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Il 10 maggio 1933, verso sera, Erich ed Hans arrivarono con il tram alla stazione. Attraversarono il pesante ponte di ferro e si fermarono in attesa del corteo in marcia, di cui tutti mormoravano.

Il corteo sbucò da dietro la facciata greca del teatro, una fila smilza di ragazzi, un po’ traballanti come comparse di una messa in scena che avessero deciso di far le prove all’aria aperta. Sinistra, due, tre, quattro, Sinistra, due, tre, quattro, camminavano a ritmo di marcia. La schiera era aperta da studenti pallidi con la divisa bruna delle SA, diritti come fusi ma troppo timidi per giocare il ruolo delle guardie pretoriane. La scena appariva grottesca, come un carnevale dagli aspetti macabri. Il primo dei ragazzi in uniforme teneva in alto con evidente sforzo, invece che una bandiera o uno stendardo, un’asta su cui campeggiava un busto in gesso di Magnus Hirschfeld. I curiosi si chiedevano l’un l’altro chi fosse quell’uomo dai grandi baffi. Pochi riconobbero che si trattava del fondatore dell’Istituto per le ricerche sessuali di Berlino.

A guardarli più da vicino, si capiva perché i ragazzi ondeggiassero e avessero gli occhi lucidi, erano completamente ubriachi. Poco prima l’Istituto di Hirschfeld era stato dato alle fiamme, l’archivio demolito, i filmati gettati nella Sprea, le infinite pagine di ricerche e interviste dilaniate in strisce di carta lasciate ai ciottoli umidi della strada, nelle pozzanghere della recente pioggia. Il busto del dottor Hirschfeld, che per sua fortuna si trovava in quel giorno in Francia per una serie di conferenze, il dottore che non trattava gli omosessuali come dei casi clinici, ed era convinto dell’esistenza di un terzo sesso, rubato dall’androne dell’Istituto, fungeva da trofeo per marcia impaurente. Le ombre della sera e delle fiaccole amplificavano l’emozione dello spettacolo: a molti parve come se la vera testa sanguinante del dottor Hirschfeldt fosse esibita da ragazzi in preda  un delirio indefinito, malinconico più che eccitato, di un’ebbrezza spenta, drogata, triste.

La giornata, benché fosse maggio, era passata grigia e piovosa. Una cortina spessa di nubi aveva sbarrato l’accesso al sole: e quel grigio senza smagliature, quell’atmosfera plumbea, si stendeva sul corteo degli studenti, nonostante qualcuno incitasse gli altri a cantare. Le uniformi non brillavano, né davano nobiltà a quelle maschere di eroi decaduti prima ancora di conoscere la gloria.

La sera sprofondava nel buio, tutto – il ponte, il fiume, il teatro, la stazione, il fremito della folla spettatrice – si avvolgeva in un lenzuolo nero. I volti degli studenti rilucevano opachi, come maschere di cera, senza bagliori di entusiasmo e nemmeno di follia. Qualcuno tratteneva persino le lacrime. Quei ragazzi conoscevano l’amore infinito per i libri e  sapevano pure quanto si possano odiare i libri. Ma perché bruciarli? Quello era l’ordine, nuovo, insaspettato, inaudito, che avevano ricevuto: bruciare i libri.

I più colti tra loro sicuramente con la mente riandavano a esempi dalla storia: e allora sui loro pensieri si stendeva l’ombra sinistra della biblioteca d’Alessandria incendiata, della cenere che aveva oscurato il cielo per giorni, il sole e la luna, la cenere sottile nella quale si era persa gran  parte della cultura del mondo antico. Nel fuoco di Alessandria si erano consumate le parole d’amore di Saffo, lo scherno dei commediografi, il copione delle tragedie recitate al teatro ateniese; leziosi acrostici e ricerche dei dotti che vivevano tra le mura del Museo; aveva ridotto in polvere le lezioni dei filosofi, l’enciclopedia del grande Aristotele. A quale incendio si preparavano, adesso, quegli studenti tristi con la camicia bruna e il loro pesante trofeo? Erich guardò Hans, con gli occhi sbarrati di chi assiste ad uno spettacolo di terz’ordine, vorrebbe andar via, ma si trova in un teatro dalle porte sbarrate dall’esterno. O come chi sta per assistere ad un suicidio e non può tendere la mano a quell’uomo che con occhi lucidi guarda giù dal parapetto del ponte, agogna solo di buttarsi di sotto.

Così il corteo arrivò alla piazza dell’ Opera. Si misero in cerchio, a file serrate, un muro impenetrabile. Hans ed Erich cercavano di alzarsi in punta dei piedi, senza attirare l’attenzione, voltando le spalle proprio alla facciata dell’Università, dove ironiche o stupite le statue di Alexander e Wilhelm von Humboldt, dall’alto dei loro piedistalli bronzei, avevano i volti diretti verso quello che stava per accadere. La sera era ormai piena, si accesero altre fiaccole di pece.

Sulla piazza, non al centro, ma più vicino all’opera, i ragazzi costruivano un falò, che dopo qualche tentativo andato a vuoto fu acceso. Le fiamme si alzarono rosse.

La folla si aprì per far posto a due camioncini, che a retromarcia si avvicinarono al fuoco, con i pneumatici su due rampe di metallo. Due delle camicie brune aprirono i teloni posteriori, gli altri si affannarono ad arraffare i libri che erano dentro e a rovesciarli sul fuoco. C’era silenzio: si sentiva solo il tonfo dei libri tra le fiamme, il crepitare. Poi apparve Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda, spettrale, magrissimo. Era su un podio improvvisato, gridava davanti a un microfono gracchiante, gridava in ordine alfabetico nomi di scrittori, ad ogni nome una manciata di fogli strappati dai libri cadeva nel fuoco. La carta lasciava volare lapilli come insetti luminosi nel buio, il fuoco non attecchiva, si alzava invece una nube di cenere sottile. Il falò apocalittico divenne un fuocherello mal appiccato,  una marachella. Una signora scoppiò a ridere, indicando con la mano verso le prime file. Un ragazzo dei loro, un ragazzo dalla camicia marrone, si guardò intorno, scoperto in flagrante e scappò via. Mentre correva, dall’uniforme gli sfuggirono dei libri salvati dal rogo quando erano caduti ai piedi del camioncino.

Poi Erich sentì distintamente il suo nome pronunciato da Goebbels, alle urla di giubilo qualche copia del suo romanzo fu lanciata tra le fiamme. Lo sguardo di Erisch si incocrociò con quello di una ragazza bionda ed elegante, che si mise le mani sulla bocca in segno di sorpresa, non prima però di aver urlato: ‘Ma è qui! Lui è qui!’ e di aver fatto distintamente cenno verso Erich, scrittore famoso ma non famosissimo, venuto ad assistere alla cremazione della propria opera.

Hans cerco di capire se i ragazzi che alimentavano il falò avessero sentito nulla. Non pareva, restavano distratti da Goebbels, che continuava a gesticolare e ad urlare. Erich e Hans, senza mostrare particolare fretta, si allontanarono.  

Quando giunsero ad una distanza di sicurezza, silenziosi, si sedettero all’aperto sulla Sprea con una birra in mano, nonostante avesse ripreso a piovigginare. Il poeta Heinrich Heine aveva scritto: ‘Dove un popolo brucia libri, finirà per bruciare gli uomini’, ma Erich e Hans, il 10 maggio 1933, non potevano sapere ancora cosa significasse quella frase apocalittica e romantica insieme.

I libri non li si può bruciare. Risorgono dalle loro stesse fiamme. C’è sempre una copia che si salva, se doveva esser salvata. I libri muoiono di morte naturale. Quando non hanno più niente da dire.