Perché mettere in scena oggi Torquato Tasso di Johann Wolfgang Goethe, una tragedia scritta tra il 1780 e il 1788, e che persino il suo autore definì ‘timorosa del teatro’ e considerò a lungo inadatta alla rappresentazione?
Si tratta di una prova registica e attoriale estrema: il testo si distingue per una declamazione raffinatissima dal punto di vista sonoro e ritmico, l’ambientazione storica si sovrappone a quella contemporanea di Goethe, perché la corte tardo cinquecentesca di Ferrara rispecchia in qualche maniera quella del ducato di Weimar, dove Goethe prestò servizio per gran parte della sua vita.
Inoltre nel Tasso non accade quasi nulla e la tragedia si gioca anti-aristotelicamente nelle sfumature infinite delle variazioni psicologiche dei personaggi e del protagonista della vicenda in particolare. Su quale percezione emotiva ed estetica, dunque, si può far leva, nel 2022, nel riproporre una tragedia classicheggiante, rigorosamente unitaria nel tempo e nel luogo, la cui lingua, anche nella traduzione, riflette usi cerimoniali e cortigiani lontanissimi dalla nostra quotidianità?
Mettere in scena il Tasso di Goethe è innanzitutto una sfida, di tipo registico e attoriale, a cui la compagnia milanese Phoebe Zeitgeist lavora almeno dal 2018 (vedi qui): una sfida riuscita, come ha mostrato lo spettacolo che lo scorso week end ha terminato all’Elfo Puccini le repliche della sua prima nazionale. Ma innanzitutto diremo qualche parola sul Tasso, una tragedia ambigua, che non basandosi sull’azione, segna la differenza tra tragedia antica e tragedia moderna, ma mostra anche analogie fra l’una e l’altra.
La vicenda si svolge nella villa di Belriguardo e, sebbene il tema dell’infelicità del Tasso fosse presente già nella riflessione e nei progetti di Goethe fin dal marzo 1780, è in Italia, a partire dal 1786, che il progetto prende forma e che un preesistente abbozzo del dramma viene completamente riscritto. Quindi il Tasso, con i residui frammenti della Nausicaa, è un frutto della trasfigurazione del paesaggio e dell’atmosfera emotiva italiana che Goethe, come molti suoi contemporanei, identifica con la classicità greca e romana e con la sua sopravvivenza nel Rinascimento.
In Italia diventano parola viva sia la poesia di Omero, di cui Goethe poteva apprezzare il ritmo, ma non la lettera, non conoscendo il greco, sia quella di Dante. Da quel viaggio nascono creature poetiche come Ifigenia, creature ibride, che non hanno nulla di greco e nulla nemmeno di romantico, un’etichetta che Goethe aborriva sentendola come sinonimo di ‘malato’. Così la Nausicaa di Goethe, che non venne mai davvero alla luce, concepita durante il viaggio in Sicilia, è sorella del Tasso: tutte e due anime che cercano la bellezza, ma non la trovano e che rifiutate da chi li circonda, per amore o gelosia, fuggono in un mondo tutto loro, di sogni e di visioni.
Si può certo dire che il dissidio tra ideale e realtà fosse nello stesso autore, sin dalla stesura del romanzo I dolori del giovane Werther; lo stesso Goethe, in una pagina del suo diario italiano, pare identificarsi con Tasso, “anima irrimediabilmente bandita” da ogni dove. Ma Nausicaa e Tasso sono figurazioni di scissioni non solo autobiografiche: sono concepite infatti nella cultura del tardo Settecento, messa definitivamente alla prova dalla Rivoluzione, una cultura che non sa più misurarsi con ideali e valori antichi considerati perduti per sempre e che vede deluso il proprio ottimismo e perde infine la smisurata fede nella ragione che l’aveva sino ad allora animata. Il fatto è che il dissidio tra ragione e sentimento, tra ideale e reale, non ha smesso, attraverso gli ultimi tre secoli, di tormentare gli esseri umani, anzi si è fatto ancora più acerbo.
Il Tasso di Goethe si erge perciò in tutta la sua sconcertante modernità nel suo tempo, che subito vi riconobbe, criticandolo, un dramma senza ‘inizio, mezzo e fine’, come voleva invece Aristotele, il dramma di un’anima dilaniata che cerca di guardare oltre le situazioni in cui si trova a vivere, di interpretare le vere intenzioni di chi lo circonda, un’anima che pur avendo una natura inadeguata vorrebbe entrare nei meccanismi del potere, farne parte, ma ne viene respinto.
Proprio per questo, resta la domanda: si tratta di una tragedia scritta per essere messa in scena? Oppure di un romanzo mancato o dell’esposizione drammatica di un flusso di coscienza? Oppure con il Tasso si assiste alla nascita di un nuovo genere, la tragedia moderna, che a differenza di quella antica non ha un inizio e non ha un epilogo, ma diventa piuttosto l’esposizione allo sguardo di un’anima tormentata, la cui parola sconnessa esercita violenza sullo spettatore, trascinandolo in un gorgo di paure, esitazioni, esaltazioni, sogni, incubi, un labirinto senza via d’uscita? L’opera resta infatti aperta: alla fine lo spettatore è sospeso, il protagonista non muore. E perciò, come si lascia intuire dal sottotitolo dato allo spettacolo da Phoebe Zeitgeist, il dramma si configura come una discesa agli Inferi, come un dissolvimento progressivo della coscienza.
Così Goethe distrugge anche l’eroe classico della tragedia greca, distrugge cioè la sua compiutezza di passioni e la certezza della conseguenza delle sue azioni sbagliate; ma distrugge anche l’eroe romantico, perché il suo Tasso non è l’uomo innamorato, non è il reietto dei potenti, non è il poeta che soffre per l’imperfezione infinita della sua arte. O meglio: non è solo quello. Chi è dunque il Torquato Tasso di Goethe?
Nella tragedia, abbiamo detto, non accade nulla: in quadri successivi si mostra una società chiusa in sé stessa e nei suoi privilegi, una corte alla moda in cui vige una ferrea disciplina dei sentimenti, un potere asfittico che considera il poeta come un inutile ma necessario ornamento del proprio status. In questa corte il poeta, preso da un amore artificiale per la sorella del duca, suo signore, succube della forte attrazione provata per il razionale e concreto Antonio, il consigliere del Duca che lo contrasta e pare disprezzarlo ma è piuttosto geloso di lui, si trova completamente fuori posto, a disagio: di quel mondo, dunque, Tasso diviene infine vittima, forse impazzendo, forse recluso in un manicomio.
Si tratta perciò di una tragedia della solitudine, così assoluta che riguarda non solo l’artista, ma chiunque avverta, giustamente o no, la propria estraneità al mondo circostante e soprattutto ai meccanismi del suo funzionamento, alle relazioni su cui si basa il potere. La solitudine è sempre popolata di fantasmi: e dunque Tasso può essere visto come la difficilissima rappresentazione delle ombre, delle ossessioni, delle inquietudini che abitano l’inconscio, una ardita messa in scena di un continuo, faticoso e doloroso monologo interiore.
La compagnia Phoebe Zeitgeist, e in particolare Daniele Fedeli, che si è assunto il compito immane di diventare voce unica del testo per una performance che dura quasi tre ore, ha vinto tutte le sfide: la prima, quella di rendere rappresentabile un testo che lo stesso autore ritenne a lungo inadatto alla scena; la seconda, quella di restituire tutta la visionarietà della sua poesia, per cui anche gli altri personaggi appaiono come proiezioni della fantasia del Tasso, che su loro riversa i suoi desideri, anche i più inconsci, e i suoi tormenti; la terza, quella di svincolare il personaggio Tasso dalla controfigura dell’artista, diverso e inadatto alla realtà, dalla controfigura cioè dell’artista romantico, per renderlo sin troppo umano non nella sua eccezionalità, ma nella sua normalità; la quarta, quella di rendere attualissima l’inattuale lingua del dramma, lingua di corte, lingua poetica, in versi, attuale in quanto specchio dell’artificiosità della realtà in cui siamo immersi. Ciò che chiamiamo realtà è sempre una nostra costruzione, il nostro ruolo dipende dal rapporto emotivo che si instaura con gli altri, e il rapporto di repulsione spesso nasconde una inconscia attrazione.
Così nell’impersonare contemporaneamente Antonio e Tasso, la razionalità brutale e maschia di contro alla creatività effeminata e fragile, Daniele Fedeli, con una regia accorta e per molti versi scandalizzante, riesce a mostrare quanto i due caratteri siano invece inconsciamente attratti l’uno dall’altro, più come possibili amanti che come nemici; ed anche come ogni finzione sentimentale difficilmente riesca a reprimere pulsioni fisiche ed emotive di cui socialmente si ha vergogna. E così il Tasso diventa, come altre tragedie contemporanee, la tragedia della vergogna, in cui questa viene evitata attraverso l’autocolpevolizzazione e l’annientamento di chi prova vergogna davanti a sé stesso e agli altri.
La messa in scena di Phoebe Zeitgeist riesce, soprattutto grazie a Daniele Fedeli, ad esprimere il senso della vergogna del protagonista, che letteralmente si denuda davanti al pubblico, e perciò anche a suscitare la vergogna di chi assiste alla performance, che difficilmente riesce a non scandalizzarsi davanti alla sincerità crudele di ciò che vede, a non assumere, suo malgrado, il ruolo del giudice attraverso lo sguardo obbligato a insinuarsi nel corpo dell’attore e a fermarsi sui simboli espliciti dei suoi desideri erotici e dei suoi più neri incubi. La vergogna può diventare insostenibile: e perciò nella replica a cui ho assistito qualcuno del pubblico è andato via. Ma è la dimostrazione che questo Tasso è riuscito.
È proprio nell’aver saputo dare attualità a un testo altrimenti così legato al suo tempo e persino, scorrettamente, alla biografia del suo autore, che sta l’importanza di questa messa in scena, che si auspica possa essere riproposta altrove e molte volte.
Con quanto detto non si vuole affermare che nel dramma goethiano riletto da Phoebe Zeitgeist passi sotto silenzio uno dei temi del Tasso, ossia il contrasto tra la necessità dell’artista di venire a patti con un sistema che gli consente di sopravvivere e la sua autonomia di pensiero e di creazione. Ma questo tema viene ridimensionato, perché il corpo di Daniele Fedeli ci suggerisce piuttosto la vulnerabilità di ogni essere umano rispetto a qualsiasi sistema di potere e rispetto a ogni gerarchia, la crisi di identità che ogni nucleo sociale, dalla famiglia allo Stato, provoca in chi non riesce ad accettarne le norme. E non è questo il problema tragico per antonomasia, valido alla fine del Settecento come oggi, nella tragedia greca come in Shakespeare, in Bertolt Brecht come in Sergio Blanco?
Perciò questo Tasso è più vicino all’Aiace di Sofocle che ai poeti della corte di Weimar, come ha mostrato la seconda parte dello spettacolo, un crescendo di disperazione e di dissociazione che lascia senza fiato, sino alla riduzione a cosa della voce monologante: “Si è dissolta tutta la forza che si agitava altrimenti nel mio petto? Sono diventato niente del più assoluto niente?”.
La regia si adatta alla nostra idea di ‘teatro della cesura’, perché interrompe bruscamente con l'attualità: se i drappi e i pochissimi oggetti di scena richiamano il Cinquecento, se altri accorgimenti rinviano alla corte settecentesca di Weimar, la musica ha invece sonorità punk e psichedeliche, le luci si adattano alla parola e al suo iscurirsi, su schermi televisivi si proiettano alcuni dei versi della tragedia, quasi echi visivi di un coro assente.
Ma la sapiente regia, senza la prova di Daniele Fedeli, avrebbe avuto certo meno efficacia.
Sopra: la biografia dell'abate Serassi che servi da ispirazione a Goethe. Nella prima immagine l'edizione del 1790 del Torquato Tasso. Quindi: Lo scontro tra Torquato Tasso e Antonio Montecatino, illustrazione per il Torquato Tasso, tragedia di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), incisione da un disegno di Ferdinand Rothbart (1823-1899). Photo credit © NPL - DeA Picture Library / Bridgeman Images. Di seguito: Felice Cerrone, Figurino di Torquato Tasso per l’allestimento dell’opera omonima musicata da Gaetano Donizetti rappresentata al Teatro San Carlo di Napoli (25 maggio 1835). Quindi un'incisione ottocentesca che rappresenta una scena dal primo atto dell'opera. Sotto invece una messa in scena del settembre 1936 (Regia: Heinz Haufe; scenografia: Felix Cziossek; costumi: Ernst Pils). Qui una scheda artistica dello spettacolo in una versione precedente. Qui una riflessione di Elio De Capitani.