C’era una volta Auschwitz. Anzi, dovremmo dire: c’è stata, una volta, Auschwitz. Accadde davvero: deportazioni, campi di sterminio, milioni di uomini ridotti in cenere. C’è stato, lo sappiamo anche se non lo abbiamo visto. Ce lo hanno raccontato; noi abbiamo ascoltato.
Auschwitz è reale, ma la poesia, la letteratura, il teatro, il cinema potevano imitare quella realtà? Avevano il diritto e la capacità di farlo? Si può fare arte sull’orrore? Oppure si deve restare in silenzio? La cultura europea del XX secolo è stata segnata da questo interrogativo e dal trauma che ne consegue. Trauma vuol dire in greco ‘ferita’. La ferita di non conoscere più il limite tra dicibile e indicibile: la ferita per la quale la poesia, dopo Auschwitz, deve considerarsi, come ha scritto un filosofo, un atto di barbarie. Una ferita che non si rimargina e continua a dolere nelle vie invisibili dell’inconscio; una ferita che anzi si rinnova, perché l’orrore non è divenuto un capitolo da archiviare e il problema del dirlo c’è più che mai. Imre Kertész, l’autore di Essere senza destino (1975) diceva di avere nostalgia del campo di concentramento; intendeva dire, ha scritto Boris Pahor commemorandolo, che ritornare periodicamente a visitare il lager significava per i sopravvissuti assicurarsi che quello che avevano vissuto fosse vero, che c'era ancora il palo della tensione su cui impiccavano la gente, che c'era la stufa per alimentare il forno dove bruciavano i prigionieri, le cui ceneri finivano nel buco assieme ai liquami dei gabinetti, ossa humiliata.
Perché Auschwitz c’è stata e noi la portiamo dentro; perché Auschwitz, ciò che ha significato, sopravvive in fondo in ogni evento quotidiano di disprezzo della vita e della dignità umana, cambia la maschera, si nasconde nei pregiudizi di cui è saturo il nostro linguaggio (i cinesi sono sporchi, gli islamici sono terroristi, i neri sono pigri), nel culto della bellezza come virtù di uomini superiori (abbronzati, muscolosi, magri), sani, rispetto ai malati, ai drogati di cibo, sesso, alcol, da emarginare, da eliminare, se possibile. La violenza fascista di Auschwitz si è insediata tra le mura borghesi dove si consuma, instancabile e inaudita contro le donne, contro i più deboli. E la letteratura? E la poesia? Cosa è accaduto alla letteratura dopo Auschwitz? Cosa le accade adesso, che innumerevoli schiere di esseri umani assediano la nostra fortezza, il nostro mondo già assediato dalla crisi economica, dalla corruzione, dal non ci sono abbastanza soldi per comprare, consumare, vestiti, automobili, smartphone, tablet, televisori smart ultrapiatti? Cosa può la letteratura di fronte a una ennesima guerra, non diversa da altre contemporanee, solo più vicina? Cosa può fare la parola di fronte ad esseri umani che agonizzano disidratati nelle loro coperte termiche scintillanti come mantelli principeschi nelle fiabe da bambini, che arrivano su barconi stipati, traballanti, tremanti, che soffocano nei tir, che si assiepano alle frontiere, che percorrono migliaia di chilometri nel deserto, che scappano, sapendo da dove ma non sapendo verso dove? Cosa di fronte a bambini che vivono nei sotterranei di un’acciaieria bombardata?
Può dire questo la parola e l’arte? Può imitare questa realtà? Deve fuggirne? O deve restare in silenzio? Se Auschwitz non l’abbiamo visto, vediamo davvero quello che accade adesso? Dobbiamo avere nostalgia del lager per riappropriarci della sua realtà. Ma abbiamo bisogno della nostalgia di quello che vediamo? No, sembrerebbe, perché lo vediamo costantemente: è sotto gli occhi di tutti. Nelle news che lo smartphone ci trasmette automaticamente, in televisione, su schermi privati e pubblici, nelle case e per le strade, nei negozi e sui mezzi pubblici, vediamo, vediamo troppo, siamo testimoni perenni anche se non siamo mai stati sulla spiaggia di Lampedusa o nel campo di Idomeni o a Odessa e Kiev, abbiamo un surplus di immagini e di testimonianze, quel che per Auschwitz non c’era, il silenzio profondo degli anni di piombo, l’omertà che ha salvato la coscienza, l’alibi perfetto di chi è venuto dopo: ma noi vediamo, ascoltiamo, sappiamo, e tutto questo ci ferisce certamente, ci traumatizza e il trauma giustifica la nostra impotenza. Così come le immagini dell’11 settembre, le torri che esplodevano, i corpi che cadevano a grappoli nel vuoto, o le immagini del Bataclan di Parigi, i colpi al buio, le teste di cuoio, le urla, o le immagini delle metropolitane squarciate di Madrid e di Bruxelles, il mercatino di Natale di Berlino, e ora Bucha con i suoi cadaveri, i palazzoni del socialismo reale sbriciolati, macerie e giocattoli abbandonati: tutte queste immagini, queste notizie, questo dolore, giustificano la nostra rabbia, il nostro odio, la sensazione, talora, di essere in guerra anche con il musulmano che vende oggetti di plastica di fronte a casa nostra. Chissà se lui e i suoi amici non fabbricano bombe. Chissà cosa si nasconde dietro il suo sorriso. Chissà da dove viene. E siamo in guerra con la ragazza russa che incontravamo in vacanza, forse è l’amante di soldato che sta uccidendo bambini. E siamo in guerra permanente con ciò che viene da lontano. Lontano. Lontano da dove?
Intanto le immagini sono sempre più veloci, sempre più affollate, le bombe esplodono in Africa, in Afghanistan, in Ucraina; la gente scala i muri e taglia il filo spinato, i barconi non si fermano e nemmeno i naufragi, né la potenza del fuoco e il grido delle armi. Tutto ciò accade, ma è come non accadesse, è troppo veloce ed io sono troppo lontano, in disparte, anche se l’immagine sembra portarmi tutto tanto vicino, ma vicino non al punto che io lo tocchi. La realtà è rinchiusa nella terra di mezzo di uno schermo, grande o piccolo che sia. Platone diceva che l’arte è solo una mimesi degradata, copia la realtà che è solo una copia delle idee. Anche l’immagine dello schermo è una copia della realtà: allora quella immagine diventa l’unica forma d’arte possibile? Resta qualcosa alla parola? O tutto scivola via? Un poeta tedesco dell’800 scriveva: ‘quel che conta lo fondano i poeti’; ma non vale più, non vale più di sicuro dopo Auschwitz, a meno di non ammettere che Auschwitz sia stata la conseguenza estrema di quel che ha fondato la poesia tedesca e occidentale.
Rovesciando questo verso, Elfriede Jelinek, premio Nobel per la letteratura nel 2004, ha scritto: Ciò che rimane non lo creano i poeti. Ciò che rimane è via. Si deposita da un’altra parte. Dove non c’è la poesia. Dove la parola poetica si è frantumata come vetro sottile per il troppo rumore, dove è annegata nel flusso inarrestabile delle immagini, dove è stata sommersa dalle altre voci. Eppure: i poeti restano, la loro parola affiora, in questo naufragio continuo, in mezzo alle altre, in una confusione totale. Esprime, la poesia, la nostalgia di Auschwitz, il raccontare Auschwitz per ricordarne l’esistenza ad una società sazia, distratta, egoista, dove persino il vedere non restituisce più la realtà, ma la sua perdita. Perciò la Jelinek scrive e le parole della sua scrittura ci precipitano addosso, una valanga di luoghi comuni frammiste a citazioni: quello che accade fuori e dentro di noi, il cui senso si perde o diventa ironico. Forse questa scrittura costituisce la cronaca confusa di un’autodistruzione. Una cronaca adirata, veemente, politica, attuale quanto nessuna mai. Ed ecco in alcuni testi scritti e pubblicati dalla Jelinek la richiesta di asilo e di rifugio di centinaia di migliaia di persone, a cui l’Europa oppone rifiuto e repressione, con il ritornare di parole che sarebbe stato meglio non sentire più, per la loro pesante eco storica: lager, numero, identificazione, trasporto coatto, muri, filo spinato.
La Jelinek non denuncia: le basta registrare le voci di cui la sua scrittura si fa collettore per denunciare. Ha qualcosa di arcaico la sua operazione: è un ritorno all’epica orale, alla parola che fluisce insieme alla memoria, al ricordo che si fa parola, alla lingua che si piega al pensiero distratto, girovagante. Ma quest’epica ha perso la sua essenza, non è più racconto, epos. Non c’è una trama. I fatti, il racconto dei fatti, bisogna cercarli altrove: in televisione e in rete, nei giornali.
I fatti, se mi chiedete i fatti, ci sono: un gruppo di rifugiati occupò una chiesa centrale di Vienna nell’estate del 2013, intraprese uno sciopero della fame, inutilmente: furono sgomberati e portati via, e nonostante le promesse rimpatriati; altri fatti: il naufragio di 356 persone al largo di Lampedusa, nel settembre del 2013; poi: le rotte terrestri, il muro ai confini dell’Ungheria, il filo spinato della Nato in Grecia, le leggi sempre più restrittive dell’Austria. Questi sono i fatti. Su questo Elfride Jelinek ha scritto.
Ma nella scrittura della Jelinek i fatti non compaiono esplicitamente. La scrittura li trasfigura, li mischia con mille altri, si fa mimesi della realtà filtrata attraverso i mezzi di comunicazione, mimesi delle voci attorno a quella realtà. La scrittura della Jelinek si coagula in un groviglio, si intorbida in un labirinto di giochi di parole, scorre enigmatica, magmatica, stratificata, come se ci si trovasse in una stanza dove sono accesi contemporaneamente televisori sintonizzati su canali diversi e radio su diversi programmi, e poi altri schermi, smartphones, tablets, computer. Davanti ad ogni schermo sta qualcuno che guarda, che pensa, e i suoi pensieri hanno una eco, si materializzano in ombre. Parole, pensieri, ricordi, che si accavallano, l’incomunicabilità diviene cifra espressiva: la babele spaesante in cui viviamo e viviamo, nell’ intreccio continuo di notizie, messaggi pubblicitari e immagini di consumo, rovine di guerra e stars di paillettes e luci di ribalta, corpi mutilati e corpi perfetti, scultorei, divini. Una scrittura senza punto di vista, o con un punto di vista che sbanda in continuazione, si confonde, si interrompe, eppure la scrittura procede instancabile portando in sé stessa frammenti di poesie, di riferimenti mitologici, immagini letterarie. Scrittura come lava, incandescente.
Da tutte queste voci e suoni si formano immagini potenti: gli stormi di uomini che senza centro, fluttuanti, girovagano erratici, in un mondo dove le frontiere, anche concettuali, si sgretolano; le prepotenti esigenze della vita, mangiare, bere, defecare; il solcare inarrestabile il mare Mediterraneo, il mare degli dei dell’Olimpo, del mito, della Grecia che di ideale e di classico non ha più nulla; oppure la marcia per terra, verso il nord, la caccia, i confini divenuti barriere invalicabili. Al centro delle instabili rotte l’Europa e le sue divinità, il mercato, i soldi, la produzione, il culto dell’apparenza, tutto questo non è raccontato da Jelinek, non c’è qui documentario: ma solo intermittenze di segnali verbali, in cui le vicende umane annegano, diventano spot di qualche secondo, si dimenticano, perdono persino verosimiglianza.
La scrittura della Jelinek è una scrittura traumatizzata, ferita, che cerca appigli per la salvezza: per dire quel che non si può dire. E allora il mito greco arriva in soccorso, patrimonio antico dell’immaginario, a cui si continua ad attingere consciamente o inconsciamente, per dire, semplicemente, la realtà, quando ci è impossibile imitarla o ci è intollerabile. Ma il mito, come è nella sua natura, cambia, si adatta, si corregge persino: ecco allora che i rifugiati che hanno fatto richiesta di asilo politico sono l’immagine delle Supplici della tragedia greca, le figlie di Danao fuggitive che implorano asilo alla città di Argo; ma mentre queste si aspettano accoglienza e conforto dalla città, i rifugiati odierni invece sono lasciati nel limbo dell’attesa, senza udienza:
Viviamo. Viviamo. L’importante è che viviamo, e molto di più non è vivere, una volta lasciata la sacra patria. Nessuno guarda clemente dall’alto la nostra schiera – ma come ci guardano dall’alto in basso! Siamo fuggite, fuggiti, senza che un tribunale del popolo ci abbia mai condannato, condannate e condannati da tutti, qui e altrove. (…) Nulla ci dicono, nulla veniamo a sapere, siamo dei pacchi, ordinati e non ritirati, dobbiamo presentarci ora qui e ora là, ma quale terra più benevola di questa – e nessun’altra ci è nota – quale terra potremo mai calpestare? Nessuna. Calpestati, aspettiamo.
Insieme alla tragedia greca e alla sua primitiva dimensione corale, riaffiora, nel linguaggio, il trauma di Auschwitz: perché ‘pacchi, pacchetti’ erano chiamati nel gergo dei nazisti gli Ebrei deportati e i condannati a morte della resistenza. ‘Pacchi’ da trasferire altrove, senza valore. Questi di oggi sono ‘coloro che sono obbligati a chiedere asilo’, le Supplici della tragedia, invece, scelgono volontariamente di implorare aiuto. Il mito greco, a cui l’europeo colto si aggrappa, per rassicurarsi, per capire il proprio presente, rivela invece la sua fragilità; diventa puro materiale linguistico, reminiscenza, svuotata di significato e di ogni insegnamento: no, non abbiamo imparato nulla dalla cultura detta classica di cui andiamo così fieri. Un barcone si è fermato, stipato d’uomini come aghi su un cuscino da sarta, non devono muoversi, per non rovesciarsi: intorno solo mare, divenuto da via di salvezza via verso l’Ade, mare minaccioso, bestia dagli occhi neri. Un’Odissea, si dice spesso. Ma non c’è nessuna Odissea, perché mentre Odisseo è accolto ospitalmente dal re dei Feaci, che gli fornisce la nave che lo riporta, veloce come un sogno, in patria, una nave che non ha bisogno di pilota o di timone perché conosce da sola la rotta giusta, nessuno dà ospitalità ai profughi, nessuno chiede loro il nome, e a questa domanda la risposta sarebbe comunque il silenzio, perché nessuno vuole tornare da dove è venuto. E improvvisamente compare nella scrittura il ricordo della nave dei Feaci:
Ci sono navi che noi non conosciamo, ma le navi conoscono da sole i pensieri e i desideri degli uomini, conoscono le città lontane e vicine e le terre feconde di ogni popolo e attraversano veloci i flutti del mare, avvolti nella nebbia e nella notte…
Qui la Jelinek cita, letteralmente, dall’Odissea di Omero; la citazione diventa parodia. No, gli immigrati non conoscono quelle navi, hanno solo barconi che si fermano in mezzo al mare, dal motore rotto, ma a cosa portavano davvero quelle navi che erano avvolte ‘nella nebbia e nella notte’? Il greco dell’ Odissea dice: ‘foschia e nebbia’, ma in tedesco Jelinek scrive ‘Nebel und Nacht’, e si pronuncia così un binomio terribile nella lingua tedesca. Nacht und Nebel era infatti la locuzione usata dai nazisti per classificare nei campi di concentramento i detenuti politici, che portavano scritte sulla schiena, come un destino, due grandi ‘N’. Come per quei prigionieri, il viaggio dei profughi persi nella nebbia del mare, persi nella notte, era un viaggio notturno nella nebbia. Sia gli uni che gli altri non sapevano dove sarebbero finiti, ma gli uni e gli altri finiscono come fumo nella nebbia, gli uni inghiottiti dal mare che non dà sepoltura, gli altri finiti nel fumo del camino del forno crematorio: ‘azione notte e nebbia’ fu l’ espressione che Hitler beffardamente tolse da un’aria d’opera wagneriana, per significare la caccia capillare ai nemici del regime, la loro nullificazione.
Notte e nebbia: il titolo del film documentario di Alain Resnais nel 1953 che sconvolse l’Europa, censurato al Festival di Cannes e sotto censura rimasto fino a metà degli anni Sessanta, in cui per la prima volta si mostrava la realtà della Shoah, le cataste di corpi, i superstiti fantasmi di loro stessi. C’era una volta Auschwitz. Auschwitz ritorna. È la ferita nel cuore dell’Europa. Le immagini del presente non la cancellano nella memoria, non la guariscono: la riaprono. Auschwitz: il luogo delle vittime/numeri, il luogo dove non c’ea nessun perché. I prigionieri gasati tornano con le vittime dei barconi, numeri su un cartellino in grossi teli di plastica, se strappati al mare colore del vino. La scrittura non giudica, non condanna, dice, semplicemente.
E dice di vittime, e nelle vittime di oggi tornano le vittime di ieri, nella nebbia sul mare di oggi torna la nebbia metaforica di ieri, nel fiume di profughi di oggi tornano i deportati di ieri, vittime di un sistema che stritola e non conosce diritti. Eppure: sentiamo ancora il grido delle vittime? Torna allora un’altra immagine dal mito greco: la piccola Ifigenia, sacrificata perché il vento finalmente soffiasse, le navi potessero salpare per la guerra. Anche sul barcone viene sacrificata una ragazzina.
Ma la barca non va avanti. Il vento stavolta non basta, ci vorrebbe la benzina: … e il vento, che dice? Il vento non va, si dice così? (…) Il vento, non soffia, semplicemente, è indifferente con quale pietoso destino Lei lo minacci, se non va. Non ci porta a riva. Il vento non va, il motore non va. E’ come se tutto avesse congiurato contro di noi. Forse una piccola vittima? … forse quella ragazzina lì…? Vuole sacrificare quella ragazzina? … Cosa sale adesso sulla cima del cielo, da dove noi dobbiamo scendere? Non c’è nessun rumore qui attorno, allora cominciamo il sacrificio oppure no? Il vento, lo sciocco vento sta zitto, vuole avere grida per poter proseguire, e perciò adesso sta in silenzio, per ascoltare quando comincia.
Cosa accade a questa contemporanea Ifigenia? In che senso viene sacrificata? Come viene concessa al favore di qualche dio che in cambio di lei promette aiuto, protezione? Si consuma un sacrificio atavico, si esegue il rito della vendita del corpo di una donna. Del resto, l’Europa deve il suo nome ad un mito di violenza sul corpo femminile: Zeus che si trasforma in toro pur di possedere la fanciulla Europa, che rapisce con l’inganno e porta via. Chi è Zeus/toro oggi? È un importatore di ragazze dall’est (anche da quell’Ucraina che ora sta soffrendo): il cliente le ordina su internet, poi quanto le vede, se le misure non corrispondono, o non sono esaudite le aspettative delle foto, le restituisce; il dio toro sta lì, pronto a trasportarle mentre quelle si aggrappano alle sue corna. Del resto, si combatte una guerra: ‘ira’, Zorn, è una parola che affiora a sprazzi nel flusso di parole, l’ira che non è quella di Achille, si dice, ma è sempre l’ira di un conflitto, che come nell’ Iliade implica spostamento di uomini, ma ora le parti sono confuse, non si capisce chi siano i Greci e chi i barbari, chi siamo noi e chi siamo gli altri; e nella battaglia muore sempre qualcuno, ma coloro che muoiono oggi non hanno diritto a funerali, come gli eroi omerici:
Se penso che teatro hanno messo su per il cadavere di Ettore! Ed era precisamente un solo uomo, e gli dei immortali stettero in lite per nove giorni. … Per un solo uomo, che ora è un cadavere, litigano da nove giorni, e per queste migliaia di uomini, donne, bambini, non fanno quasi niente, andranno in putrefazione da soli, devo cercare come funziona nell’acqua, dove si gonfieranno, uomini, donne, bambini che da subito sono anche cadaveri, e presto ci aggiungiamo anche noi, una trentina, più o meno, trenta in più all’incirca, e subito lì sopra ancora un paio, ed oggi certo arrivano ancora barconi!’.
A meno che non compaia un’Antigone, che seppellisce i corpi, che lava i corpi, che ascolta le grida dei morti:
Alla foresta verranno strappate le chiome dai rami. E anche l’uccello piangerà, quando vedrà il nido vuoto, privato dei suoi piccoli. I morti non piangeranno, se a loro verrà sparsa sabbia negli occhi, e grideranno, grideranno, grideranno, che infine qualcuno lavi i loro occhi.
Che ci sia un’Antigone, lo riconosciamo perché queste frasi sono tutte citazioni letterali dal testo di Sofocle. La parola non smette di essere evocativa perché la parola esprime nostalgia per la realtà. La sepoltura, anche solo di ossa, anche solo di cenere, non smette di essere il gesto più alto dell’umana pietà.
La Jelinek ha scritto questo testo perché venga rappresentato a teatro, perché le voci che raccoglie diventino oggetto di un nuovo ascolto. Non vuole insegnare nulla; se la catarsi c’è, si esaurisce nella stessa scrittura, in quel ‘fare a pezzi la realtà’ che guida, o pare guidare, la scrittura dell’autrice. Forse lo spettatore, nei frammenti del naufragio, troverà quel che resta del proprio mondo; ma certo ascolterà con crescente disagio, perché non è più concesso il sublime del naufragio con spettatore, anzi lo spettatore troverà sé stesso in quelle parole, in alcune di quelle, come se nella scrittura si svelassero pensieri inconfessabili, le paure, lo sconcerto, ed anche la propria solitudine rispetto a quei molti, ai troppi, che arrivano, che non possono arginarsi:
Vanno vagabondando qui attorno, questi uomini, sono tanti, nessuno li può guardare tutti insieme, di loro si parla, nessuno può capirli, sono fatti così, non si capisce come si parla qui. Non c’è da meravigliarsi se all’inizio non li si ascolta nemmeno, non i loro dolori, non i loro canti, sono talmente tanti, sono talmente tanti uomini, che nelle loro stazioni precedenti hanno trovato una meta, e adesso la meta non c’è più, adesso siamo noi la loro meta. Sono folle oceaniche, che hanno bisogno di un piano, di una guida, di essere spinti oltre, di essere mandati via, nel caso non li si possa trattenere, e in Ungheria non si può…
“Sono troppi”, si ripete, “troppi”, superano le misure di grandezza, “troppi” per essere accolti, troppi per essere toccati:
Producono vulcani di merda, di sporco, di spazzatura, sembra come se fosse esplosa una montagna di immondizia, guardate, insomma, quanta sporcizia fanno, e qualcosa del genere dobbiamo ora farlo abitare per sempre con noi? (…) ohimè, questi due studenti americani tengono dei fazzoletti davanti al volto contro la puzza; siamo sinceri, questa puzza è davvero insopportabile. Ci sono delle apposite mascherine, le portano i poliziotti in Ungheria, credo che non siano contro le infezioni, sono contro la puzza. … Sarebbe meglio che conoscessero bene il loro scopo, dovrebbero conoscerlo, e dove andranno con esso, dove con la puzza, dove con tutto, anche quello che non è affatto qui?
Da lontano, attraverso la terra di mezzo dello schermo televisivo, li si può guardare, da lontano li si può fotografare. Ma guai ad avvicinarsi:
Questi uomini sono arrivati attraverso la spiaggia, sono qui, sono qui, sono stranieri, e sono in una terra di mezzo, no, la terra di mezzo è lo schermo, io li guardo lì, sul grande o sul piccolo schermo. Il bambino è morto. L’altro è appena nato. Non c’è tempo, per indugiare sul freddo lido. La foto è fatta, sarà mostrata al mondo e basta. Solo uno, un piccolo bambino. Che cosa vuoi che sia.
La parola ferita, traumatizzata, diventa nostalgica del narrare. Narra l’orrore, senza chiamarlo così. Un bambino su una spiaggia, un bambinetto, che cosa vuoi che sia nel balenio di corpi abbandonati della storia. E noi, noi, abbiamo guardato.
Che sia ora di cambiare? Ora di riparare alle ingiustizie? Ora di comprendere cosa fare? Per gli altri e per noi stessi? Scrive la stessa Elfriede Jelinek sulla Zeit del 24 marzo (si tratta di parte di un discorso pronunciato a Vienna per raccogliere offerte di beneficienza per l'Ucraina):
Ed ecco ora gli Ucraini stanno ai confini, le donne che piangono, trascinando Trolley e borse stracolme di generi di prima necessità, bambini che piangono tra le braccia, piccolini con berretti di lana con le orecchie da orso o soffici pon-pon, bambine con i piumini rosa che stringono le loro bambole, donne anziane e sole, che da accarezzare hanno solo i loro animali domestici, si accovacciano nelle stazioni della metropolitana, nelle cantine, e nella stessa posizione stanno anche ai confini, per salvare la loro nuda vita. Non si può portare nulla con sé quando si muore, si dice; ma non si può portare con sé niente o quasi anche quando si è ancora vivi. Nemmeno una di queste donne si considera felice perché si è salvata dalla guerra, dato che gli uomini e i padri di famiglia devono tornare indietro e combattere, anche se non lo hanno mai fatto e anche se non sono in grado di farlo, ma si impara anche ad uccidere, e chi non vuole uccidere deve comunque farlo, o deve sentirsi di farlo.
Quell’essere abbandonati da Dio, di cui scrive Hannah Arendt, quell’abbandono nel mezzo di un imprevedibile movimento di massa di individui ‘senza legami, senza contatti’, quella specie di abbandono e di isolamento sono stati adesso spezzati dal governo e dagli abitanti dell’Ucraina. I confini sono stati divelti.
Stanno lì l’uno per l’altro, quegli Ucraini, si aiutano reciprocamente, oppongono resistenza. Coloro che sono soli raccolgono, proprio come se fossero una famiglia, raccolgono gli indifesi e gli smarriti alle frontiere, danno loro da mangiare, in senso cristiano, li nutrono, mentre un regime autocratico vorrebbe divorarli per diventare sempre più grande.
Per portare aiuto, c’è bisogno di donare. Questa deve essere il nostro contributo alla comunità, che da parte sua ci fa il dono di non dover restare soli al mondo e anche di non doverci sentire più soli. I gruppi degli ucraini e tutti coloro che li aiutano danno a tutti noi la libertà e la forza di difenderci, nel caso fosse necessario, e allora anche noi riceveremo aiuto. E anche se ciò accadesse solo per questo, se i nostri doni servissero solo a farci sentire, grazie all’aiuto che portiamo, grandi e nobili: ebbene, aiutiamo gli indifesi, che perdono tutto, le cui città sono bombardate. Questo è il compito, il nostro compito, che dobbiamo assolvere, anche per noi stessi.