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Si traducono, fornendole di link esplicativi, alcune pagine dall’autobiografia di Tilla Durieux (1880-1971), una delle attrici di origini ebraiche più note e importanti del teatro europeo del Novecento, le cui vicende biografiche sono legate agli eventi più significativi del secolo scorso e della storia del teatro e del cinema.

Iniziò la sua carriera sotto la regia di Max Reinhardt, fu moglie di Paul Cassirer, mercante d’arte e gallerista che tanto influenzò l’arte europea sino all’ascesa del Nazismo, fu al fianco di Rosa Luxembourg e durante l’esilio, dopo le leggi razziali, fu partigiana in Jugoslavia. Qui si presentano, per la prima volta in italiano, le pagine in cui si racconta la sua fuga da Berlino, già al momento della presa del potere da parte di Hitler, quando molti ebrei tedeschi non intuirono il pericolo che incombeva su di loro. Nell’immagine finale, il ritratto che le fu fatto da August Renoir  a Parigi nel 1914, con il ricordo dell’attrice nella sua autobiografia, che crediamo importante per le nostre riflessioni sul tragico. Per la storia in generale dei teatri di Berlino si rinvia alla guida Berlino: tra passato e futuro, Cue press (S.F.)

Per il Kurfürsterdamm, il viale principale di Berlino,  passavano orde di uomini che urlavano in coro ‘via gli ebrei! Juden raus!’ e cose del genere. Si raccontavano già molti casi di ebrei presi a schiaffi e pugni. Però la prima del nostro spettacolo andò regolarmente in scena il 9 marzo del 1933, ebbe successo e, contro ogni timore, non si verificarono problemi.

Si diffuse intanto la voce che sarebbero stati i comunisti ad appiccare il fuoco al parlamento tedesco il 27 febbraio, e in tutti i quartieri della città si giunse alle mani tra comunisti e nazisti. Quando tornavamo a casa, dopo lo spettacolo, incontravamo per strada quasi solo camicie brune che marciavano in gruppo.

 Il tempo era diventato così brutto, che decidemmo di prendere una stanza all’ Hotel Esplanade, per non dover tornare la sera a casa, che si trovava in campagna, fuori città, a diversi chilometri da Berlino. Inoltre, sulla via per tornare a casa, c’era un edificio protetto da alte mura e sorvegliato. Era una vecchia fabbrica vuota, che fu occupata in quei giorni.  Non avevamo idea che si trattasse del primo campo di concentramento in Germania, ma passare vicino a quelle mura ci incuteva terrore.  Così decidemmo di trasferirci a Berlino e cominciammo a cercare un piccolo appartamento in affitto in città: tanto più che mio marito era già stato fermato varie volte dalla polizia, mentre tornava a casa in campagna, e maltrattato. Hitler, nel frattempo, aveva preso il potere.

Dopo la prima, un critico scrisse che avevo dei tratti somatici ‘mongoli’ e in quanto tali ‘impressionanti’: quanto io valessi come attrice, come fosse andato lo spettacolo – tutto passava in secondo piano rispetto ai miei tratti ‘mongoli’, che scoprii allora per la prima volta di possedere. Simpatica formulazione, espressa con una certa finezza, lontana dai toni propagandistici e rozzi della plebaglia delle camicie brune. Nei feuilleuton intellettuali non si sarebbe mai letto un esplicito Juden raus, ‘cacciamo via gli ebrei’, no – le frasi erano più eleganti, ambigue, se volete. Bastava leggere che i tratti ‘mongoli’ del mio visto destavano una certa, paurosa, impressione. Si capiva che non avrei potuto calcare più a lungo le scene.

Mi ero sempre sentita una straniera, diversa dagli altri – che avessi qualcosa dentro di me, un demone, uno spirito che animava e ispirava il mio talento, qualcosa di incomprensibile ai più – ne ero sempre stata consapevole, sin da quando ero bambina. Ma diversa per i tratti del mio viso, no, questo non l’avevo mai avvertito. Tutto sommato, mi parve un’osservazione risibile. Né potevo considerarla una critica. Non ci pensai tanto. In fondo, ero sempre la prima attrice del più importante teatro berlinese, ero nota,  continuavo ad aver successo. Presto non fu più così e ci trovammo nostro malgrado in un dramma shakespeariano con tutti gli elementi: buffoni e vigliacchi, tradimento e coraggio, fughe notturne  e morti, morti, morti. Nel frattempo, ci circondavano clowns. A cui nessuno prestava ascolto, al massimo qualche occhiata sbadata e divertita.

Il 31 marzo 1933 andammo in scena, come tutte le sere. Per il giorno dopo, il 1 aprile, il governo di Hitler aveva annunciato una giornata di boicottaggio degli ebrei e di ogni attività degli ebrei. La sera del 31, dopo il primo atto, il direttore si precipitò da noi in camerino e ci disse che per il giorno dopo era prevista una dimostrazione contro lo spettacolo. Perciò aveva deciso di non mandarmi più in scena, e mi consigliò di partire immediatamente, con mio marito.

 Mi disse, balbettando, interrompendosi per l’agitazione, che erano venuti degli uomini, non si capiva chi precisamente, a chiedere delle due ebree: una ero io, l’altra era Else Schiff, che era anche la moglie dell’attore che – con me – aveva il ruolo principale, Albert Bassermann. Il dramma in cartellone, Il conflitto,  era stato scritto da Max Alsberg, avvocato penalista, il più noto dell’epoca, e professore all’università di Berlino, e trattava di temi politici: Alsberg, dopo la prima, era già fuggito, ma finì suicida in Svizzera, dopo essere stato licenziato e aver ricevuto il divieto di esercitare la professione, l’ 11 settembre 1933. Aveva capito tutto del futuro, molto più di quegli ebrei che non vollero lasciare subito la Germania, che erano sicuri che non sarebbe stato fatto loro alcun male perché erano tedeschi e perché avevano servito la patria: quanti avrebbero dovuto pagare questa convinzione nei campi di concentramento e nelle camere a gas!

Dunque, la prima era andata in scena indisturbata, ed era stato una specie di miracolo: ma allora non si credeva che la persecuzione sarebbe andata oltre qualche propagandistica scaramuccia, e che le acque si sarebbero calmate. Intanto, quello spettacolo doveva essere cancellato.

Così fui licenziata da un giorno all’altro. L’ultima sera lì nel camerino, l’ultima sera di spettacolo. Altrimenti sarebbe stata l’ultima sera per il teatro- disse il Direttore.  Basta. Finito.  Mi ero rifatta il trucco e il sipario era stato alzato per l’inizio del secondo atto, la gente aspettava. ‘Licenziata? ‘ – dissi – ‘E il mio contratto?’ Il direttore sudava copiosamente, si passava un fazzoletto sulla fronte imperlata e corrugata, pareva sul punto di avere un infarto. ‘Contratto…’ – disse; ‘Tilla, forse non hai capito…’. Tornai in scena, lo spettacolo durava fino alle 11 meno un quarto, e alle 11 partiva un treno per Praga.

Tornai in scena, ma chiesi ad un’amica di andare da mio marito, che era in Hotel, di dirgli di prepararsi a partire con il minimo necessario:  ci saremmo visti alla stazione, per prendere il treno per Praga.

Il secondo atto fu interrotto da urla e grida contro me ed Else. Eppure continuammo. Fino alla fine, anche se non ci presentammo per gli applausi. Corsi in camerino. Il mio piccolo, grassoccio direttore mi strinse una mano tra le sue e vi fece scivolare una busta con lo stipendio di un mese. Poi galantemente mi baciò la mano. Piangeva, ma molto dignitosamente. Il teatro si trovava vicinissimo alla stazione di Friedrichstrasse, arrivai sul binario cinque minuti prima della partenza. Mio marito era lì, ebbi appena il tempo di sfiorargli la guancia con un bacio, mi lanciai nel vagone stracolmo. Il treno scoppiava, la stazione scoppiava, nella odorosa serata di primavera pareva che tutta Berlino stesse per partire. Conoscevo tutti o quasi nel mio vagone : scrittori, banchieri, avvocati, musicisti. ‘Partiamo tutti per Praga?’ – domandò ironicamente Ludwig, uno dei miei compagni di viaggio. Voleva essere una battuta. Ma non rise nessuno. Partimmo alle undici in punto. Fu come se dal treno si alzasse un sospiro di sollievo, un enorme, intenso, respiro collettivo di liberazione. Si poteva udire per tutto il cielo di Berlino.

 Non condividevo tutto quell’ottimismo. Ed infatti, poco prima di Dresda, il treno si fermò improvvisamente in una piccola stazione, nei vagoni fecero irruzione dei poliziotti che chiedevano con un tono ostile quale fosse la nostra confessione religiosa. Chi non dava informazioni sufficienti o credibili, veniva sbattuto giù dal treno. Da noi vennero due volte. Io risposi sempre, sorridendo, di essere cattolica, e mio marito la verità, che era protestante. Perché non fecero caso al fatto che avessi un cognome ebreo, non lo capisco ancor oggi.

Sul treno rimase solo una minoranza. Quasi tutti gli altri furono fatti scendere. Negli scompartimenti piombò il silenzio. Solo quando avevamo attraversato ormai da tanto tempo il confine cecoslovacco, avemmo la forza di ricominciare a parlare tra noi. La prima sera andammo all’ Hotel Esplanade, a Praga – ma certo non potevamo permettercelo, avevamo appena duecento marchi. Così già il giorno dopo mi risolsi a cercare i genitori di Ernst Deutsch, che era molto famoso, e soprattutto era di origine ceca e quindi non aveva nulla da temere dal regime nazista. Li convinsi a prestarci dei soldi, che avremmo restituito un giorno a Ernst a Berlino. Quindi partimmo per la Svizzera, dove lavorai per tutta la stagione.

Quanto aveva avuto ragione Auguste Renoir, il grande pittore! Anni prima, avevo passato settimane nel suo atélier a Parigi, mentre dipingeva un mio ritratto. Mentre lavorava, non smetteva mai di parlare, anche se la voce ormai gli si era incrinata per l’età. «Sai, Tilla, mi aveva detto una volta, sapresti rispondermi se ti chiedessi: ‘cosa è tragico?’. Diciamo in continuazione: ‘è una tragedia’, ma cos’è davvero una tragedia? Tragedia, una parola usata sempre con un senso sbagliato.  Sino a che scorrono le lacrime, il culmine del dolore non è ancora raggiunto. Solo quando si ride di nuovo, solo allora, Tilla, il dolore ormai è diventato infinito, insuperabile. Tragico, no, non è tragico piangere. Tragico piuttosto è ridere, quando il dolore ti si avventa alle spalle, ti morde, ti dilania. E tu ridi, ridi, ridi. Questa è la vera tragedia.»

Allora ero giovane, innamorata; la guerra, la prima guerra mondiale, non si presentiva nemmeno; a Parigi, vivevo alcuni tra i giorni più importanti della mia carriera, affascinata dalla città. Le parole profetiche di Renoir mi sembrarono le amare considerazioni di un vecchio artista, un po’ invidioso della mia giovinezza. I vecchi invidiano sempre la giovinezza degli altri. Adesso me ne ricordavo, ne comprendevo il senso oscuro.

 

Traduzioni da: Tilla Durieux, Eine Tür steht offen. Erinnerungen. Berlin 1954 (ristampa 1976, con un'appendice per gli anni 1952/1971 raccontata da Joachim Werner Preuß). A Tilla Durieux ha dedicato nel 2011 un monologo teatrale Christoph Hein, portato in scena al Deutsches Theater di Berlino da un'altra attrice mitica del teatro tedesco del Novecento, Inge Keller.