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Anche prima della pandemia, alcune compagnie e laboratori teatrali hanno cominciato a filmare i lavori preparatori a performances e/o progetti artistici.

Tali documentari sono prodotti artisticamente autonomi e non  pure testimonianze. Per fare qualche esempio: Gli argonauti (2017) del Teatro delle Albe, per la regia di Alessandro Perna; oppure il film di Lucio Fiorentino sul Corso di formazione dell’ERT che ha avuto come esito Santa Estasi. Atridi: otto ritratti di famiglia di Antonio Latella (2018); o  più di recente il film di Milo Rau sui lavori al suo ripensamento del mito di Oreste nella Mosul ridotta in macerie, girato prima della pandemia ma apparso nel 2020. In un nostro post, abbiamo commentato il documentario dedicato a Domenico Iannacone all’Ulisse del Teatro patologico.

Documentare il lavoro in fieri ad uno spettacolo o ad un progetto performativo e/o teatrale serve agli studiosi, agli interpreti, agli spettatori, agli stessi artisti. Si tratta di un metodo che qualsiasi compagnia dovrebbe utilizzare per condividere le sue riflessioni sui diversi elementi dell’atto performativo, dal testo agli spazi, dai costumi ai bozzetti di scena. Foto, video, annotazioni, interviste, racconti, tutto ciò costituisce una specie di ‘modello’ di ispirazione brechtiana,che è insieme un taccuino, diario quotidiano ed elaborazione di una poetica.

La pandemia, nell’assenza di spettacoli, ha quasi reso indispensabile mettere a disposizione, del pubblico e non solo, almeno i ‘lavori in corso’ degli spettacoli rinviati: si veda ad esempio l’iniziativa del Teatro Franco Parenti #silenzioinsala, brevi video in cui parlano i protagonisti degli spettacoli che per la pandemia non abbiamo potuto vedere. Oppure il ricchissimo Cantiere Elfo per tre spettacoli programmati all’Elfo Puccini (qui).  

Bisognerà riflettere su quanto questi ‘spettacoli di spettacoli’ siano riusciti a cambiare l’evento teatrale stesso, sulla loro indipendenza estetica, sulla loro utilità ermeneutica. Non penso che riusciremo a farne più a meno, dopo la pandemia, anche se nessuno auspica che diventino un surrogato dell’evento performativo.

Qui diremo qualcosa di un film documentario di questo genere e del progetto ad esso correlato.

Abbiamo infatti visto in anteprima  parti di un  documentario sul making of della 'Città dei miti' del Teatro dei Borgia.

Qualche parola sul titolo la 'città dei miti': allude chiaramente all’ambientazione teatrale dei miti tragici greci, che si svolgevano tutti all’interno di una città e che prevedevano, come scenografia fissa, la facciata di un palazzo reale; ma rinvia anche ad Atene, la polis teatrale per antonomasia, in cui il teatro divenne un’istituzione cittadina e nella quale il teatro tragico veniva performato durante feste solenni e riti religiosi. 

Il progetto intende portare il teatro fuori dal teatro, per le strade, nelle case, nelle istituzioni di cura e di assistenza, nei luoghi del disagio sociale. La ‘città dei miti’ è dunque il teatro stesso, nel momento in cui, secondo la tradizionale e antica metafora, la vita umana è teatro e il mondo ne è l’immenso e vario palcoscenico.

Definito nella presentazione sulla pagina web del Teatro dei Borgia ‘un sogno metropolitano in una trilogia’, 'La città dei miti' si basa sull’idea che i personaggi dei miti tragici possano essere trasportati nella realtà contemporanea, nel senso che ne sono archetipi narrativi: così Medea è la prostituta straniera; Eracle il genitore separato e ridotto sul lastrico; Filottete, l’uomo malato abbandonato.  

La trilogia potrebbe ovviamente essere continuata da altre trilogie, dare adito ad altri cicli mitici,perché ogni mito tragico rispecchia una condizione esistenziale dell’essere umano e il nome di ogni personaggio mitologico evoca situazioni individuali senza tempo.

In questo lavoro, il Teatro dei Borgia si inserisce in una corrente specifica del teatro contemporaneo, iniziata alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, che rivitalizza il teatro tragico greco e lo impone come una cesura nella contemporaneità: imponendo uno sguardo verso un passato mitico a chi partecipa all’evento teatrale, questo tipo di teatro obbliga alla riflessione sul senso stesso del ‘tragico’ e sulla dimensione ‘tragica’ degli eventi piccoli e grandi della storia umana.

In questo la tragedia greca sulla scena contemporanea costituisce una ‘cesura’, un taglio, estetico, temporale, di contenuto. Paradossalmente, le storie tragiche del teatro ateniese del V sec. a.C. raccontano le metamorfosi del presente in maniera più efficace, più incisiva, dei racconti che scaturiscono dal presente stesso. 

Dato il permanere della pandemia, della ‘città dei miti’ del teatro dei Borgia  sono annunciate puntate in podcast  a partire da sabato 17 aprile (vedi qui).

Ma intanto torniamo al film documentario che abbiamo potuto vedere insieme ai due direttori della compagnia, Giampiero Alighiero Borgia e Elena Cotugno.

Io sono in quell’età in cui rivedere, nella distanza data da uno schermo, i luoghi in cui ho vissuto una parte significativa della mia esistenza, può diventare un faticoso loop emotivo, può suscitare il sentimento di aver girato a vuoto intorno alle stesse situazioni, pur in luoghi lontanissimi tra loro. La nostalgia, si sa, è un termine che contiene etimologicamente anche il ‘dolore’, ma forse questo dolore, se si ha un sentimento tragico del tempo, non consiste tanto nel desiderare di tornare al passato, quanto nel ritrovare nel passato qualcosa che permea il presente.  

Si ha l’impressione, specie in momenti storici come questo, in cui la prospettiva sul futuro è opaca, che vivere significhi affannarsi nel tempo senza procedere: il tragico, forse, ammette tra le sue definizioni la consapevolezza della cavia in gabbia, che corre e corre ma non avanza, non può avanzare. Il tragico potrebbe essere questa consapevolezza della stasi pur in uno stancante movimento che porta ad una fine che per gli esseri umani non si può evitare, il limite davanti al quale, come dice il primo stasimo dell' Antigone di Sofocle, non si può sfuggire.

Il che vuole anche dire acquistare una tragica consapevolezza dell’insolubilità dei problemi che si incontrano.

Per questo i miti tragici, che raccontano problemi e situazioni che possono riguardare tutti, sono eterni e universali, in un senso per niente idealistico: non sono situazioni estreme, ma al contrario ricorrenti. E tragico diviene quell’eroe che crede di affrontare queste situazioni e invece si scontra con la loro infinita ripetitività. Tragico è l'eroe che fallisce, non quello che vince, ammesso che si possano contemplare eroi vincenti.  

Rivedendo nel film doumentario del Teatro dei Borgia il botteghino del teatro Abeliano di Bari, nel riconoscere alcune immagini dalla periferia barese, nell'osservare la prospettiva ampia del lungomare della città pugliese, talora battuta da raffiche di vento e ricordare quelle strade delle mie notti da studentessa, e la statale che affrontavo la mattina con una vecchia opel kadett, intrepida supplente di latino e greco nei licei di Corato e Terlizzi; nel riascoltare l’accento del nord della Puglia e il sacerdote e l'assistente sociale che con amore parlano di situazioni note, ma che riusciamo troppo facilmente a ignorare, ho rivissuto frammenti della Bari e della Puglia tra gli anni ’80 e ‘90: una regione circondata dal mare, il cui problema maggiore non erano supposte invasioni di stranieri, ma la droga e la prostituzione. 

Le ‘città dei miti’, comprese le città pugliesi, allora si presentavano sicuramente in altro modo rispetto ad oggi: l'Ilva non era ancora un mostro mitologico che ingoiava vite, o non se ne aveva del tutto la consapevolezza; la globalizzazione e l’omologazione agiva già, ma senza l’aiuto sostanziale di internet; la nave-rottame carica di albanesi doveva ancora cominciare il suo viaggio verso il porto di Bari e la vergogna dello stadio ironicamente detto della Vittoria: emarginazione, povertà, sviamento riempivano ugualmente le strade e in varie forme circolava la tendenza all’autodistruzione, la pulsione di morte, la svendita del corpo. Le città erano altro, voglio dire, in Puglia come altrove, ma i miti erano gli stessi.

Guardando  ora al lavoro  del Teatro dei Borgia, che ha le sue radici a Barletta, meglio comprendiamo in che senso i miti tragici greci siano arche-tipici: i miti attingono all’origine (arché) dell’esperienza dell’umano.

I miti tragici costituiscono archetipi e archivi (parola che etimologicamente si riconduce sempre ad arché) delle emozioni e dei sentimenti collettivi. Il teatro, a sua volta, rappresenta un archivio di questi archetipi emotivi e al teatro attingiamo alla ricerca dell’ ‘origine’ di ogni possibile rappresentazione dell’umano. Perciò il contenuto dei miti è spesso eccessivo, trasgressivo, va oltre ogni limite, oltre il pensabile, racconta vicende di arroganza e di esagerazione, di tentativo di superamento della condizione umana: perché la ricerca del mito non ne ignora nessun aspetto, anche quelli più spaesanti e inquietanti. 

Perciò il nostro avvicinarsi al teatro greco assomiglia allo scavo archeologico (parola che ancora si riconduce ad arché), perché il nostro scopo consiste nel riportare alla luce problemi antichi della condizione umana, e per antichi intendiamo che esistono da sempre, che sono iscritti cioè nella natura biologica stessa dell’uomo e nella sua memoria. Il teatro è dunque ricerca di un’origine, dell’origine, nella quale ritroviamo quel che siamo.

Perché proprio il teatro diventa strumento di questa ricerca? E perché il teatro tragico si basa su una terribile, ma indubitabile, norma estetica, per cui inevitabilmente si prova ‘piacere’ nell’assistere a disgrazie che ci sono vicine ma non ci riguardano in prima persona? Per dare sollievo catartico allo spettatore? Per spaventarlo? Per insegnargli qualcosa? Per provocarne l’attenzione, sì da diventare strumento di azione e partecipazione, e non puro ‘spettacolo’?  

Queste domande, a cui non certo qui si può tentare una risposta, sono essenziali per comprendere il fenomeno del teatro tragico, per capire cosa renda così attuale e contemporanea una forma letteraria, legata antropologicamente a contesti rituali che ci sono lontanissimi e incomprensibili (la parola ‘tragedia’, com’è noto, significa ‘canto del capro’ o ‘canto per il capro’).

La città dei miti del Teatro dei Borgia è teatro, teatro di parola, nel senso più tradizionale del termine; il richiamo ai miti antichi non è puramente esornativo, non si limita ad analogie tematiche, ma si basa su una conoscenza non superficiale dei testi che li tramandano.

Indubbia è anche la dimensione estetica e non ‘sociale’ del teatro dei Borgia, per cui non si dimentica mai che la Medea prostituta è un’attrice che impersona una prostituta, non si confonde mai la vicenda rappresentata con la sua mimesi. Ma proprio attraverso l’estetica della performance l’esperienza di chi vi partecipa viene attivata e resa utile: proprio attraverso la tecnica artistica la città dei miti è città senza miti, è città delle realtà, con i suoi luoghi dell’emarginazione, della povertà e del disagio. La finzione è realtà.

Ho partecipato tempo fa, a Milano, a un episodio della trilogia ‘La città dei miti’, a Medea per strada. Allora ho richiamato, in una breve recensione (qui), altri ripensamenti di Medea che potevano accostarsi, tematicamente, a questa Medea straniera, il cui corpo è preso in ostaggio dai mercanti della prostituzione, ed usato per strada nelle periferie. Adesso mi sembra che la scelta di Medea sia giustificata anche dall’unicità che questo personaggio ha, sin dalla tragedia di Euripide, nel leggere le emozioni, nell’interpretarle, nel simularle, nel manipolarle.

Medea è un personaggio da intendersi davvero come un vero e proprio archivio di emozioni e sulle emozioni.   

Tutta l’immensa ricezione del personaggio Medea è condizionata da questo gioco di esperienza emozionale, dalla condivisione delle emozioni che sono alla base dell’agire di Medea (la gelosia oppure la rabbia oppure l’amore) all’orrore provato per le loro conseguenze (l’omicidio e l’infanticidio). Una caratteristica comune alle varie metamorfosi del personaggio può perciò esser vista nel fatto che i suoi stati emotivi sono sempre disturbanti: la sua maniera di provare amore diventa malata e distorta, la sua ira va intesa come anti-modello rispetto al dominio delle passioni che dovrebbe essere proprio del saggio, la sua gioia rappresenta il piacere perverso del criminale.

Le emozioni di Medea sono grandi, esagerate, tragiche proprio nel causare un corto circuito emozionale e intellettuale, perché Medea, nel momento in cui pone le emozioni alla base del proprio agire, le nega e le condanna, non le accetta eppure sceglie di non dominarle e di non reprimerle, dichiara esplicitamente di seguire ‘il cuore’ come motivazione delle azioni che eticamente condanna.

Proprio perché personaggio emblematico della collisione tra sentimento e ragione, proprio perché vive razionalmente il sentimento ed emozionalmente la ragione, la cifra di Medea è la notte, l’oscurità, l’opposto della luce, la metaforica notte della follia; e forse proprio per questo, ogni ricezione del personaggio di Medea rappresenta un sfida emotiva, un chiedere del personaggio a sé stesso e a chi lo ascolti e lo veda sino a che punto le emozioni possono trasformarsi e trasformare chi le prova.

La scena finale della Medea di Euripide, il suo restare sospesa sul carro del Sole, il suo protendersi verso un futuro che non arriva, la possibilità di una caduta: un momento che è stato enfatizzato da Mario Telò nel suo ultimo libro sulla tragedia greca come anti-catartico. Non c’è, cioè, liberazione alcuna, e quella prospettata è una liberazione illusoria: Medea è chiusa in un circolo di negatività che si ripete all’infinito.

In un monologo sconosciuto in Italia dal titolo significativo Archetipo: Medea (2004) della scrittrice croata Ivana Sajko, Medea è condannata a questa eterna ripetizione di sé stessa, rinchiusa in ricordi che non vuole riaffiorino e dunque non esistono; lei stessa ridotta ad un ricordo opaco, ad un nome che significa una sola cosa, morte e infanticidio, e dunque non riconduce a nulla di specifico, non a un essere umano, ma al girare a vuoto della sua storia: «Ho cento anni… mento, sono più vecchia, mento, se dico di aver giocato con le bambole, mento, se dico di aver guardato il mare, di aver pescato pesciolini, di aver dipinto con l’oro, mento, se dico che i miei desideri sono stati esauditi, e che la mia giovinezza fu lunga e incolpevole, perché non posso più ricordare nulla. Sì, il mondo probabilmente è sempre lo stesso, e probabilmente anche in quei giorni, quand’ero felice, avevo lo stesso aspetto di adesso. Anche Medea è rimasta la stessa.»

E a questa legge non sfugge la Medea del Teatro dei Borgia, che è un’esperienza emotiva da diverse prospettive: quella dell’attrice divenuta anche autrice (insieme a Fabrizio Sinisi) dei testi, e che questa sua esperienza racconta nel libretto che accompagna la performance.

Un’esperienza nata sulla SS 231, tra Foggia e Bari, dove si incontrano le prostitute, quasi tutte straniere; accompagnata dall’ascolto e da interviste a un’assistente sociale che si occupa concretamente di alcune di queste donne; proseguita per le strade di altre città, Roma, Milano, Todi, dove si consumano tragedie tutte con la stessa trama, variazioni mitiche della straniera fatta schiava, illusa con un sogno d’amore, usata, sfruttata, abbandonata. Quella stessa donna che racconta la sua storia in un bus che percorre le strade delle città, insieme a pochi ‘spettatori’.

Ho partecipato a quest’esperienza qualche anno fa, a Milano - dicevo. Certo, sapevamo di fare il nostro viaggio con un’attrice; sapevamo che quel pulmino era un palcoscenico, che la storia che veniva performata con tutti i dettagli (l’abbigliamento e la biancheria da prostituta, la parrucca, il rossetto, la lingua e l’accento) era pur sempre un copione teatrale. Tuttavia dal punto di vista emotivo, la mimesi non sottrae nulla allo spettatore: tutt’altro.

In questo senso, il teatro dei Borgia è tragico anche perché crea quella condivisione emotiva, è teatro delle emozioni e sulle emozioni, che non approda ad una liberazione finale, né ad una disciplina delle emozioni più violente, ma si limita a suscitarle, lasciandoci in uno stato di sospensione, di incertezza su quello che può accadere: sospensione che si auspica non spinga alla rinuncia, ma all’azione.

 

ERACLE, L’INVISIBILE da Euripide con Christian Di Domenico, Parole di Fabrizio Sinisi e Christian Di Domenico, Consulenza sociologica Domenico Bizzarro, Progetto e regia Gianpiero Alighiero Borgia. Esperienza per 25 spettatori

FILOTTETE DIMENTICATO da Sofocle con Daniele Nuccetelli. Parole di Fabrizio Sinisi. Consulenza clinica Laura Bonanni. Progetto e regia Gianpiero Alighiero Borgia. Esperienza per 25 spettatori.

MEDEA PER STRADA con Elena Cotugno. Parole di Fabrizio Sinisi e Elena Cotugno. Progetto e regia Gianpiero Alighiero Borgia. Allestimento Filippo Sarcinelli. Esperienza da 12 a 24 spettatori

Tutte le foto sono tratte dal sito web e dalla pagina facebook della compagnia. 

Vedi anche il post di Cristina Pace, qui e la pagina del podcast (9 puntate): https://www.spreaker.com/show/le-voci-della-citta-dei-miti