Teatro patologico è il nome del teatro fondato e diretto a Roma da Dario D’Ambrosi, al centro del film documentario trasmesso la sera del Venerdì santo 2021 su Rai 3, regia di Domenico Iannacone ( autore tra l’altro di I dieci comandamenti).
Il film racconta il lavoro della compagnia per una messa in scena dell’Odissea a partire dal mese di marzo 2020, dall’inizio del lockdown: per fortuna la sospensione estiva delle misure restrittive ne ha permesso a luglio una rappresentazione sul litorale di Ostia.
Il film è non solo una testimonianza della rappresentazione teatrale e del dietro le quinte ma è anche, indirettamente, della sofferenza che il lockdown impone a persone per le quali il lavoro comune, la partecipazione a un’impesa collettiva, ad un progetto che non si può che realizzare attraverso la vicinanza fisica, costituisce una ragione di vita.
Una testimonianza in più di come questa pandemia stia cambiando il concetto stesso di ‘umanitario’: in nome dell’ ‘umanità’, infatti, gli esseri umani sono divenuti numeri che concorrono a grafici e algoritmi, e le conseguenze psicologiche della proibizione del contatto e dell’affettività rischiano di avere durata più lunga dell’epidemia stessa.
Sarebbe comunque riduttivo segnalare il film come l’ennesimo documento della tragedia pandemica, e dobbiamo ammettere di sentirci saturi di docufilm e instant-books sulle emozioni, le impressioni, la poesia, la letteratura e la filosofia contagiate dal corona virus.
Il ‘teatro pandemico’ è ben altro e ci interessa da vicino.
Il nome della coraggiosa compagnia teatrale è quanto mai significativo e non perché chi ne fa parte soffra di patologie mentali e/o fisiche, ma perché non si dà, da quando è stato inventato, teatro che non sia ‘patologico’, ossia che non rappresenti pathe, parola greca il cui significato oscilla, come è noto, tra passioni, sentimenti, sofferenze.
Aristotele indicava nel pathos, termine che possiamo tradurre con dolore ma anche sciagura, oppure fatto luttuoso, una delle parti essenziali della tragedia: “il pathos è un’azione che provoca dolore o distruzione, ad esempio quando qualcuno viene ucciso in scena, o ci sono ferimenti e cose del genere” (Poetica, 1452 b 11-13).
Nelle tragedie superstiti molte di tali ‘cose del genere’ invece che messe davanti agli occhi degli spettatori sono piuttosto lasciate immaginare: altre ‘sofferenze’, invece, sono esposte e rappresentate nei dettagli, con precisione che si può definire medica: la follia di Aiace, ad esempio, o quella di Eracle, che uccide i suoi figli; o ancora la pazzia inaudita di Medea, oppure Oreste in preda alle Furie che si fa matricida. Il teatro greco è ‘patologico’ perché espone allo sguardo la malattia, anche fisica, come la cancrena inguaribile alla gamba di Filottete, con attacchi così dolorosi che lo fanno svenire; o la ferita al fegato di Prometeo incatenato al Caucaso, anche’essa incurabile.
Si sa che il ‘male sacro’, l’epilessia, osservato e studiato con particolare cura dai medici greci, venne portato a teatro dagli autori tragici in tutti i suoi sintomi, come il sonno profondo, le perdite di coscienza e di consapevolezza, gli annebbiamenti improvvisi.
Più in generale, la letteratura greca, e dunque la letteratura occidentale, nasce come racconto di pathe, come osservazione ‘patologica’: l’ira di Achille che apre l’Iliade, come le altre emozioni descritte da Omero, è un fenomeno fisico, che ha sede nella bile, arrossa lo sguardo, fa digrignare i denti e scoppiare il cuore. Ma è il teatro, dicevamo, a mostrare un vero e proprio repertorio patologico: e non è certo un caso che al teatro greco abbia attinto Sigmund Freud e attinge ancora a piene mani la psicanalisi, ai cui albori il teatro è stato riconosciuto come mezzo terapeutico.
Si sa ancora che il significato del termine catarsi è anche medico, e che in un certo filone di storia degli studi è stato interpretato come ‘sollievo’ fisico, inteso come il risultato dell’eccitazione delle passioni che avviene attraverso il ruolo degli attori. Non so se Dario D’Ambrosi avesse presente tutta questa complessa storia, quando ha fondato il ‘teatro patologico’; i suoi esordi però risalgono ai tardi anni Settanta, anni in cui Franco Basaglia pose il problema sociale e politico della cura della follia, e il teatro di D’Ambrosi è una delle manifestazioni di questo interesse con il suo monologo più famoso Tutti non ci sono, che nacque, tra l’altro, da un periodo trascorso nell’ospedale psichiatrico milanese.
Ma il teatro che adesso D’Ambrosi dirige non è ‘patologico’ nel senso di teatro di guarigione, integrazione, terapia; non è ‘patologico’ perché, con un’etichetta usata sempre più spesso, è ‘teatro sociale’, o almeno non lo è solo per questi motivi.
Il teatro non può che essere patologico, termine anch’esso greco che significa ‘riflessione sui pathe’, ‘che riguarda la trattazione delle malattie e delle passioni’. Potremmo anche dire che il teatro è un ‘esperienza dei pathe’ attraverso la loro rappresentazione, un’esperienza che è di tutti coloro che partecipano all’evento teatrale, dell’autore e del regista, del personaggio e dell’attore, dei tecnici e degli spettatori, di tutti coloro cioè che si trovano fisicamente nello spazio del teatro, ossia di quel che viene mostrato.
Lo spettacolo di cui si seguono alcune fasi della preparazione nel documentario di Iannacone si ispira a uno dei racconti più antichi della tradizione occidentale e certamente il più celebre: ossia il racconto del travagliato ritorno a casa di Odisseo, uno degli eroi della guerra di Troia. Il poema epico attribuito ad Omero sulle avventure di Odisseo rende l’eroe immagine e simbolo della vicenda esistenziale di qualsiasi uomo. Ed infatti il poeta inizia invocando la Musa, la dea della poesia, perché canti ‘l’uomo dai molti viaggi, che vide le città di molti altri uomini e ne conobbe la mente, e soffrì molti dolori traversando il mare nel suo cuore’, E perciò Odisseo, ‘colui che molto ha patito’, ci appare il protagonista privilegiato del Teatro patologico.
Eppure proprio il ripensamento e la revisione del mito da parte del Teatro patologico, con la direzione di D’Ambrosi e la sapiente regia di Francesco Giuffré, ha tolto al personaggio omerico la sua unicità e lo innanzitutto spogliato di ogni dimensione eroica ed esemplare: i suoi molteplici patimenti non sono più gravi o più dolorosi di tutte le altre sofferenze degli altri personaggi, che pure non sono protagonisti.
Dolorosa è la solitudine di Calipso, dolorosa la nostalgia di casa dei compagni, che li conduce a una sventura mortale; dolorosa la paura e la fragilità di Penelope; un dolore è anche la mostruosità genetica di Polifemo oppure la sventurata e folle superbia del re dei Proci.
Tutta l’Odissea, così riletta, mette in ordine un archivio patologico: l’intreccio tra le sofferenze dei personaggi rappresentati, degli attori, del pubblico diventa inestricabile. L’Odissea diviene viaggio attraverso la varietà delle umane sofferenze, un viaggio che non ha per scopo una impossibile liberazione dal dolore, ma il suo riconoscimento, l’acquisizione della possibilità di convivere sia col dolore che con le ferite che lascia, non tutte rimarginabili.
Perciò quest’ Odissea svela il suo nocciolo tragico nel senso più moderno del termine: quello per cui, come affermava Johann Wolfgang Goethe con un certo spavento, è tragico tutto ciò che ha un ‘interesse patologico’. È tragico tutto ciò che si confronta con la malattia, e con la più difficile delle malattie perché appare la più sfuggente, la malattia psichica, quella malattia in cui ognuno sa di potersi specchiare, riconoscere, rispetto alla quale non vi sono possibili difese igieniche, ma che ti prende, ti insegue come se avessi alle spalle un branco di cagne affamate, o ti avvolge d’improvviso come un velo sugli occhi che ti impedisce di riconoscere quel che vedi, di dargli un nome. E così può accadere a chiunque di scambiare la propria moglie con un cappello, per ricordare il titolo di uno dei libri più famosi di Oliver Sacks.
Ancora i Greci chiamavano l’insieme di questi fenomeni mania, a cui attribuivano un’origine divina, che era perciò un dono e contemporaneamente un destino. Il dio che per antonomasia dispensa la mania e ne è a sua volta preso, Dioniso, è anche il dio del teatro; e perciò non si dà teatro senza mania, senza follia di origine divina, senza la trasgressione e il capovolgimento della norma, senza il superamento dei limiti dell’umano. Non si dà teatro che non sia ‘patologico’ – ripetiamo.
L’esperienza teatrale documentata nel film di Domenico Iannacone, in cui le vite di alcuni degli attori si intrecciano al filo simbolico del poema omerico, è teatro tragico nel senso più pieno del termine. Questa è un’Odissea, ha dichiarato il regista Francesco Giuffré, in cui Odisseo fa i conti con le ferite del proprio animo: non è il migliore degli eroi e nemmeno il migliore degli uomini, combatte anzi con i propri traumi e ricordi, cerca un compromesso con sé stesso per poter continuare a vivere nonostante quello che ha sofferto. La sua ‘casa’ è metaforica, non si trova in nessun luogo, ma dentro sé stesso. Ritornare a casa significa riacquistare la capacità di esprimersi, di mostrarsi, di comunicare, di credere all’amore. Ritornare a casa significa non sentirsi più diverso e speciale. Significa tornare a sentirsi parte di qualcosa. Rappacificarsi con sé stessi, con quel che chiamiamo realtà, senza rinunciare all’immaginazione e senza sprofondare nell’oscurità degli incubi.
Odisseo, perciò, è fratello gemello di Edipo, l’eroe tragico per antonomasia: ma non pensiamo all’Edipo al culmine del potere, che regna inconsapevole di aver sposato la madre e di aver generato con lei dei figli. Quest’Odisseo, così ben interpretato da Paolo Vaselli, i cui occhi sbarrati ricordano il teatro espressionista, è fratello di quell’Edipo cieco, vecchio e stanco nella sua ultima tappa, anche lui tornato a casa, a Colono, prima di morire.
Quell’Edipo che enuncia una dei versi più celebri della tragedia greca: “Chiedo poco, ottengo meno di quel poco, anche quello mi basta. Del sapermi contentare mi sono maestri le sventure (pathe), il lungo tempo trascorso e la nobiltà dell’animo” (Edipo a Colono, vv. 4-8).
In questa revisione dell’Odissea da parte del Teatro patologico si rappresenta, crediamo, la legge sancita da Zeus, per la quale si impara attraverso la sofferenza (pathei mathos), che è uno degli insegnamenti della tragedia greca, a partire da Eschilo.
Imparare grazie al soffrire è un viaggio che accomuna chi ‘fa’ la rappresentazione e chi la guarda: e bastano le poche immagini diffuse dal docufilm per viverlo, quel viaggio, attraverso il rumore del mare, scorgendo con apprensione la zattera sull’acqua in attesa del viaggio di Odisseo, attraverso i frammenti della musica (un viaggio nel viaggio) di Francesco Papaceccio, rubando dallo schermo la suggestione degli apparati di scena, luci e splendidi costumi.
Imparare attraverso la sofferenza, però, non significa affatto rassegnazione: al contrario vuol dire prendere dal dolore ciò che può servire per continuare il nostro viaggio.
In sintesi: l’Odissea del teatro patologico è teatro tragico in un senso della parola che allontana persino altre definizioni (teatro di integrazione o di accoglienza). Un teatro che, pertanto, non va strumentalizzato.
Non credo si debba più nemmeno entrare nella vuota retorica del ‘perché il teatro’, o peggio ancora ‘perché i classici’. Un mondo che vuole competenze, qualunque cosa significhi questa parola, un mondo sotto controllo, un mondo di big data, non troverà mai la nostra comprensione. Un mondo in cui gli uomini siano cifre che concorrono a grafici e curve, non sarà mai il nostro mondo.
Il docufilm si può rivedere su raiplay a questo link:
https://www.raiplay.it/programmi/lodissea
Conviene anche seguire la pagina facebook del Teatro patologico, dove gli attori continuano a commentare la loro esperienza:
https://www.facebook.com/teatro.patologico
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