Immagini come queste restituiscono una duplice complessità: l’estrema complessità del procedimento umano con il quale è stato raggiunto il risultato e, ovviamente, la complessità di ciò che si è infine visualizzato e che quasi rende diafana la prima complessità.
La somma complessità fa scaturire infine due idee semplici (ben presenti in filosofia, ma anche nel pensiero comune): quella che “il cielo stellato sopra di me” in qualche misura riguardi e persino possa condizionare la mia esistenza e quella (in fondo, nicciana) che siamo così piccoli che ogni cosa che compiamo in vita sia l’unica che abbia in sé un senso e possa paradossalmente considerarsi grandiosa (e qui magari veniamo a rivalutare la prima complessità e la “volontà di potenza” della scienza umana).
Nel primo caso, la mia esistenza ha senso “altrove”; nel secondo, solo sulla terra. Più o meno, possiamo metterla così, e scegliere dove schierarci.
L’immagine telescopica ci dà forse una vertigine, ma non risolve niente dell’incomprensibile nel quale siamo immersi, e resta valida quella immensa, altrettanto vertiginosa, battuta dei "Bassifondi" di Maksim Gor’kij: “Se credi, Dio c’è; se non credi non c’è… Quello a cui credi, quello c’è…”, a dimostrazione che gli artisti, certe volte, con un rigo, una nota o un tratto di pennello, colmano migliaia di metri (o anni luce?) di scaffali di biblioteca.
Credo basti quel rigo per commentare l’immagine e poi il silenzio.