Il pensiero sul tragico, sin dall'inizio dell'Ottocento argomento cruciale della cultura europea, e tedesca in particolare, riflette in vario modo su come e perché la realtà sia permeata dal conflitto e dalla morte, dando voce al nesso ineludibile tra tragedia e storia.
Il pensiero sul tragico va invero inscritto tutto nella modernità, sebbene siano stati i Greci a inventare la tragedia come genere letterario e drammaturgico. «Fin da Aristotele vi è una poetica della tragedia; solo a partire da Schelling vi è una filosofia del tragico» (p. 11)[1]: così leggiamo nell’esordio fulminante di un breve, ma denso libretto, il Saggio sul tragico di Peter Szondi (1929-1971).
Nella sua rassegna di dodici pensatori e poeti, da Schelling ed Hegel sino agli inizi del Novecento, Szondi individua come costante del pensiero sul tragico il ‘movimento dialettico’, ossia lo scontro tra due poli contrapposti che però non riescono più a restare separati. Il tragico consiste, in estrema sintesi, nell'unione di salvezza e annientamento. La dialettica tragica, come voleva Szondi, sta nel fatto che tragico non è quel che accade di terribile «per opera della divinità, bensì che questo avvenga proprio a causa dell’agire dell’uomo» (p.79). Aspetti tragici dell’esistenza sono, come mostrano i grandi paradigmi della tragedia greca, l’errore involontario, il corso degli eventi che va contro le nostre stesse intenzioni, il conflitto insanabile con gli altri, l’uso della violenza.
Szondi si riferisce anche al poeta tedesco Friedrich Hebbel (1813-1863), nel cui diario si legge: «La vita è la grande corrente, le individualità sono gocce, ma le individualità tragiche sono pezzi di ghiaccio che devono nuovamente sciogliersi e, affinché ciò possa avvenire, si spezzano e si scontrano l’uno con l’altro». Qui ci si libera dall’idea di una ‘colpa’ che affligge l’eroe tragico e lo condanna, colpa indipendente dalla sua volontà. Hebbel evita perciò di attribuire alla divinità o al fato la responsabilità delle tragedie umane. Riteneva così l’annientamento tragico dell’individuo come l’esito e la conseguenza dell’esistere stesso e del volersi e doversi affermare, da parte del singolo, nella massa indistinta del genere umano e nel procedere inarrestabile della sua storia.
Rivolgendosi poi all’analisi di alcune tragedie, sempre nel Saggio sul tragico, Peter Szondi iniziava con l’Edipo Re di Sofocle e scriveva: «Più di ogni altra opera, l’Edipo Re appare intessuto di tragicità nella trama della sua azione. Ovunque lo sguardo si fissi nella vicenda dell’eroe, esso incontra quell’unità di salvezza e annientamento che costituisce il tratto fondamentale di ogni tragico. Giacché a essere tragico non è l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento; la tragicità non si compie nel destino dell’eroe, ma nel fatto che l’uomo soccomba proprio percorrendo quella strada che ha imboccato per sottrarvisi. Questa esperienza fondamentale dell’eroe, che trova conferma in ciascuno dei suoi passi, soltanto alla fine lascia semmai il posto a un’altra: è al termine del cammino che porta a soccombere che si trovano salvezza e redenzione».
Ma chi è Edipo? Un eroe eccezionale, diverso dagli altri, oppure un uomo come chiunque altro, il cui errore non dipende né dalla sua particolare cattiveria e nemmeno da una sua particolare diversità rispetto agli altri? Chi è insomma l’eroe tragico?
Già Aristotele sottolineava come il protagonista della tragedia non dovesse essere né troppo virtuoso né troppo malvagio, perché il suo cambiamento repentino dalla fortuna alla sfortuna, nell’azione tragica, potesse risultare emotivamente coinvolgente per lo spettatore. Solo le conseguenze dell’errore di un uomo a metà tra vizio e virtù sono per Aristotele atte a suscitare pietà e paura; in un uomo medio, aggiungiamo, chiunque può identificarsi, ed ognuno nella vita esperisce le tragiche conseguenze di sbagli involontari o di scelte che si rivelano negative. Il tragico nell'esistenza, individuale e collettiva, consiste nell’improvviso mutamento, per dirla ancora con Aristotele, di ciò che sta accadendo, nella deviazione inaspettata verso il peggio delle nostre migliori intenzioni.
«En me cuidant aiser, moi-même je me nuis» (‘credendo di aiutarmi, nuoccio a me stesso’), è il motto del poeta barocco Jean De Sponde che apre il Saggio di Szondi. A richiamare l’attenzione sull’onnipresenza del tragico, nella vita individuale e nella storia collettiva, era un intellettuale ebreo di origine ungherese, che aveva vissuto in prima persona la Shoah ed era stato salvato fortuitamente, quindicenne, dal campo di concentramento di Bergen-Belsen; ma la sua salvezza individuale non era corrisposta alla salvezza collettiva, degli ebrei e dei perseguitati dai nazisti. Si trattava poi davvero di salvezza? Solo al termine del cammino, abbiamo letto nelle parole di Szondi a proposito di Edipo, un cammino che porta a soccombere nonostante tutti i tentativi, anche disperati, di evitare l’annientamento, si trovano salvezza e redenzione. Parole che assumono un significato particolare nella biografia di molti sopravvissuti alla Shoah.
La riflessione sul tragico e la sua dialettica assumeva infatti necessariamente, nella riflessione di Szondi, toni autobiografici e la sua ricerca di una storia della filosofia del tragico non aveva solo uno scopo accademico o erudito: scrivendo un libro sul tragico, Szondi intendeva svegliare le coscienze a lui contemporanee, rompere in qualche misura il silenzio sulla tragedia della storia recente, sulla Shoah, un silenzio che attanagliava la Germania negli anni ’60 del secolo scorso, non a caso definiti con un’espressione del poeta tedesco Hölderlin ‘anni di piombo’, per l’angoscia plumbea che tentava di soffocare la memoria degli orrori nazisti e obbligare all’oblio. I tedeschi non volevano ricordare, rifiutando così ogni responsabilità di quel che era accaduto, e del resto la congiura del silenzio era agevolata dall’affacciarsi all’orizzonte di nuove tragedie.
Il Saggio sul tragico venne dato alle stampe nel 1961: l’anno in cui fu celebrato a Gerusalemme il processo Eichmann sotto i riflettori dei media di tutto il mondo, che mettevano cioè sotto gli occhi di ognuno la tragedia della banalità del male, che non si poteva più ignorare o tacere; ma il ’61 è anche l’anno in cui la città dove Szondi viveva e insegnava, Berlino, e la Germania tutta, venne divisa da un muro che diveniva il segno tangibile e ostile di un’altra epoca di tensione e di minacce di guerra totale, ossia di una rinnovata tragedia nella storia.
Dieci anni dopo, Szondi si suicidò a soli 42 anni: come altri sopravvissuti alla Shoah, si era solo apparentemente salvato. Per citare ancora sue parole scritte a proposito dell’Edipo Re: «la salvezza nell’ambito dell’apparenza si rivela nella realtà come annientamento». Così, come Primo Levi, pur essendo sfuggito al campo di concentramento, Szondi si era solo apparentemente salvato. Tragico infatti, scrive ancora nel Saggio, è «il soccombere di qualcosa a cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si chiude».
In fin dei conti la morte sta al centro della vita e convive con essa: questo, in sostanza, il ‘movimento dialettico’ del pensiero tragico, ed è questo stesso movimento che si ritrova anche nelle manifestazioni tragiche non speculative né letterarie, ma rituali. Si rappresenta la morte per affermare la vita nella sua tragicità, il che non esclude la rappresentazione contemporanea dei tanti aspetti comici, ironici, parodici della vita stessa.
In tale rappresentazione rituale si può trovare l’origine della tragedia come culto dei morti, che lo spettacolo Pupo di zucchero. La festa dei morti, con testo, regia, costumi di Emma Dante, liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, porta prepotentemente in scena, riuscendo ad evocare tutto il possibile ventaglio emotivo del tragico: dalla paura alla commozione, dalla pietà alla nostalgia, dalla rassegnazione al riso.
Si tratta di una discesa nell’Ade (Nekyia) che attraversa tutti i toni emotivi dell’esistenza e del ricordo di chi non c’è più se non nel ricordo, come nei modelli letterari che vanno dall’Odissea agli irridenti, ma non meno cupi, Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata (II d.C.).
L’eroe di Pupo di zucchero, come il filosofo cinico Menippo creato da Luciano, vuole ridere della morte, festeggiarla, e nella notte tra il primo e il 2 novembre, mentre prepara il dolce dalla forma di un bambino da offrire ai defunti, non è più solo: la sua casa si anima delle vite che furono, dei loro dolori, degli amori, delle lacrime e delle risate, in una evocazione coinvolgente, commovente e tragica nel senso più intimo del termine.
Il ‘pupo di zucchero’ è un dolce a forma umana, come una bambola, che va mangiato. Il cibo diventa un mezzo di scambio tra vivi e morti: si offre ai morti, ma è mangiato dai vivi, a significare che la morte stessa viene introiettata, digerita da chi vive, diventa parte della vita stessa. Il rito, mimando l’antropofagia, diventa sacrificio, quel sacrificio che è inscindibile dall’azione tragica e dal pensiero tragico.
Alla fine della festa, il protagonista/eroe tragico, un uomo qualsiasi, né troppo infelice né troppo felice, resta solo con tutti ‘i pupi’/marionette inerti nei quali si condensano le ombre che furono, chiara evocazione di quei luoghi in cui i corpi mummificati, come nelle Catacombe dei Cappuccini a Palermo, rappresentano la morte nella sua ormai immobile mancanza di tragedia, ossia di vita.
La catarsi dello spettatore consiste forse nell’accettazione della tragicità dell’esistenza.
Chi non ha visto questo rito ancestrale e attualissimo al tempo stesso e non ha potuto esperirne il sentimento del tragico, farebbe bene ad approfittare delle repliche di Pupo di zucchero a Milano (Piccolo Teatro Studio Melato) e a Genova (Teatro Nazionale) nei prossimi giorni. E perciò credo che si debba concludere con il passo di Rilke, nella traduzione di Furio Jesi (non credo a caso), che Emma Dante pone ad esergo della presentazione dello spettacolo nella sua pagina web:
«Si devono avere ricordi di molte notti d’amore, nessuna uguale all’altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate che si richiudono. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso».
Pupo di zucchero
La festa dei morti
liberamente ispirato a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile
testo, regia e costumi Emma Dante
con Carmine Maringola (il Vecchio), Nancy Trabona (Rosa), Maria Sgro (Viola), Federica Greco (Primula), Sandro Maria Campagna (Pedro), Giuseppe Lino (Papà), Stephanie Taillandier (Mammina), Tiebeu Marc-Henry Brissy Ghadout (Pasqualino), Martina Caracappa (zia Rita), Valter Sarzi Sartori (zio Antonio)
sculture Cesare Inzerillo
luci Cristian Zucaro
assistente ai costumi Italia Carroccio
assistente di produzione Daniela Gusmano
coordinamento e distribuzione Aldo Miguel Grompone, Roma
produzione Sud Costa Occidentale
in coproduzione con Teatro di Napoli - Teatro Nazionale, Châteauvallon-Liberté scène nationale / ExtraPôle Provence-Alpes-Côte d’Azur / Teatro Biondo di Palermo / La Criée - Théâtre National de Marseille / Festival d’Avignon / anthéa antipolis théâtre d’Antibes / Carnezzeria
e con il sostegno dei Fondi di integrazione per i giovani artisti teatrali della DRAC PACA e della Regione Sud
[1] Si cita da Peter Szondi, Saggio sul tragico. Traduzione di Gianluca Garelli. Con una postfazione di Sergio Givone e uno scritto di Federico Vercellone, Milano, Abscondita, 2019.