatore, Schmidt era il nemico diretto e dichiarato del terrorismo interno. Quel gruppo della RAF si definì marxista-leninista e anti-imperialista.
Dopo la guerra la Germania Occidentale si era avviata verso una ripresa dalla distruzione, dall’onta storica, dalla perdita di ogni prestigio politico. Ma il Berufsverbot (o divieto ai comunisti di accedere alle cariche pubbliche) e le coalizioni fra capitalisti e socialisti, la attenuata denazificazione sociale del paese, il montare in tutto il mondo di movimenti di liberazione e rivoluzionari scatenarono nel paese l’insorgere della lotta armata contro lo Stato.
È terribilmente chiara, nella sua visione venata di follia nibelungica, l’analisi politica della Ensslin: «Ci uccideranno tutti. Sapete bene con quale tipo di maiali stiamo combattendo. Questa è la generazione di Auschwitz. Non si può discutere con le persone responsabili di Auschwitz. Loro hanno le armi e noi no. Dobbiamo armarci!».
Credettero che per liberarsi dello spettro di Auschwitz fosse necessaria la violenza e anche l’efferatezza alimentata dall’odio di classe. Auschwitz contro Auschwitz, una sorta di moderno occhio per occhio. Si armarono e praticarono la guerriglia urbana. Provocarono 34 morti, sequestri, rapine, esplosioni, e molti morti fra le loro stesse fila. I loro anni furono quelli chiamati “anni di piombo”, che è imprecisa traduzione dell’espressione usata dalla regista Margarethe von Trotta “Bleierne Zeit” (l’età del piombo). Alla fine il braccio di ferro lo vinse lui, Schmidt.
Non è lecito affermarlo, ma non furono pochi quelli che pensarono che lo Stato tedesco si fosse liberato della sua piaga usando metodi simili a quelli dei terroristi. Un mio maestro di tedesco a Passau nell’estate del 1980, provocato a rispondere su questo infamante sospetto, rispose che, se avesse avuto la prova di un coinvolgimento delle istituzioni nella morte di quei terroristi, avrebbe rinnegato la patria tedesca. Ancora la estrema consequenzialità di quel grande popolo.
1987, 11 aprile. Non sono un grande conoscitore di Primo Levi e me ne rammarico. Avverto la sua grandezza, ma non riesco ad onorare la sua memoria come vorrei. So qualcosa di quello che sanno tutti.
So che l’11 aprile 1987 Primo Levi si è buttato giù per la tromba delle scale della sua casa di Torino. Come dice il suo cognome, che vuol dire ‘sacerdote’, Primo Levi era un ebreo. Apparteneva a una famiglia di intellettuali prestigiosi. Aveva 19 anni quando furono emanate le leggi razziali, che svegliarono ruvidamente gli ebrei italiani dal sostegno al fascismo o dalla sua accettazione per quieto vivere. Primo poté proseguire gli studi universitari già intrapresi, ma l’8 settembre 1943 si unì a un gruppo di partigiani. Arrestato, fu internato nel capo di Fossoli e di lì inviato ad Auschwitz, nome tedesco della località ora polacca Oświęcim.
Uscito fortunosamente vivo dal campo, poté rientrare in Italia nel 1945 attraverso un lungo e travagliato viaggio, poi narrato nel libro di memorie La tregua. Il reinserimento nella normalità non fu facile. Primo si dedicò alla rievocazione di quanto aveva conosciuto e sofferto nel romanzo Se questo è un uomo, che dapprima incontrò difficoltà di editori e di pubblico e oggi è ritenuto un capolavoro della letteratura mondiale. Seguì una intensa attività letteraria, premiata più volte. Ma anche lui era un revenant come il reduce di Eduardo.
L’ungherese Imre Kertész ha raccontato bene la tristissima estraneità del reduce da Auschwitz che, libero finalmente in una piazza della sua città, che nulla sa di lui e nulla vuol sapere della sua storia, sente assurdamente la nostalgia del campo del dolore.
Levi ha voluto protestare contro l’assenza di Dio mentre si consumava la tragedia e ha voluto rivelare alla coscienza del popolo tedesco quello che era stato commesso in suo nome. Probabilmente è riuscito efficace nell’uno e nell’altro intento. Ma ha dovuto prendere atto fin dalla giovanile e ingenua esperienza di partigiano che il male è erba che cresce in mezzo a noi; e poi ancora più duramente, stando nel pieno dell’inferno, che la sofferenza non santifica le sue vittime, ma «le degrada, le assimila a sé», e che lo spazio fra le vittime e i persecutori non è affatto vuoto, che anzi «è costellato di figure turpi o patetiche…, che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana».
A capire lo hanno aiutato anche il suo ateismo e la sua formazione scientifica. Né l’approdo alla verità, né l’espressione letteraria, né il successo lo hanno consolato, forse nemmeno il rientro negli affetti. Quell’11 aprile, all’età di 68 anni, la vita si è chiusa. Qualcuno ha cercato di ripulire la nobiltà della figura dall’onta del suicidio e ha trovato la spiegazione in una perdita di conoscenza dovuta a vertigini. Io credo nella mitografia dei personaggi e nella coerenza della loro statura letteraria, morale e civile. È vero che non tutto quello che accade post hoc accade propter hoc.
Ma non si può dimenticare che Primo cadde da una tromba di scale a Torino mentre nella martoriata Palestina i bambini arabi inventavano un lotta che si chiamò intifada, ed era un lancio di sassi, e i cittadini della ritrovata patria di Israello reagivano spezzando loro le braccia e un ragazzo raccontò alla televisione italiana con gli occhi iniettati di odio che aveva visto il suo compagno di età, di giochi e di lotta cadere a terra e qualcuno gli orinava addosso. Se anche un bambino è un uomo.
1987, 18 settembre. La Germania Occidentale è tornata ricca, democratica, affascinante. Ma oggi, nella Berlino elegante e borghese di Dahlem coi suoi viali alberati, con i suoi istituti della Freie Universität e coi suoi magnifici musei che fanno concorrenza a quelli di Est, mi trovo di fronte un quotidiano con la prima pagina dominata dalla grande foto di un uomo che mette la sua destra sul petto e dice con tutta gravità: «Ich gebe Ihnen mein Ehrenwort», ‘Le dò la mia parola d’onore’.
Quel signore dall’aria raffinata e rispettabile si chiama Uwe Barschel, è un politico della CDU, il partito democristiano più destrorso, avvocato, notaio, governatore dello Schleswig-Holstein, al centro di uno degli scandali più clamorosi del dopoguerra. È accusato di aver fatto spiare il rivale socialdemocratico Björn Engholm per screditarne la figura durante le elezioni. Barschel nega disperatamente l’accusa. Messo alle strette ricorre al giuramento.
«Dò la mia parola d’onore», è una frase che si trova in tutti i manuali di stilistica, nei vocabolari, nelle grammatiche, è quasi una formula sacra. Barschel sa che i suoi concittadini gli crederanno, perché non si dà invano la parola d’onore. Purtroppo solo qualche giorno dopo viene smentito.
L’11 ottobre viene trovato morto in un hotel di Ginevra. Si è suicidato. Venticinque anni dopo i soliti investigatori dei thriller impossibili hanno scoperto o rivelato che Barschel non si suicidò, ma fu ucciso dal Mossad per un intrigo internazionale relativo a traffico di armi. Io, che non sono uno scrittore né un lettore di thriller, ho invece capito che non può in Germania un politico reggere alla vergogna di essere scoperto spergiuro.
1998, 20 giugno. Un altro suicidio. Ma prima di scriverne occorre andare indietro al 1989, 9 novembre. In questo giorno si chiude un’era. Crolla il Muro. Il Muro con l’iniziale maiuscola è il muro di Berlino, quei 146 km. di una funerea striscia di cemento alta m. 3,60 che dal 13 agosto 1961 hanno rinchiuso i corpi e le anime di fratelli e sorelle, facendo di una città meravigliosa due inferni onirici, e gettando sull’intera Europa e sul mondo il terrore di una rottura di equilibri incerti tenuti in piedi con carri armati, fucili ad alta perfezione e lunghe cortine di ferro.
Davanti alla Porta di Brandeburgo, un po’ discosto dal cocchio di cavalli, una statua era stata collocata pochi mesi prima della caduta, ripescata da qualche deposito dove era stata relegata come arte degenerata. L’uomo gigantesco che ora, guardando la Porta e alzando le braccia gridava: Friede! Friede! Friede!, era il nostro Petrarca che evocava l’ultimo verso della sua canzone all’Italia. Quella sera di novembre i berlinesi non sentirono più il freddo, accolsero prima increduli, poi impazziti di gioia, l’annuncio di Schabowski, portavoce del governo Krenz, che la frontiera era aperta, e si precipitarono su quel muro di paura, proprietà intangibile dei vopos, lo scalarono tutti a farsi la fotografia storica, e già qualcuno picconava le pareti dure come il cuore che le aveva costruite.
Poi venne la riunificazione e fu la grande delusione. Si contarono i tanti morti nel tentativo di oltrepassare il muro, si abbracciarono i fratelli, si riunirono famiglie divise, si distrussero le fabbriche comuniste e si fecero mucchi di spazzatura di libri pubblicati dalle edizioni della DDR, si cacciarono i professori dalle università dell’Est, si ridusse l’Est a qualcosa di simile all’Italia Meridionale dopo l’unità.
Il caporale Hans Conrad Schumann, il 15 agosto 1961, all’età di diciannove anni, mentre il Muro era in costruzione riuscì a saltare il filo spinato e si trovò in Berlino Ovest, terra della libertà occidentale. Era libero.
Nella terra della libertà si sposò, lavorò come operaio, vagò, ebbe un figlio, fu ricercato, la Stasi (la polizia politica della DDR) cercò di recuperarlo, lui temette sempre una vendetta, si diede all’alcool, fu preso dalla depressione. Libero, non si liberò del fantasma del Muro e della sua persecuzione. Il suo destino si compì dopo un litigio con la moglie.
Lo trovarono impiccato a un albero vicino alla sua abitazione in Baviera. Aveva soli 56 anni.
La storia non si lascia fermare dal suicidio di un’anima travolta dalle contraddizioni. La storia della Germania unita è andata avanti. Oggi è pericolosamente sicura di essere e dover essere il motore dell’Europa.
Post-scriptum: ‘Selbstmord’ è il suicidio in tedesco. Il suicidio è tragico, ma non appartiene necessariamente al teatro tragico. Più spesso si consuma in privato, in qualche stanza di albergo, fuori di ogni contatto affettivo, giù da un ponte, da un terrazzo, da una nave, con una pistola, un coltello, una fiala, anche con lo strappo di una rete di fili in cui ti ha imprigionato la prescrizione sociale di vita. Ci sono dei medici ben intenzionati che ritengono il suicidio una sorta di malattia, un peccato, una vergogna, un atto di sfiducia in Dio, e dedicano la loro vita alla cura e alla guarigione dei loro pazienti da questa passione. Hanno due pretese: quella di avere il diritto di giudicare i loro pazienti, quella di poter ripulire il fiume sporco a valle senza toccare la causa a monte produttrice del disagio. Il suicidio è per lo storico un grande rivelatore diagnostico, ma ha in sé l’ambiguità del malessere innocente e della colpa cosciente. Solo pochi riescono a dar prova di grandezza affidando al suicidio una testimonianza. Seneca affermò davanti alla storia le sue responsabilità per aver allevato e non corretto un allievo tiranno: e così volle pagare il suo debito. Lucrezia invece col suicidio sancì la sua innocenza, la sua pudicizia, e provocò col suo sacrificio l’avvento della democrazia a Roma. Un giovane cecoslovacco e in altra parte del mondo patrioti vietnamiti si diedero le fiamme in nome della libertà del proprio paese. Esiste dunque un suicidio esistenziale che lotta contro il degrado dell’integrità del corpo; esiste un suicidio etico contro un mondo inaccettabile; esiste un suicidio politico, che può diventare progenitore di avanzamenti sociali. Il suicidio è un importante indizio che qualcosa nel mondo non funziona; condivisibile o detestabile, è un forte passaggio etico, è prova che qualcuno lotta col proprio destino, coi propri errori, con le proprie speranze, coi propri fallimenti. Prima di curarlo medicalmente occorre fare lo sforzo di capirlo.
Alla richiesta di ‘Visioni del tragico’ di offrire uno scritto che abbia un rapporto con la memoria e con la tragedia in Europa, ho proposto alla riflessione sei suicidi che in modo diverso ci portano tutti al dramma storico della nazione tedesca nel secolo che abbiamo alle spalle, a quello che è stato chiamato il sangue dell’Europa, e alla elaborazione di quell’immenso lutto, che è stata ambiguamente sofferta come senso di colpa, come ricerca di pace e di fine dell’odio, come incapacità di sopportazione del rimorso, come bisogno di liberazione e di giustificazione, anche come oscuro desiderio di morte.
Nelle immagini: ritratto di E.O. Plauen; alcune tavole dal fumetto 'Padre e figlio' di E.O. Plauen; un'immagine di Helmut Goebbels; la famiglia Goebbels al completo; proteste ai funerali dei morti di Stammheim in cui si parla di tortura e omicidio di Stato; 'Tote' di @Gehrard Richter; un ritratto di Primo Levi; bambino palestinese arrestato da militari israeliani; bambino sulle macerie in Cisgiordania; un'immagine del ritrovamento del corpo di Uwe Barschel; l'immagine celebre del soldato Schumann che attraversa il filo spinato e una statua a Berlino che lo ricorda; il centro di Berlino in macerie nel 1945.