Ancor prima della fine della seconda guerra mondiale, almeno dal 1942, si venne a sapere dell’esistenza dei campi di sterminio e si diffuse la consapevolezza che coloro che non erano riusciti a fuggire dalla Germania tedesca erano stati uccisi o trucidati: quelle tragiche circostanze dettero occasione a molti artisti e scrittori di ricorrere al tema del ‘viaggio nell’aldilà’.
La catabasi, ossia la discesa nel mondo dei morti, rese infatti possibile ricordare i morti, resuscitandoli – per così dire – nelle opere d’arte; d’altra parte, offrì un modello narrativo per la rielaborazione del lutto e per il ripensamento del passato.
Perciò, nei decenni successivi al 1945 la rievocazione dei morti diventò un tratto peculiare della letteratura della Shoah; rievocazione che non può naturalmente essere scissa dal confronto degli autori con il passato comune e anche con ciò che era stato represso del loro vissuto biografico.
La catabasi, del resto, gioca un ruolo importante nella psicologia del profondo: basti pensare, solo per fare un esempio, al celebre motto dall’ Eneide di Virgilio che Freud appose alla prima edizione dell’Interpretazione dei sogni: Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo, Se non riuscirò a piegare gli dei, smuoverò l’Acheronte.
Qui si porterà ad esempio il romanzo Mia sorella Antigone (1980) di Grete Weil, che già nel titolo allude ad una sospensione, ad un annullamento del tempo: la ‘sorella’ dell’io narrante, infatti, è un personaggio della mitologia greca, viene perciò da un passato arcaico e il rapporto di parentela va inteso come un puro anacronismo simbolico.
Il tema del romanzo è l’elaborazione del lutto per i morti della Shoah in generale e per un essere umano amato in particolare, il marito dell’anonima voce narrante, deportato ed ucciso in un campo di sterminio. Nella narrazione, si intrecciano diversi piani temporali così come visioni e racconto del presente, grazie soprattutto al linguaggio dei sogni.
Grete Weil, pseudonimo di Margarethe Elisabeth Dispeker, nata nel 1906 sul Tegernsee da una ricca famiglia ebraica, nel 1933, cioè appena Hitler salì al potere, emigrò ad Amsterdam con il marito, la madre e la suocera. Weil riuscì a salvare sua madre e sua suocera, ma non suo marito, Edgard Weil, che venne catturato in una retata e assassinato a Mauthausen, cosa che Weil venne a sapere già nell'ottobre 1941.
Entrata successivamente nel Consiglio ebraico di Amsterdam, la discussa organizzazione ebraica che contribuiva a censire e a stilare le liste per le deportazioni, e in particolare lavorò nella Schouwburg, il teatro di Amsterdam che servì a nazisti come punto di raccolta degli ebrei che dovevano essere smistati nei campi. Quando nel 1943, nonostante avesse collaborato con i nazisti, venne comunque il suo turno di essere deportata riuscì a fuggire alla cattura e a nascondersi. Sopravvisse alla guerra, ma proprio il fatto di essere una sopravvissuta diventò il problema esistenziale e morale per il resto della vita e impresse un marchio indelebile alla sua opera letteraria. Dopo il 1945 decise di tornare in Germania, poiché intendeva continuare la sua attività di scrittrice in tedesco e non poteva esercitarla altrove, e visse prima a Francoforte e poi in Baviera.
Il romanzo Mia sorella Antigone apparve solo nel 1980, quando cioè la scrittrice era più che settantenne: ottenne un certo successo, anche se tardivo, dato che per tutta la vita l’autrice aveva cercato la notorietà letteraria.
Il romanzo è una disanima impietosa del proprio passato e della persecuzione degli ebrei in generale. Con il racconto, si cerca di rispondere alle domande più insistenti: perché gli ebrei non si erano difesi? Perché non avevano fatto qualcosa? A determinare il successo del romanzo, però, non fu tanto o solo il suo legame con la Shoah, quanto il fatto che – come diremo – il romanzo pone in diretto collegamento il passato tedesco con il presente degli anni Settanta nella Repubblica Federale Tedesca, gli anni del terrorismo, i cosiddetti ‘anni di piombo’.
La domanda più urgente che guida la narrazione, dunque, riguarda l’incapacità o la non volontà degli ebrei di difendersi. Chiede la voce narrante:
Abbiamo mai pensato di fare resistenza?
No, a questo non abbiamo pensato. Non eravamo stati educati a opporci. Il credo dei genitori: abbiamo provveduto per tempo. In questo mondo progressista i nostri figli non potranno essere danneggiati per il fatto di essere ebrei. Una convinzione nella quale eravamo radicati.
L’ io narrante femminile in queste frasi descrive in prima persona plurale l'atteggiamento di tanti ebrei tedeschi assimilati, che nella fiducia della loro appartenenza alla comunità nazionale tedesca avevano sottovalutato il pericolo del nazismo e si erano cullati nella sicurezza che i tedeschi non avrebbero mai fatto loro del male.
L’io narrante sceglie però paradossalmente come ‘figura della memoria’ una figura del mito classico che nella cultura occidentale rappresenta la resistenza per antonomasia, cioè Antigone. Ma è appunto un paradosso: l’archetipo della resistenza, Antigone, serve infatti da specchio deformato per chi non ha nemmeno pensato a resistere.
Il mito di Antigone è notissimo: Antigone non può lasciare il fratello morto insepolto fuori dalle mura della città, come ha ordinato Creonte. L'Antigone sofoclea non si piega a quelle che percepisce come leggi ingiuste, ma non ricorre alla violenza: "Non sono nata per condividere odio, ma amore", dice nel verso più celebre della tragedia, che ricorre naturalmente nel romanzo della Weil. Antigone, figlia del re Edipo, sfida il nuovo re, Creonte, che è anche suo zio, fratello della madre Giocasta, e paga il suo gesto con la morte.
Il romanzo di Grete Weil è anche un affannoso chiedersi perché la voce narrante abbia scelto sin dall’infanzia proprio Antigone come termine di paragone e figura di riferimento, perché cioè proprio Antigone le sia vicina e ‘sorella’, in maniera ambivalente come in ogni rapporto di sorellanza:
Il fascino di Antigone: che lei, così vicina alla morte, ami la vita. Che abbia il coraggio di giocarci. Il suo impareggiabile coraggio, che accetti ogni sfida. Fa senza tentennamenti ciò che ritiene necessario. Già quando se ne va da Tebe con Edipo e abbandona Polinice, che ama. Il cieco ha bisogno di lei. Prende in fretta le decisioni, compie quello che ritiene giusto. Conosce l’arte della vita e quella della morte, come due parti indivisibili di una grande unità. Io non riesco a figurarmi, dopo tutto ciò che è successo, il suo ritorno a casa, nella casa regal-borghese. In una vita dal funzionamento senza intoppi, in cui può realizzare ogni suo desiderio. Non vuole la realizzazione, vuole il sogno.
Antigone, però, nel romanzo compare più per contrasto che per analogia con la vicenda dell’io narrante, e funge da contro-voce, da inquisitrice, sottoponendo l’io narrante ad un interrogatorio impietoso, crudele.
L’anonima narratrice del romanzo di Grete Weil si mette infatti sotto processo nel duplice ruolo di vittima e di carnefice: vittima in quanto ebrea, carnefice perché ha ceduto al compromesso, e ha scelto di collaborare ai consigli ebraici, che lavorarono per i nazisti, pur di salvare la vita a se stessa e alla madre.
Ma alla protagonista, come accennavamo, non basta mettere sotto analisi critica il passato, quel che era successo quarant’anni prima, quando era fuggita dalla Germania nazista per andare ad Amsterdam con suo marito, poi catturato in una retata e trucidato a Mauthausen. La narratrice sottopone ad un vaglio attento anche l’immediato presente, cioè la metà degli anni Settanta del secolo scorso, gli anni che ricordiamo come gli ‘anni di piombo’, gli anni del terrorismo stragista.
L’idea guida della narrazione, il filo rosso che la presenza stessa di Antigone sembra allacciare lungo tutto il romanzo, è che il coraggio di Antigone non era servito solo durante il dominio nazista, perché anche dopo si era continuato a compiere massacri e crimini di guerra, e atrocità continuavano ad essere compiuti, la narratrice lo sa e si pone la domanda: "Perché non so che cosa potrei fare?". Ad angustiarla, dunque, non è tanto o solo quel che poteva essere fatto, ma quel che si può e deve fare nel presente.
Perciò la narrazione non si spinge solo nel ricordo, ma descrive anche con la realtà della Repubblica Federale Tedesca a metà degli anni Settanta: il modo mendace di affrontare il passato è una delle ragioni dell'attualità della ribellione di Antigone contro il potere e contro le leggi percepite come ingiuste.
Per almeno un decennio, dopo la guerra, i tedeschi avevano taciuto sui crimini commessi dal nazismo, erano rimasti in silenzio. La generazione dei padri che avevano convintamente aderito al nazismo era ancora nelle gerarchie e nei posti più importanti dell’economia e della società tedesca. Negli anni Settanta, i giovani intesero ribellarsi sia al silenzio colpevole, sia ad una società capitalistica che perpetrava legittimamente le stesse ingiustizie del totalitarismo. Ne nacque una questione morale, quando la ribellione divenne guerriglia umana e seminò uccisioni e stragi: era legittimato l’uso della violenza da parte di quei terroristi, per la cui ideologia molti avevano ‘simpatizzato’?
I dubbi sulla necessità e sulla giustificazione dell’uso della violenza giungono al culmine, nel romanzo, quando Cristina, la sua figlioccia, la prega di dare ospitalità per un giorno ad una amica. Anche se la giovanissima Marlene (questo il nome della ragazza), una studentessa di filologia classica, non racconta molto di sé, tuttavia induce la protagonista a riflettere sui limiti che bisogna porre all’uso della violenza come risposta alla violenza, dato che la ragazza sembra appartenere ai gruppi terroristici. Si tratta di una nuova Antigone? – sembra dubitare la voce narrante.
In un passo del romanzo Antigone viene infatti paragonata a Gudrun Ensslin, una delle figure di spicco della RAF, morta suicida a Stammheim.
L’inizio del terrorismo in Germania. Disperazione causata dall’inumanità.
Antigone e Gudrun Ensslin sullo stesso piano. La più splendente fra le vergini e la ragazza liquidata come criminale. Dov’è la differenza? Solo distanza temporale? Cerco di prendere posizione a favore della mia principessa. Non ha appiccato il fuoco, solo dato sepoltura. Ma non fa alcuna differenza, forse anche Gudrun Ensslin, figlia di pastore, avrebbe preferito dare sepoltura a un morto, se oggi avesse ancora senso inumare un cadavere per manifestare dissenso. Moraliste lo erano entrambe.
La giovane Marlene attribuisce ai “porci” che detengono il potere la responsabilità di non essersi confrontati con i crimini del nazismo e non aver saputo ammetterne l’esistenza. Dunque, combatterli era un dovere. Anche ucciderli? Sino alla scena finale del romanzo, la protagonista incessantemente continua a chiedersi se e in quali casi non sia legittimo l’uso della violenza per combattere l’ingiustizia.
Come ulteriore sfondo per queste domande, vale un documento citato in tutta la sua interezza, una testimonianza sino allora inedita di crimini nazisti, la testimonianza in prima persona dell’ufficiale della Wehrmacht Friedrich Hellmund sulla liquidazione del ghetto di Petrikau (Piotrków Trybunalski) in Polonia.
Quest’ ufficiale descrive in maniera asciutta che le vittime inconsapevoli non si opposero: nemmeno i soldati che reputavano disumani gli ordini ricevuti si opposero, mentre gli altri soldati usavano giustificazioni per calmare il loro complesso di colpa: “il buon H.”, un commilitone di Hellmund, ad esempio, pensa alla fine della giornata, mentre va per le strade “dopo aver fatto il lavoro”: “La gente che ci vede penserà che ne abbiamo fatte di cotte e di crude, e invece noi siamo del tutto innocenti.”
L’anonima narratrice, che ha circa 70 anni, ha di sicuro molti tratti che possono essere intesi come autobiografici, sebbene il testo sia molto più che una autobiografia travestita da fiction. Ci permette di guardare nella sua solitudine e nella sua situazione emotiva condizionata da una breve aspettativa di vita: “La vita come ricordo” – dice la protagonista, che non ha alcuna prospettiva futura nelle sue melanconiche allusioni. Ma la memoria è traumatica, e proprio il suo lavoro sulla figura di Antigone, su cui vuole da sempre scrivere qualcosa, le permette di avere “un sogno che attraversa il tempo”.
Come me la [Antigone] immagino? Un giorno penso di saperlo, il giorno dopo non più, una volta è una parte di me, l’altra il mio opposto in tutto. Un sogno attraverso il tempo, come io desidero essere, come non sono, una figlia di re in anni giovanili, poi vagabonda, intransigente combattente della resistenza, che mette in gioco la sua vita e la perde, discepola, amante di Dioniso, per la quale vita significa odio e morte significa amore, la Decisa, colei che non deroga alla propria legge.
In queste frasi, all’inizio del romanzo, sono contenuti tutti gli elementi del lavoro di Grete Weil sul ‘mito Antigone’: può davvero Antigone servire da modello? L'eroina della tragedia immortale di Sofocle mette in gioco la sua vita per le sue convinzioni morali, ma non si fa agente contro Creonte, non si oppone al potere (questo compito è lasciato nella tragedia al fidanzato Emone, figlio di Creonte); la figura sofoclea ha inoltre un lato oscuro, a volte identificato come un desiderio di morte, a volte come un'inclinazione integralista verso l'assolutezza. Antigone diviene, nella scrittura di Weil, una figura fantasmatica. “Nel romanzo Antigone non è un doppio, ma un fantasma, una costante, immaginaria compagna dei pensieri della scrittrice, dalla fisionomia fluttuante, ambigua, obliqua” – scrive Sotera Fornaro.
I lettori si confrontano con il mondo interiore dell’io narrante femminile: e in questo consiste la differenza tra questa particolare forma narrativa e il monologo interiore. La formula “sogno attraverso il tempo” sembra qui anche alludere ad un desiderio impossibile da esaudire. La parola ‘sogno’ (Traum) viene adoperata in altri passi del testo in senso banale, quotidiano, come illusione, come fuga dalla realtà: ma quando si tratta di descrivere sogni o stati simili al sogno, allora non ricorre la parola ‘sogno’, Traum. In tentativi immaginari allora viene di nuovo abbozzata la figura di Antigone, le viene persino data vita, tanto che, nel sedicesimo capitolo, si arriva persino all’incontro tra la narratrice e due visioni della ‘sorella Antigone’.
In questo capitolo serrato, il penultimo dell’opera, il presente, il sogno e i ricordi trapassano gli uni negli altri, senza cornice e senza introduzione, senza soluzione di continuità. Singole esperienze vissute e ricordate stanno accanto a veri e propri sogni; la forma narrativa adoperata prende una direzione che va oltre il visionario e ha in comune, con i meccanismi del sogno, il punto decisivo dell’annullamento della causalità e dell’ordine spazio temporale. Ad esempio:
Sono con la mamma alla tomba di mia sorella. Su in alto c’e il suo nome scolpito nella nera pietra lucida. Sotto c’è molto spazio. “Lì un giorno saranno i nostri nomi,” dice la mamma, “tua sorella aveva sette anni quando morì. L’età che hai tu adesso. Se non fosse morta, tu non ci saresti.” Devo la mia vita alla morte di un altro essere umano. Mia madre piange. Strappa qualche foglia d’edera appassita. Sussurra: “Era cosi bella. Così dolce. Bambina mia.” Non guardo la tomba. Voglio andarmene.
Non mi piace il cimitero. Perché nessuno piange per me?
(…)
Nel bosco il cane cattura un topo, tiene fra i denti per la coda l’animaletto che si dimena e se lo divora con gusto, partendo dal didietro. Sono seduta su un ceppo e guardo. Quando ha finito viene da me, mette le zampe anteriori sulle mie ginocchia e mi lecca il viso. Non oppongo resistenza.
Amo il cane.
(…)
Sono a Parigi, dal fratello di Waiki e da sua moglie. Vado con la loro macchina da un amico, torno anche sana e salva. Ma quando la sera vogliamo di nuovo uscire assieme non so dove ho parcheggiato l’automobile. Ricerca disperata e infruttuosa per strade e autorimesse sotterranee. La mia testa è vuota e diventa sempre più vuota, così dev’essere morire, è iniziata la dissoluzione, il mondo mi scivola via, l’amato mondo, non riesco a trattenerlo.
Cerco di pensare l’impensabile, di seguire le speculazioni dei fisici sulla finitezza del cosmo. Tutto avrà una fine. Profondo appagamento.
In un sogno l’io protagonista non riesce a raggiungere, nonostante i suoi grandi sforzi, tre figure che si muovono lentamente; in un altro la protagonista e suo marito, Waiki, sono colpiti da granate, durante un viaggio in nave: “esseri umani, assassini”; che in questa espressione l’autrice abbia pensato alla famosa prima frase del racconto Undine geht, Ondina se ne va, di Ingeborg Bachmann: “Voi uomini, voi mostri”?
Tra ricordo e sogno interviene l’esperienza immediata del presente: questa sospensione di spazio e tempo trascina il lettore al cuore della riflessione su resistenza e violenza.
All’inizio di questa sequenza, solo una frase mette sull’avviso i lettori che qui il racconto diventa come il resoconto di uno “stato a metà fra sogno e veglia”.
A metà fra sonno e veglia. Ho caldo, ho freddo. Ho le gambe al petto, giaccio ripiegata su me stessa come un embrione. Vorrei essere a casa, al sicuro. Non sono da nessuna parte e sono ovunque, sono io e sono altri.
Cavalco un morello fastosamente imbrigliato per ampi pianori, dormo in tenda ai piedi del colle con il principe scuro, mi sciolgo in tenerezza, scivolo sulla neve con gli sci, striscio attraverso i cespugli spinosi, allargo le braccia a volo sopra le nuvole, nell’azzurro intenso. Odoro il profumo della macchia e il creosoto della Schouwburg, sento musica e grida e gemiti e singhiozzi e campane minacciose, vedo i miei genitori, giacciono assieme in lunghe vesti bianche e si amano, vedo giovani cani che giocano e bambini bruciati dal napalm, vedo la scala della morte e gli internati con i vestiti a righe, li spingo da parte, corro su e giù per la scala e non trovo Waiki, sento baci sulla mia pelle e vengo battuta con una frusta, fino a che non crollo.
In questa situazione surreale l’apparizione di Antigone non risulta più così sorprendente: vestita di giallo, si siede al letto della narratrice, per raccontare in maniera corretta della propria morte nella caverna, poi la figura scompare di nuovo, dopo che si è trasformata in una specie di guida spirituale:
Lei si curva su di me. Mi abbraccia. Non mi si sottrae più. C’è.
Cerchi il mio segreto, ma è così semplice: Senti e pensa te stessa, non me. Non chiedere mai: anche tu mi ami? Di’ sempre: sono io che ti amo. Non ti difendere da te stessa. Accetta, impara a svuotarti per poter accogliere la pienezza.
Seguono paragrafi, che cominciano sempre con ‘io’ e con una forma verbale al presente, e nei quali non viene risolta l’incertezza della situazione tra ricordo, sogno e presente.
Non appena l’io, durante una messa in scena del Fidelio, va via, prima della fine, Antigone appare di nuovo, come una delle prigioniere nella Schowburg di Amsterdam. La ‘correzione’ del mito va così tanto oltre che nel sogno Antigone spara allo Hauptsturmführer delle SS e la sua celebre affermazione viene rovesciata: “Non sono qui per condividere amore, ma odio”.
Lo Hauptsturmführer che fa l’appello dei prigionieri è in piedi dietro di me. “Il prossimo. Nome?” – “Antigone.” – “Antigone e poi?” – “Solo Antigone.” La guardo in faccia. Sorride. È bella, non l’ho mai vista così bella. Ho paura della sua risolutezza. “Indirizzo?” – “Tebe.” – “Via Tebe numero?” – “Tebe è una città, non una strada.” – “Una città olandese?” – “No, greca. Non gliel’hanno insegnato a scuola?” –“Non è proprio il caso di fare la sfacciata”. Percepisco quanto lo innervosisca questa ragazza, non riesce a inquadrarla nei suoi schemi. Lui fa lentamente il lungo giro attorno al tavolo e si ferma. Fra poco la picchia. Eppure non si muove, non riesce a rompere il suo incantesimo. Lei dice con grande serietà, solennemente: “Non sono qui per condividere l’amore, ma per condividere l’odio.” Quindi estrae dalla veste una rivoltella, mira lo Hauptsturmführer che se ne sta li immobile e preme il grilletto. Lo sparo risuona duro e secco. Silenzio. Non c’è nessun cadavere. Niente sangue.
Ma queste non sono le parole conclusive del romanzo di Grete Weil, il ‘lavoro col mito’ non termina con il suo semplice rovesciamento nell’ultima densa sequenza onirica.
Dopo un improvviso cambio di scena, che non ha nulla di straordinario nei sogni, l’io narrante attende qualcuno davanti a una prigione, senza sapere chi e perché: quando Antigone, vestita di giallo, viene fuori dalla portone l’io narrante cerca di proteggere con il cappotto Antigone che piange e supplica. Colei che sta sognando non capisce perché esiti a portarla a casa con sé:
Ho ricevuto l’ordine di rimanere qui. Disperata cerco di ricordarmi chi mi ha dato l’ordine.
Se si esamina la logica del sogno si comprende che l’ordine è stato impartito dalla sognatrice stessa, che quindi si muove e lascia andare Antigone:
All’improvviso la lascio andare, cade a terra, rimane stesa così com’è caduta. Corro via, corro, corro.
Il lasciarla andare accade nella lingua del sogno letteralmente e ha una conseguenza mortale per Antigone; anche in questa ‘caso’ (Fall) (la figura ‘cade’(fällt) a terra) l’io narrante non riesce a prendere la decisione giusta. Allontanarsi da Antigone significa il fallimento di tutto il progetto della scrittura?
No, forse abbandonare Antigone è stata la decisione giusta, che si realizza in una decostruzione in senso letterale, al servizio della critica culturale grazie a una narratrice che, ha scritto Susanne Baackmann, “ha sperimentato come le costruzioni ideali storiche e culturali possano brutalmente rovesciarsi in una catastrofe storica”.
Antigone resta a terra, come un involucro vuoto. Ma ha adempiuto al suo compito di sorella immaginaria; nell’ultimo capitolo, molto breve, la narratrice torna al presente, e trova piacere nella bruttezza del panorama cittadino che vede dalla finestra. Il futuro viene di nuovo reimmesso nell’orizzonte, proprio come domanda e come ultima parola del testo: “E domani?”.
Mi alzo, in bagno mi lavo il viso con l’acqua fredda, mi infilo la vestaglia e vado in salotto. Guardo fuori dalla finestra, nella sera buia. Sotto di me passano le automobili, una serie interminabile di luci. Sul lato prospiciente della strada, all’angolo con i giardini dove le mignotte passeggiano su e giù in attesa dei clienti, si trova l’area abbandonata e piena di macerie scavata dalle ruspe e infestata dai topi. Sulla sua sinistra una baracca, dentro c’è una birreria. Ne esce un ubriaco, barcolla un po’, inciampa nel buco fatto dalle ruspe, cade, si rialza, si stende a terra, si avvolge nel cappotto e non si muove più. Dietro di lui si erge il bianco muro spartifuoco della casa appena costruita. Il tetto della birreria ne taglia a metà la superficie. Sulla destra il portale classicheggiante della biblioteca civica bombardata, che è stato lasciato in piedi come ammonimento. In una stretta apertura fra questo e il muro scintilla il fiume Meno. Una chiatta a rimorchio scarsamente illuminata scivola lentamente controcorrente, la luce rossa di posizione è dalla mia parte. Più lontano, sul monte Sachsenhäuser, si erge la torre illuminata del birrificio, un silo mostruoso. È tutto terribilmente brutto. Avverto la bruttezza, sono la bruttezza, mi scorre attorno, lascio che mi avvolga, la accetto, accetto me stessa, sono felice.
E domani?
Con il punto interrogativo alla fine del romanzo di Weil si apre uno spazio di salvezza, che è costituito dal racconto stesso. Lo sguardo al futuro, che all’inizio era disperato, sembra di nuovo possibile.
E a questo ha contribuito in maniera sostanziale la ‘sorella’, Antigone; nel monito di Antigone: “non sono da nessuna parte e sono ovunque, sono io e sono altri”, si alludeva alla possibilità di vedere se stessa come un’ altra e di amarsi: nel processo creativo che scaturisce dal mare profondo dello spazio e del tempo, il sé si può riconoscere come ‘io’ e ‘l’altro’.
* Una versione differente e ampliata di questo articolo, dal titolo „Träume, wilde und zarte“. Das Vergangene als Alterität im Werk von Anna Seghers und Grete Weil, è stata pubblicata in tedesco in: Traum, Sprache, Interpretation. Literarische Dialoge: Festschrift für Isolde Schiffermüller, a cura di Chiara Conterno e Gabriella Pelloni, Würzburg 2020, pp. 141-156. Si ringrazia l’autrice per aver concesso la traduzione e la rielaborazione del contributo.
Il romanzo di Grete Weil è tradotto in italiano da Marco Castellari: Mia sorella Antigone, A cura di Karin Birge Buch, Marco Castellari e Andrea Gilardoni, volume primo della collana ‘Il quadrifoglio tedesco’, Mimesis edizioni, 2007. Si rinvia alla prefazione e ai contributi dei curatori lì contenuti per un quadro letterario e storico. Le citazioni sono tratte da quella traduzione.
Alla biografia di Grete Weil si ispira il romanzo di Sotera Fornaro, Centottantasei gradini, Città di Castello 2012.
Bibliografia essenziale:
Uwe Meyer, “Neinsagen, die einzige unzerstörbare Freiheit”: das Werk der Schriftstellerin Grete Weil, Frankfurt am Main, Berlin, New York etc. 1996
Susanne Baackmann, Grete Weil. Widerständige Zeugenschaft, in Shoah in der deutschsprachigen Literatur, hg. von Norbert Otto Eke und Hartmut Steinecke, Berlin 2006, pp. 244 ss.
Marco Castellari, Antigones Spuren in der deutschen Geschichte. Grete Weils Rezeption des antiken Mythos, in: text+kritik Grete Weil (2009), S. 57–65
Sotera Fornaro, L’ora di Antigone dal nazismo agli ‚anni di piombo‘, Tübingen 2012, pp.151-169.
Massimiliano De Villa, Riscrivere il mito sulle macerie: Mia sorella Antigone di Grete Weil, in: Paola Del Zoppo e Giuliano Lozzi (a cura di), Sulle tracce di Antigone. Diritto, letteratura e studi di genere, Roma 2018, pp. 277-314.
Le immagini, in ordine: Fabrizio Gifuni in 'Freud o l'interpretazione dei sogni', Piccolo Teatro 2019; Grete Weil bambina con la madre nei possedimenti di famiglia, fonte Literaturportal Bayern; la scrittrice che riceve il premio intitolato ai fratelli Scholl nel 1988 (fonte: il sito del premio letterario); ritratto di Grete Weil con l'amato cane, opera di Stefan Moses (fonte: Stiftung Exilmuseum, Berlin); la scrittrice da giovane (stessa fonte); la fascia che indossò durante la sua collaborazione ai 'consigli ebraici' (anni 1942/1943) (Monacensia. Literaturarchiv und Bibliothek. München. Nachlass Grete Weil, Biographische Dokumente), esposto e commentato nella mostra digitale Künste im Exil, qui; gli esponenti della cosiddetta Banda Baader-Meinhof; l'immagine di un soldato tedesco degradato al momento della liberazione del campo di Bergen-Belsen, tratta da qui; un'immagine rara del ghetto polacco di Petrikau, tratta da qui; la fortezza di Mauthausen in Austria, che servì da campo di concentramento, dove morì il primo marito di Grete Weil: qui il sito del monumento; ancora un'immagine dallo spettacolo al Piccolo Teatro 'Freud o l'interpretazione dei sogni'; l'attestato della registrazione di Grete Weil come ebrea ad Amsterdam, datato 10 aprile 1941 (Monacensia. Literaturarchiv und Bibliothek. München. Nachlass Grete Weil, Biographische Dokumente 1, esposto ancora in Künste im Exil qui); un ritratto di Grete Weil anziana, opera di Herlinde Koebl, dalla mostra Jüdische Portraits (Norimberga, 2013); una foto del primo marito di Grete Weil, Edgard Weil, nato nel 1908, dalla voce Wikipedia; una foto dal film Kapò di Gillo Pontecorvo (1959); una lettera di Edgard Weil alla moglie dal campo di concentramento, datata 31 agosto 1941 (Monacensia. Literaturarchiv und Bibliothek. München. Nachlass Grete Weil, foto e commento nella mostra Künste im Exil qui); una celebre foto di Helene Weigel come Antigone nella tragedia di Bertolt Brecht (1948); ancora Grete Weil da giovane, sempre dalla biblioteca monacense; infine il secondo marito di Grete Weil, il regista d'opera Walter Jockisch (1907-1970), insieme al quale la Weil scrisse tra l'altro il libretto Boulevard Solitude a cui abbiamo accennato qui.