Medea in Belgio. Tra mito e storia di un caso giudiziario
Ogni messa in scena di Milo Rau, tra i più noti e acclamati registi di teatro nel panorama internazionale, può essere considerato un archivio di riflessioni e di azioni, performative e politiche, su temi fondamentali della storia e società contemporanea.
Molti spettacoli di Rau sono costruiti attraverso un dialogo serrato con la tragedia greca, culminato nel recente All Greeks Festival (Ghent,1 maggio-23 giugno 2024), «a groundbreaking festival that features all 32 remaining Greek tragedies, re-interpreted in numerous forms» (qui).
Fra queste 32 tragedie vi è una delle più rappresentate dal V secolo a.C. a oggi, Medea di Euripide (431 a.C.). Dopo aver progettato – ma non realizzato – Medea in Aleppo, Rau è tornato alla tragedia euripidea con Medea’s Children: questa pièce, presentata nel 2024 al festival di Ghent e alla Biennale Teatro di Venezia e ora messa in scena a Milano per il FOG Performing Arts Festival (Triennale, 1 febbraio-15 aprile 2025).
Come Orestes in Mosul o Antigone in Amazzonia (qui; qui) anche il titolo Medea’s Children esprime la prospettiva privilegiata da Rau: in questa tragedia i figli di Medea acquistano il primo piano. La presenza di bambini e ragazzi sul palco per tutto lo spettacolo determina il sorgere di interrogativi che si aggiungono a quelli inevitabilmente sollevati dal nome Medea, a cominciare da: ‘come può una madre assassinare i propri figli?’ Nel gioco teatrale che porta i giovanissimi attori non professionisti a entrare e uscire dalle parti assegnate irrompono così questioni sul ruolo e sulla definizione di ‘madre’, sull’opacità dei legami familiari, sull’amore, sulla solitudine, sulla morte, su come si possa convivere con la certezza di morire, sul destino: temi, questi ultimi, ricorrenti nei lavori di Rau, tra i quali voglio ricordare Everywoman (qui; qui) con una magnifica Ursina Lardi (Leone d’argento, Biennale Teatro 2025).
In Medea’s Children il regista svizzero delinea relazioni tra il mito tragico in scena ad Atene nel 431 a.C. e fatti della cronaca contemporanea, seguendo un percorso collaudato, sostenuto da fondamenti teorici e pratici su cui molto è stato scritto, anche dallo stesso Rau: reenactement (qui), Globaler Realismus, Manifesto di Ghent (qui).
Il doppio binario di questo spettacolo è dunque tracciato dal mito euripideo e da un evento tragico avvenuto in Belgio nel febbraio 2007: una madre, Geneviève Lhermitte – nello spettacolo chiamata con lo pseudonimo Amandine Moreau – uccise i suoi cinque figli di età compresa tra i 7 e i 14 anni, sgozzandoli dopo averli chiamati a uno a uno in stanze diverse della casa. La donna tentò poi il suicidio, ma fallì nello scopo. Chiamò la polizia: “ho fatto qualcosa di terribile”, disse. Fu condannata all’ergastolo, ma sedici anni dopo chiese e ottenne l’eutanasia in carcere per una irreversibile sofferenza psicologica. Il padre dei ragazzi, Mounir, tacciato anche di omosessualità con un vecchio tutore, il Dottor Glass, che l’aveva adottato da bambino, al momento dell’omicidio Mounir si trovava da più di un mese in Marocco e dopo la tragedia iniziò una nuova vita con un’altra donna: un traditore, quindi, come Giasone.
L’accostamento del nome Medea a fatti di cronaca che raccontano di infanticidi per mano materna non è certo presente per la prima volta in Medea’s Children: sono numerosi gli spettacoli teatrali, ma anche film, romanzi, racconti in che si potrebbero citare. Tra questi vi è il romanzo di Grazia Verasani From Medea (Maternity Blues), che ha per protagoniste quattro donne rinchiuse in un ospedale psichiatrico per quello che è forse il più terribile dei crimini, romanzo adattato sia per il teatro – Maternity Blues (From Medea) – che per il cinema – Maternity Blues –.
Tre piani
L’azione di Medea’s Children si svolge su tre piani. Il primo è quello dell’incontro tra i giovanissimi attori (Anna Matthys, Emma Van de Casteele, Jade Versluys, Gabriël El Houari, Sanne De Waele, Vik Neirinck) e il loro acting coach Peter (Peter Seynaeve), che veste anche i panni di mediatore con il pubblico e soprattutto di intervistatore dei ragazzi sul palco. Perché accostare la tragedia di Euripide e un caso giudiziario del 2007? Chi è Euripide? Come si lavora con Milo Rau? Cosa pensano e cosa sentono i bambini quando interpretano personaggi come Medea, Amandine, i figli che sono stati uccisi? Quali intenzioni li muovono? Tra queste e altre domande aleggia una figura che viene evocata più volte: un tale Dirk, uno “davvero vecchio” – dice un ragazzo –, che è assente in scena ma che sembra vegliare da lontano su tutti e tutto. Chi è Dirk? – ci chiediamo. Il regista? Il drammaturgo? Una proiezione di Euripide? Una personificazione invisibile del destino, della morte, della tragedia stessa? Uno spettro? I giovani sono legati a Dirk, sono ammaliati da lui ma ne hanno anche timore.
Le risposte che i ragazzi danno al loro acting coach sono varie e gettano semi destinati a germogliare nel corso dello spettacolo: in altre parole, ciò che si vedrà e farà in scena è anticipato nei temi su cui Peter chiama i giovani attori a confrontarsi e noi spettatori con loro.
Fra le questioni quelle su Euripide, sulla tragedia e sul teatro greco lasciano perplessi. “Euripide viveva in una grotta dove scrisse tutte le sue tragedie… Fu sbranato dai cani… Era solitario come Medea”; “il teatro è nato con la musica ed è morto con il monologo”, e altre semplificazioni, se non banalizzazioni o inesattezze. Perché? Forse perché a rispondere sono bambini e ragazzi? Ma non sono quei giovani, in scena, voce di un drammaturgo guidata da un regista? Si vuole forse fare ironia con certa didattica della tragedia greca o con improbabili messe in scena contemporanee, che magari si vantano di essere ‘filologicamente’ fedeli?
Le parti di dialogo con il coach si alternano alla ripresa di passi scelti della tragedia di Euripide che ai giovani attori sono sembrati più significativi. Una ragazza interpreta il grande monologo di Medea, nel quale intende mostrare la sua empatia con la disperazione del personaggio, l’emarginazione e la solitudine. Una bambina vuole sottolineare l’importanza e l’effetto della musica durante la rappresentazione del dramma. Accompagnata dalla pianola suonata da un’altra giovane attrice, canta Two birds on a wire: ‘due’, come Medea e Giasone, come Amandine e Mounir. La musica, ricordata da Peter e dai ragazzi come essenziale nel teatro greco, è ineludibile negli spettacoli di Rau legati alla tragedia greca (ad esempio Orestes in Mosul): in Medea’s Children segna momenti chiave come quello citato e il drammatico monologo finale di Amandine (/Medea) introdotto dalla toccante Les yeaux de ma mère.
La musica ha anche il compito di segnare cambi e inizi. Dopo Two birds on a wire si alza il sipario e in fondo al palco, su uno schermo, appaiono una spiaggia desolata e un volto di donna battuto dal vento. Sul palco si sollevano volute di sabbia, simbolo del confine con l’infinito e le incognite del mare, attraversato più volte da Medea come quando abbandonò la Colchide, ma anche simbolo dell’instabilità delle umane vicende. Una ragazza interpreta Medea e presta la voce alla donna nel filmato, le cui labbra si muovono silenziosamente. È il racconto, messo in azione, su Medea che aiuta Giasone a sconfiggere il drago (interpretato da Milo Rau) e che infierisce con una violenza che ritornerà e sarà più atroce – il pubblico lo sa bene –. I due, Medea e Giasone, si baciano. “Com’è stato baciarsi in scena?”, chiede il coach. “Abbastanza ok” dice, e fa sorridere, un ragazzo. Si vedrà un altro bacio in Medea’s Children, ma senza essere accompagnato dalle parole di Peter o degli attori, tra il giovanissimo Mounir e il vecchio Dottor Glass. Baci ricorrono in altre tragedie dirette da Rau, anche estremamente difficili da interpretare e per questo oggetto di confronto fra attori, Rau, il suo gruppo di lavoro – penso alla scena ḥarām del bacio fra gli adulti attori iracheni che impersonano Oreste e Pilade in Orestes in Mosul –.
Medea’s Children si muove dunque tra il piano del palco in cui si svolge l’interazione, con tratti da ‘talk show’, fra attori e acting coach, e i due diversi piani della rappresentazione di Medea e della storia di Amandine (/Medea): palco e schermo, usati in momenti diversi o in sincronia.
Il pubblico è chiamato a percorrere più attraversamenti spazio-temporali, mitici, reali e finzionali, passando dal passato mitico della tragedia euripidea al presente dell’intervista-interazione e da questo al passato recente del fatto di cronaca, attraversando i relativi spazi; è invitato a seguire dinamiche performative di amplificazione e contrazione; viene stimolato a entrare in un universo stratificato fatto di allusioni, in particolare cinematografiche, a Pier Paolo Pasolini (“tutto è santo” dal film Medea) – molto amato da Rau – e a Luchino Visconti (Morte a Venezia), e poetiche (Pindaro Pitica 8, “l’umanità non è che il sogno di un’ombra”).
Questo teatro ibrido procede tra la semplicità dei mezzi teatrali, che restituiscono la tragedia euripidea in forma di messa in scena dai tratti laboratoriali, e l’intermedialità, affidata a cineprese, microfoni, allo schermo di una TV, che proietta un divertente cartone animato visto dai ragazzi prima di essere uccisi, al grande schermo con filmati che fanno trapelare la passione di Rau per il cinema e la possibilità di usare più tecniche (primo piano, zoom, carrellata per i paesaggi) per comunicare.
Costruito dunque con metodo, prassi e tecnica distintivi dei lavori di Rau, Medea’s Children appare a tratti artificioso e rivela i limiti di una eccessiva affezione a un modo di lavorare che risulta troppo uguale a se stesso e che determina, specie in chi ha visto più spettacoli del regista svizzero, una riduzione progressiva dello stupore e del coinvolgimento emotivo.
Bambini in scena
Anche la presenza in scena di attori non professionisti è un tratto proprio e consolidato delle opere di Rau. In Medea’s Children giovani attori non professionisti sono stati scelti soprattutto con casting nelle scuole. Interpretano i figli uccisi da Amandine (/Medea), quindi le vittime, i carnefici Amandine e Medea, e altri adulti.
Un bambino si è calato nei panni del vecchio padre di Amandine e a lui l’acting coach ha chiesto come sia riuscito a dare una prova attoriale così buona. “Facile!”, ha risposto, “Ho solo imitato la sua voce tremolante e ho pensato alla mia morte”. Che “recitare sia facile” e sia strano credere che “possa essere un lavoro” è un pensiero condiviso da altri giovani in scena: ma è questo un loro pensiero o una battuta che, da attori, devono recitare come altre? La ‘facilità’ del recitare è ribadita anche dove sarebbe più difficile da immaginare. La giovane interprete di Amandine, terminata la lunga scena dell’uccisione dei figli, dice: “mi viene facile identificarmi con Amandine, con la sua solitudine”. La ragazza confessa di aver attinto al suo vissuto di bullismo a scuola, scatenato dai suoi occhi particolari che la facevano apparire strana e straniera: metodo alla Lee Strasberg o un modo empirico per rendere credibile e verosimile la tremenda solitudine di Amandine?
Questa parte dello spettacolo induce a interrogarsi anche sulla violenza di giovani e bambini sia attraverso il riferimento al bullismo giovanile, la cui violenza psicologica e fisica è oggi drammaticamente e ampiamente diffusa, sia guardando la ferocia con cui la giovane attrice interprete di Amandine si accanisce sui suoi ‘figli di scena’. Da spettatori, la consapevolezza di assistere a una rappresentazione, a una rimessa-in-azione di infanticidi compiuti da una madre, si accompagna alla perturbante visione di un viso e di un corpo omicida che non è adulto ma giovane, tanto quanto o poco meno dei volti e dei corpi delle vittime. E a un certo punto, anche per la reiterazione dell’atto omicida e la lunga durata della scena, si è portati a non vedere più Amandine (/Medea) ma una ragazzina che uccide bambini. E alla domanda che ci facciamo ogni volta che vediamo a teatro una Medea, ‘come può una madre assassinare i propri figli?’, in Medea’s Children si aggiunge ‘come possono dei bambini uccidere bambini?”
Sangue in scena
Una sequenza video di oltre quindici minuti costruita con una marcata insistenza sui fiotti di sangue che bagnano giovani e giovanissimi corpi: il reiterato sgozzamento, per cinque volte, è crudeltà insostenibile agli occhi e allo stesso tempo diventa man mano una visione da genere splatter.
Peter riprende con una telecamera i cinque omicidi compiuti dentro la casa che vengono proiettati in simultanea sul grande schermo: il pubblico assiste alle scene precedute e seguite da domande e ricostruzioni come se vedesse un true crime.
Finito tutto, una delle piccole attrici è sconvolta, trema, deve essere abbracciata e rassicurata. Gli altri si tolgono di dosso il sangue finto, palesemente turbati. Questo gesto del ricomporsi dopo le forti emozioni provate dai giovani attori è stato visto come un atto catartico, il ritorno alla realtà, il sesto atto della tragedia descritto dalla poetessa Wislawa Szymborska in un componimento già usato da Milo Rau a chiusura del suo The Repetition. Histoire(s) du Théâtre (I) (qui) «L’atto più importante della tragedia è il sesto: / il risorgere dalle battaglie della scena / l’aggiustare le parrucche, le vesti, / l’estrarre il coltello dal petto, / il togliere il cappio dal collo, / l’allinearsi tra i vivi / con la faccia al pubblico» (qui).
La tragedia greca era molto violenta nei contenuti ma, come noto, non rappresentava in scena atti di sangue che venivano descritti da un personaggio, testimone diretto e/o indiretto, e trovavano spazi nella mente e immaginazione dello spettatore. In Medea’s Children il pubblico vede e vede ancora – ‘repetition’ – le piccole vittime agonizzare nei loro ultimi attimi. Come un pubblico composto da persone assuefatte a quotidiane scene di sangue esperisce sul proprio corpo, immobile e silenzioso in teatro, quel sangue e le grida di bambini in scena?
Amandine (/Medea), i bambini e Godot
La storia di Amandine ha un finale diverso da quello del mito euripideo. Un video proietta il volto di Medea tra il sole, padre del padre (Eur. Med. 1321) di Medea, le nuvole, il vento. Il primo piano della giovanissima attrice sprigiona distanza dal sangue dei figli uccisi, da Giasone, da Corinto e solitudine dolorosa ma anche titanica. Un cielo simile accompagna Amandine nel filmato che vediamo quasi al termine di Medea’s Children. Non è il viso a racchiudere qui il senso del finale di partita ma il corpo di Amandine in movimento, ripreso di spalle con effetto reverse. Amandine, dopo aver confessato che la sua “vita era un fallimento”, che si sentiva “straniera” ovunque, che “volev[a] morire”, che porta sempre con sé “le voci e i corpi dei figli”, confessa di voler ricominciare la sua vita. La sua immagine scompare dal video, schermata definitivamente dal buio del sipario che cala, nella vana attesa che “qualcuno voglia attraversare la vita” con lei.
Ma non c’è speranza per questa Medea, non per i suoi figli. E neppure per i giovani che interpretano questa doppia tragedia di Rau, che aspettano Dirk, che però “non tornerà mai, come Godot”.
Medea’s Children
Con: Peter Seynaeve, Anna Matthys, Emma Van de Casteele, Jade Versluys, Gabriël El Houari, Sanne De Waele, Vik Neirinck
Ideazione e regia: Milo Rau
Drammaturgia: Kaatje De Geest
Set design: ruimtevaarders (Karolien De Schepper, Christophe Engels)
Costumi: Jo De Visscher
Light design: Dennis Diels
Video design: Moritz von Dungern
Disegno sonoro: Elia Rediger
Acting coaching: Peter Seynaeve, Lien Wildemeersch
Child guidance: Dirk Crommelinck
Produzione: NTGent
Co-produzione: Wiener Festwochen, La Biennale de Venezia, Internationaal Theater Amsterdam, Tandem – Scène nationale
Le foto: @Michiel Devijver