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Da mesi i nostri teatri sono chiusi: anche la Giornata della memoria che si celebra oggi, 27 gennaio 2021, è stata così privata di una voce essenziale e vitale.

A Milano, teatri come il Franco Parenti, l’Elfo Puccini, il Piccolo Teatro dedicano iniziative online alla ricorrenza, per non dimenticare: rispettivamente, l’Audizione di Gabriele Nissim, presidente dell’Associazione Gariwo, la foresta dei Giusti, alla Camera dei Deputati; Himmelweg (La via del cielo) di Juan Mayorga, con la regia di Gigi Dall’Aglio; il Diario di Dawid Rubinowicz, progetto a cura di Davide Enia.

Da parte nostra vogliamo oggi ricordare due spettacoli teatrali in diverso modo legati alle ragioni di questa giornata: il primo spettacolo che racconteremo è I luoghi della Memoria, nato da un’idea di Stefania Consenti, autrice del libro Luoghi della Memoria di Milano. Itinerari nella città Medaglia d’Oro della Resistenza, con prefazione di Ferruccio De Bortoli (Guerini e Associati 2015). Allestito dal 2015 al 2019 nel Memoriale della Shoah di Milano con attori del Piccolo Teatro e musicisti del Conservatorio Giuseppe Verdi, I luoghi della Memoria è stato visto l’8 settembre del 2016.

Il secondo spettacolo ha raccontato una vicenda esemplare, troppo spesso dimenticata, che precede le leggi razziali, ma che rivela come le premesse di quella scelta fossero tutte nell’ideologia fascista: si tratta di Preferirei di no, spettacolo ideato e diretto da Valentina Colorni con e per il Teatro Arsenale di Milano, che ricorda i professori universitari che non giurarono per il regime. In cartellone dal 2014 al 2016, allestito anche in due Università milanesi, il Politecnico (2014) e la Statale (2018), lo spettacolo è stato tratto dal libro di Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Einaudi 2001), con la drammaturgia di Riccardo Mini.

Al contributo di Raffaella Viccei su I luoghi della Memoria seguono le parole di Valentina Colorni e di Riccardo Mini su Preferirei di no.

Memoriale della Shoah, Milano

Nella città greca di Lebadeia c’era un luogo oracolare che era spazio dell’oblio e della memoria, metafora della morte e della vita: l’antro di Trofonio. Chi entrava in quella grotta moriva, metaforicamente. Il tempo di permanenza nell’antro trasformava in modo profondo e in parte incomunicabile e così, quando veniva compiuto il percorso inverso per tornare alla luce del sole e alla vita, il vivere non era più lo stesso. Per accedere a quella grotta e per uscirne bisognava bere a fonti dalla natura opposta e complementare: Lete, oblio, e Mnemosyne, memoria.

Dimenticare per ‘morire’ e, oltrepassata la soglia che riportava alla vita, ricordare quello che si era visto e udito in quel luogo separato.

Questa dinamica mi è tornata alla mente una sera di settembre del 2016, quando sono entrata per la prima volta nel Memoriale della Shoah di Milano, nato per dare memoria del buio ‘antro’ della Stazione Centrale dove, tra il 1943 e il 1945, tanta umanità, soprattutto ebraica, è stata costretta a varcare un ignoto limite. Strappata con inumana ferocia da luoghi familiari e ammassata nei venti convogli organizzati dall’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), è stata deportata verso non-luoghi, dove ogni traccia di vita e di umana pietà veniva sistematicamente calpestata, umiliata, annientata: Auschwitz-Birkenau  e i Konzentrationslagern.

I pochi sopravvissuti a quei viaggi di morte hanno voluto e dovuto ricordare per sé, per le proprie famiglie, smembrate, per lo più cancellate, per le donne e gli uomini che sono e che saranno, e qualcosa hanno dovuto dimenticare per sopravvivere all’orrore e poterne essere attivi e generosi testimoni nel tempo, come Liliana Segre, deportata ad Auschwitz a 13 anni. Partenza: Milano.

Liliana Segre bambina

 

«Arrivati alla Stazione Centrale, la fila dei camion infilò i sotterranei enormi passando dal sottopassaggio di via Ferrante Aporti; fummo sbarcati proprio davanti ai binari di manovra che sono ancora oggi nel ventre dell’edificio. Il passaggio fu velocissimo. SS e repubblichini non persero tempo: in fretta, a calci, pugni e bastonate, ci caricarono sui vagoni bestiame. Non appena un vagone era pieno veniva sprangato e portato con un elevatore alla banchina di partenza. Fino a quando le vetture furono agganciate, nessuno di noi si rese conto della realtà. Tutto si era svolto nel buio del sotterraneo della stazione […] Prima che cominciasse la Foresta Nera, il treno si fermò e qualcuno poté scendere tra le SS armate fino ai denti, per prendere un po’ d’acqua e vuotare il secchio immondo. Anch’io e il mio Papà scendemmo e vedemmo per la prima volta, scritto con il gesso sul vagone: “Auschwitz bei Katowice”. Capimmo che quella era la nostra meta. Il treno ripartì quasi subito e la notizia della nostra destinazione gettò tutti in una muta disperazione. Fu silenzio in quel vagone in quegli ultimi giorni. Nessuno più piangeva, né si lamentava. Ognuno taceva con la dignità e la consapevolezza degli ultimi momenti. Eravamo alla vigilia della morte per la maggior parte di noi. Non c’era più niente da dire. Ci stringevamo ai nostri cari e trasmettevamo
il nostro amore come un ultimo saluto. Era il silenzio essenziale dei momenti decisivi della vita di ognuno».

Quando per la prima volta ho varcato la soglia del Memoriale, la sera dell’8 settembre, davanti ai miei occhi c’era la matericità dolorosa e difettosa dei materiali originali di quel ventre oscuro, c’erano ferro e cemento, valorizzati nella loro brutalità, recuperati per dare voce alla natura e alla funzione di quel luogo, ferro e cemento fratelli di morte della «ruggine dei pali» e dei «grovigli di ferro dei recinti» di Auschwitz. Quella sera, ed è stato poi per altre sere di settembre fino al 2019 – prima che il teatro si fermasse per la pandemia –, le parole di attori del Piccolo Teatro di Milano e la musica di strumentisti del Conservatorio Giuseppe Verdi hanno raccontato la deportazione e la tragedia della Shoah.

Ricordo che l’8 settembre siamo stati accompagnati in un viaggio nella memoria, indelebile anche perché vissuto con i nostri corpi, i passi e i loro rumori, il peso del respiro. Nello sfogliare gli strati del non senso del male nella storia e dell’atroce indifferenza, nel tentativo di ricostruirne la folle genesi e il disumano divenire, anche i nostri corpi erano chiamati a reagire, indignarsi, dire no. Siamo stati guidati a entrare in uno dei vagoni strumento di deportazione, in molti, gli uni vicini agli altri, con una prossimità disturbante. Era impossibile non sentire nel corpo una eco di quel sinistro smarrimento che prese i deportati stipati, incomprensibilmente stipati come merce senza valore per una destinazione sconosciuta. Quasi a contatto con le pareti del vagone, si percepiva con il corpo la memoria che anche le cose conservano. Le parole di chi in quel vagone era stato davvero – nella voce di Sergio Leone –  ci hanno trascinato verso altro orrore, amplificato dal rumore imperturbabile dei treni che sopra di noi partivano e arrivavano in una diversa Stazione Centrale.

Memoriale Shoah Milano

Poi abbiamo raggiunto le Lapidi dei convogli. Così si chiama il luogo dove numeri e lettere fissano in terra il destino di bambini, donne, uomini mai più tornati, mentre i nomi di tanti votati allo sterminio e dei pochi salvati vengono proiettati dal Muro dei Nomi e toccano gli occhi, fino a far lacrimare per l’ipnotico dolore e per il doveroso risarcimento alla vergogna di identità eliminate e sostituite con il crudele scherno di numeri senza storia.

Ricordo, davanti a questo Muro, la musica del violino sopravvissuto a Birkenau, suonato da una giovane violinista del Conservatorio. La musica è stata una voce altra, rispetto a quella delle parole, per ricordare una giovane donna di Torino che non ha fatto ritorno. Il suo nome era Eva Maria Levy-Segre. È stato il modo per ricordare il fratello Enzo, al quale affidò il suo violino, il modo per ricordare il loro legame oltre la morte. Un cartiglio, trovato dentro lo strumento, riportava una semplice partitura musicale. Le note si alternavano ai numeri di matricola del fratello di Eva ed erano coronate dal disegno di un filo spinato e da parole di resistenza più potenti del filo: Der Musik macht frei. L’ironico controcanto al famigerato ingresso di Auschwitz è dichiarazione di una libertà possibile nonostante il campo di sterminio.

Nell’ultima tappa del viaggio abbiamo vissuto attimi per rielaborare ciò che è stato. Siamo arrivati in una struttura conica, essenziale, che racchiude il Luogo di Riflessione. Ci siamo seduti attorno a Franca Nuti. Nel silenzio prima della sua lettura, si avvertiva una strana quiete.

«Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case» ... Questa poesia di Primo Levi e parti de Il canto di Ulisse (da Se questo è un uomo) hanno mosso tante riflessioni sulla necessità del non dimenticare, sul dovere della difesa della dignità, persino, anzi, ancor più nell’inferno di Auschwitz e nei tanti inferni gemelli. Con il metaviaggio di Ulisse, con il coraggio del «folle volo» verso «virtute e canoscenza» in un luogo dove il solo diritto era quello di  essere anonimi «bruti» fra i bruti, è terminato il viaggio nel Memoriale

Uscendo, abbiamo ripercorso a ritroso parte dello spazio e siamo tornati al punto di partenza: lì, su un grande muro di pietra scura, è incisa la parola INDIFFERENZA, la complice occulta della Shoah. Il percorso compiuto con gli attori e i musicisti mi ha fatto rileggere questa parola con più consapevolezza e mi ha spinto a interrogarmi sulla sua attualità, sulle sue forme oggi.

Le risposte sono arrivate subito, visibili e tangibili già all’esterno della Stazione Centrale, nelle nostre reazioni di fronte alle tante donne e ai tanti uomini che vivono ai margini della cosiddetta società civile.

Non è mai abbastanza praticare, come individui e come collettività, la memoria storica e culturale, che non è un fossile o un esercizio retorico ma è un organismo vivo, attivo, palpitante, che scuote e ci interroga, anche duramente. La memoria è il nostro presente e il nostro futuro.

Le mie guide di viaggio dell’8 settembre del 2016, gli attori e i musicisti, hanno dato una voce essenziale e profonda a molte parole, hanno meglio illuminato il loro valore, il loro potere nel determinare i destini e nel portarli verso lete mnemosyne, hanno scolpito il loro essere pietra e fatto tremare per i silenzi. (R.V.)

Nel 1931 il regime impose a tutti i professori universitari italiani un giuramento di fedeltà al fascismo. Su 1250 docenti, solo 12 si rifiutarono di firmare e soffrirono le conseguenze del loro rifiuto. In alcuni casi essi lasciarono testimonianza scritta dei motivi per i quali non vollero giurare, in altri casi semplicemente si rifiutarono di farlo, senza proclami. Le loro parole e la loro scelta testimoniano la fede nella libertà di pensiero, nell’autonomia della ricerca scientifica e umanistica, nel diritto all’autodeterminazione.

Noi, gente di teatro, abbiamo scelto di raccontare questa storia su un palcoscenico, di tradurla nel nostro linguaggio perché arrivasse al pubblico attraverso i corpi degli attori e lo spazio della scena, perché restasse nella memoria collettiva. Lo abbiamo fatto per condividere con gli spettatori le domande che questa vicenda solleva.

Non si tratta di dare giudizi – professori buoni o cattivi, coraggiosi o codardi, nessuno dei dodici ha giudicato i colleghi che scelsero di firmare – ma si tratta invece di ascoltare le domande.

Io, oggi, di fronte a una scelta analoga, cosa farei? Saprei riconoscere le implicazioni morali di una decisione paragonabile a quella del 1931? In base a quali principi agirei? Quale sarebbe il mio livello di consapevolezza?

Quello che ci interessava, come compagnia di teatro, era condividere le domande, il dilemma morale, non certo fornire risposte, che non abbiamo. E lasciare il pubblico con la libertà di interrogarsi sul problema della scelta che i dodici professori ci indicano oggi, a distanza di anni, perché le decisioni possono essere diverse ma siamo sempre e ancora esseri umani e nell’umanità è insito l’interrogarsi sul senso morale delle proprie scelte.

Noi, nel leggere questa storia, ci siamo commossi, abbiamo voluto che i dodici professori entrassero a far parte di noi, diventassero un po’ anche nostri amici, ci facessero memoria della necessità del dubbio, del dissenso, del rifiuto semplice e ponderato: preferirei di no, appunto. Scelgo di non aderire. (V. C.)

E vogliamo ricordare i loro nomi, perché non vengano dimenticati:

Giuseppe Antonio Borgese. Docente di Estetica e Storia della critica all’Università di Milano

Ernesto Buonaiuti. Docente di Storia del cristianesimo all’Università di Roma

Mario Carrara. Docente di Antropologia criminale e Medicina legale all’Università di Torino

Gaetano De Sanctis. Docente di Storia antica all’Università di Roma

Giorgio Errera. Docente di Chimica all’Università di Pavia

Giorgio Levi Della Vida. Docente di Lingue semitiche all’Università di Roma

Fabio Luzzatto. Docente di Diritto civile all’Università di Macerata

Piero Martinetti. Docente di Filosofia teoretica e morale all’Università di Milano

Bartolo Nigrisoli. Docente di Chirurgia all’Università di Bologna

Francesco Ruffini. Docente di Diritto ecclesiastico all’Università di Torino

Edoardo Ruffini. Docente di Storia del diritto all’Università di Perugia

Lionello Venturi. Docente di Storia dell’arte all’Università di Torino

Vito Volterra. Docente di Fisica matematica all’Università di Roma

Preferirei di no è una drammaturgia realizzata a partire dal libro di Giorgio Boatti (Einaudi 2001), la storia dei dodici professori che, nel 1931, dissero di no a Mussolini.

Quando la dittatura fascista impose ai professori universitari il giuramento di fedeltà, su oltre 1200 fra ordinari e incaricati, solo dodici si rifiutarono di piegarsi al duce, perdendo la cattedra e subendo, nell’Italia massicciamente sottomessa al regime, un raggelante isolamento, venendo esclusi da tutte le accademie e le associazioni del Regno.

 Erano intellettuali differenti per origine, carattere, modo di pensare, estrazione sociale. In quell’autunno impartirono la più magistrale delle lezioni, insegnando che dire no è una scelta dovuta, prima di tutto a sé stessi. L’imposizione del giuramento rappresentò una ferita per ogni libera coscienza, alla quale i dodici risposero con la singolare forza della loro testimonianza. Il loro gesto, privo di enfasi, fu il risultato di uno scarto individuale rispetto a quei modelli di uniformità e di irreggimentazione dell’intellettualità che cominciavano a imporsi in quegli anni e che costituirono una costante del ventennio fascista.

Lo spettacolo, prendendo spunto dalla ricostruzione storica di Giorgio Boatti, vuole ripercorrere i tragitti di vita, talvolta intrecciati tra loro, di alcuni di questi dodici isolati viaggiatori che, pur nella diversità della loro estrazione socio-culturale e delle loro idee politiche e convinzioni religiose, fecero una scelta individuale rigorosissima; mondi di umanità e semplicità che sanno parlare, ancora oggi, con forza ed efficacia. (R. M.)

 

 

Nell’articolo di Raffaella Viccei, la testimonianza di Liliana Segre, da cui è tratta la citazione, si può leggere per intero qui.  La citazione «ruggine dei pali», «grovigli di ferro dei recinti» è da Auschwitz di Salvatore Quasimodo.

Sul violino di Eva Maria Levy segnaliamo il libro per bambini di Anna Lavatelli, Il violino di Auschwitz, con illustrazioni di Cinzia Ghigliano, Edizioni Interlinea, 2018.  

Sulle leggi razziali: il documentario 1938 – Diversi di Giorgio Treves (2018).

Sull’indifferenza: il documentario di Sergei Loznitsa Austelitz (2016).

 

Le immagini sono tratte da https://www.elfo.org/ (Himmelweg), http://www.memorialeshoah.it/ (Memoriale della Shoah di Milano), https://www.einaudi.it/catalogo-libri/storia/storia-contemporanea/preferirei-di-no-giorgio-boatti-9788806235260/ (Preferirei di no, Giorgio Boatti), https://www.facebook.com/teatro.arsenale/photos/a.165865970141264/3024023634325469/?type=3&theater (Preferirei di no).