Quando uscì Il Tiranno e il suo pubblico, per la collana della Piccola Biblioteca Einaudi, correva l’anno 1977: Diego Lanza era uno studioso ancora giovane, quarantenne, ma già affermato e conosciuto a livello nazionale e internazionale.
Da oltre un decennio insegnava Letteratura Greca all’università di Pavia e alle spalle aveva già pubblicazioni importanti tra le quali spiccano l’edizione commentata dei frammenti di Anassagora per la Nuova Italia (1966) e la traduzione degli scritti biologici di Aristotele realizzata insieme con Mario Vegetti per la UTET (1971), senza contare i numerosi saggi su riviste specializzate di antichistica dedicati alla tragedia greca (in particolare Euripide), ai presocratici e alla storia degli studi classici.
Il libro sul tiranno, sia per ragioni legate alla dimensione e alla compattezza dell’opera, sia per l’importanza della sede editoriale, segnava indubbiamente un traguardo vistoso per la carriera di Lanza, e non è un caso che sia rimasto, a distanza di oltre quattro decenni, la sua opera più conosciuta e citata, oltre che l’unica ad aver avuto la fortuna di una versione in lingua straniera[1]. Chi si è occupato e si occupa di tiranni e tirannide nel mondo antico sa bene che nessuna ricerca anche tra le più recenti può evitare di confrontarsi con le argomentazioni e le tesi presentate nel Tiranno e il suo pubblico di Lanza, rimasto certamente una pietra miliare in questo campo di studi[2].
Per comprendere la trama concettuale e le matrici teoriche che stanno alla radice del libro sul tiranno occorre fare riferimento alle discussioni e agli approcci metodologici che negli anni Settanta del secolo scorso andavano maturando nell’ambito dei seminari sul mondo antico presso l’ateneo di Pavia. Frutto di quelle attività di studio e ricerca furono due libri “militanti”, concepiti e firmati da Lanza insieme con Mario Vegetti e altri giovani allievi della scuola pavese (Anna Beltrametti, Guglielmino Caiani, Francesca Calabi, Silvia Campese, Francesco Sircana): L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica, pubblicati entrambi da Liguori di Napoli nel 1977, lo stesso anno del Tiranno e il suo pubblico. Il titolo del primo volume era lo stesso di un saggio più ampio uscito due anni prima sulla rivista diretta da Luciano Canfora «Quaderni di storia»[3], che aveva destato un certo clamore e vivaci polemiche.
Ricorrendo agli strumenti concettuali di una metodologia marxista non dogmatica, rivisitata e aggiornata, coniugata con un approccio storico-antropologico e strutturalista, quegli studi puntavano a un’analisi disincantata delle dinamiche economiche, sociali e politiche che presiedono e dirigono la vita collettiva della polis Ateniese nel V e IV sec. a.C. L’idea cardine era quella per cui doveva agire sullo sfondo una “ideologia della città” (il sintagma è entrato di diritto nel linguaggio degli antichisti), ovvero un’autorappresentazione retorica e tutt’altro che veritiera, la quale risulta utile a cementare l’identità comunitaria. Il senso ultimo di quella chiave di lettura era il tentativo di assestare un colpo alla visione classicistica dell’Atene periclea e post periclea trasmettendo ai lettori, come è stato detto, la prospettiva di «un’antichità diversa, mai rassicurante, sempre problematica»[4].
Il tiranno e il suo pubblico affronta un elemento portante di quella “ideologia della città”. I due lemmi che compongono il titolo (“tiranno” e “pubblico”) indicano chiaramente, nel loro rapporto di reciprocità e complementarietà, il significato del libro, come viene per altro ben specificato nell’Introduzione (Sincronia e diacronia della figura del tiranno) e nel primo capitolo (Un teatro politico): la tirannide greca non viene, dunque, studiata come una fase storica precedente l’avvento della città classica, e neppure come una forma duratura di governo che ha percorso i secoli nel mondo antico, bensì come una rappresentazione, che emana dalla comunità ateniese, la cui funzione è propriamente ed essenzialmente ideologica.
Il tiranno di cui si parla non è una concreta figura storicamente esistita, ma uno schema formale cui danno voce e azione gli attori del teatro tragico rivolgendosi al pubblico di spettatori che affollano le gradinate e che coincide con l’insieme della comunità dei cittadini ateniesi. Ogni equivoco a proposito della prospettiva che guida la ricerca è chiarito nell’incipit dallo stesso Lanza, laddove afferma[5]:
Questo libro non è un nuovo studio sulla tirannide in Grecia; neppure una rassegna delle opinioni che i Greci ebbero della tirannide e dei tiranni. È invece il tentativo di definire la genesi, lo sviluppo e la fortuna di una figura ideologica, che sempre meglio si precisa nella letteratura ateniese tra la metà del V e la metà del IV secolo, e che finisce col costituire un modello articolato e flessibile, destinato a sopravvivere fuori del proprio contesto.
Se da un lato la polis ateniese elabora la concezione di uno spazio pubblico in cui i cittadini hanno uguali diritti e i confitti sono risolti sul terreno della mediazione politica, dall’altro la figura del tyrannos funge per così dire da “anti-ideologia”.
Quello che un tempo era il nemico principale delle casate gentilizie passa a simboleggiare tutto ciò che si contrappone alla polis e alle sue strutture, è l’opposto dell’uomo libero e saggio, è dominato dalla sfrenatezza, dall’empietà, dall’avidità, dall’ansia del complotto ai suoi danni, dall’irrazionalità, dalle paure. La sua condotta è antitetica rispetto alla sophrosyne (‘assennatezza’, ‘prudenza’, ‘moderazione’) che si richiede al buon cittadino; la sua stessa esistenza è priva di eleutheria (‘libertà’) in quanto mancante di un vero spazio d’azione politica e di autodeterminazione. Il tiranno non è soltanto la negazione delle virtù tradizionali e la summa di tratti assolutamente negativi; è un’opzione impossibile per l’Atene del V secolo, una città che fonda il proprio assetto politico sull’atto liberatorio di un tirannicidio.
Il teatro tragico è lo strumento culturale che elabora e neutralizza la figura del tiranno.
La scena è popolata di despoti che si autodefiniscono tyrannoi, che con tale termine sono etichettati da altri personaggi, oppure figure che possiamo definire “tiranniche” in un senso più generale del termine, figure che esercitano un potere violento, autocratico e spesso anche illegittimamente acquisito. La casistica è quanto mai ampia e variegata e percorre la produzione tragica per tutto il V secolo a.C.
Si va dalla coppia tirannica dell’Orestea di Eschilo (458 a.C.), Egisto e Clitemnestra, violenti usurpatori del regno di Agamennone nella città di Argo, fino al Lico dell’Eracle euripideo (probabilmente messo in scena nel 416 a.C.), un altro usurpatore che ostenta il suo dispotismo e la sua empietà, fino al punto di risultare una tipizzazione fin troppo schematica del tiranno teatrale destinato alla sconfitta e alla morte. A voler cercare un punto di riferimento cronologico anche precedente all’Orestea possiamo indicare la figura di Serse nei Persiani eschilei (472 a.C.), dove il sovrano asiatico incarna un modello di regalità dispotica che non deve rendere conto delle sue azioni alla comunità politica con un riferimento che pare riguardare la forma del dispotismo orientale più che la tirannide autoctona greca, per quanto i due modelli sovente tendano a sovrapporsi.
Nel mezzo tra questi estremi cronologici troviamo il Creonte dell’Antigone sofoclea, l’Edipo dell’Edipo re sofocleo, l’Eteocle delle Fenicie di Euripide. Ma ci sono anche casi di tiranni che non compaiono in carne e ossa sulla skenè del teatro di Dioniso, sebbene la loro presenza sia costantemente evocata fino a diventare un fattore decisivo della vicenda rappresentata.
Si pensi innanzi tutto allo Zeus del Prometeo incatenato di Eschilo, il cui potere viene esplicitamente definito come tirannide con una frequenza lessicale che non può essere casuale. Un caso affine è quello delle Supplici di Euripide (422 a.C.), dove nessun tiranno è presente fisicamente, ma lo spettro del sistema tirannico è veicolato attraverso l’araldo tebano che dialoga con l’ateniese Teseo, rappresentante e difensore di una prospettiva isonomica e democratica, fondata sulla libertà dei cittadini, sull’uguaglianza di fronte alle leggi e sulla partecipazione collettiva alla gestione del potere.
Ricorrendo a tutti questi esempi concreti desunti dai testi drammatici attici, Lanza dimostra come l’elaborazione drammatica della tirannide non fosse uno sterile topos letterario ma agisse nel discorso pubblico, nelle tensioni operanti dentro la realtà della polis. Le tante figure tiranniche che affollano la scena attica in contesti diversi e con funzioni di volta in volta specifiche, dovevano essere facilmente riconoscibili al pubblico per via di determinati comportamenti fissi e ricorrenti (diffidenza, sospettosità, empietà, brama di ricchezza, cupidigia, violenza, paura di perdere il potere etc.): sono gli stessi ingredienti che si ritrovano nelle teorie sulla genesi della tirannide elaborate da storici come Erodoto e Tucidide e da filosofi come Platone e Aristotele.
E la vicenda drammatica porta inevitabilmente al fallimento umano e sociale del tiranno, sempre rappresentato come personaggio non solo iniquo, ma anche perdente. Il tiranno della scena teatrale, dunque, rappresenta l’antitesi del sistema democratico di Atene con tutti i suoi valori veri o presunti (e non a caso i tiranni sono proiettati di regola sulla sfondo mitico di altre città come Argo o Tebe), in lui si concentra tutto ciò che normalmente viene condannato dalla morale pubblica della polis ateniese. Delinea un modello negativo in assoluto, che concorre a definire per contrarium la democrazia e/o la monarchia illuminata. È un mondo alla rovescia, e forse anche un modo per esorcizzare pulsioni latenti del corpo sociale della polis ateniese, se è vero quanto asseriva Jabob Burckhard che «in ogni greco capace e ambizioso abitava un tiranno»[6].
Che si tratti essenzialmente di un’elaborazione ideologica è dimostrato dal fatto che ad Atene, dopo la fine dei Pisistratidi (514 assassinio di Ipparco, 510 cacciata di Ippia), per tutto il V secolo non vi è stato nessun tentativo storicamente documentato di eversione in senso tirannico (bisogna aspettare il 411 con il colpo di stato dei Quattrocento perché si realizzi un progetto di sovversione antidemocratica.).
La tirannide è un fenomeno inesistente, dunque, eppure il tiranno è una presenza costante e incombente nel dibattito pubblico, una vera ossessione. Si continua a parlare di tirannide, la si evoca, la si vitupera. La critica alla tirannide e la deprecazione dei suoi danni, motivo appartenente al patrimonio della gnome aristocratica (Alceo, Saffo), si rigenera ad Atene in forma di angoscia che un singolo possa assumere pieni poteri sulla città e si correla con la diffusa paura per la perdita della libertà e per la possibile catastrofe della polis. La tirannofobia degli Ateniesi si fondava sul ricordo della liberazione dai Pisistratidi e costituiva un fattore identitario durevole e ineludibile. La contrapposizione tra «vivere in democrazia o sotto la tirannide», che Erodoto adattava anacronisticamente al dibattito costituzionale tra notabili persiani (III 80-82), s’invera ad Atene nella forma di un incubo spaventoso al punto che l’espressione «sentire odore di Ippia» era diventata la graffiante formula con cui i comici sintetizzavano e denunciavano la tirannofobia ateniese quale vera e propria psicosi di massa.[7]
Un aspetto su cui mi pare valga la pena abbozzare un approfondimento è quello della “paura” del tiranno, uno dei principali fili conduttori che attraversano il libro di Lanza.
La “paura del tiranno” è un sintagma che va inteso nel suo duplice significato: nel senso di genitivo soggettivo (dunque la paura che il tiranno prova nel corso dell’azione scenica), e nel senso di genitivo oggettivo (dunque la paura che il tiranno produce attivamente sui suoi interlocutori e in generale sui cittadini della sua polis). Se si analizzano con attenzione tutte le presenze di figure tiranniche nei drammi del v secolo si può constatare come sia costantemente presente l’elemento della paura in relazione col potere tirannico, sia nel senso attivo che in quello passivo.
In certi casi è solo uno dei tanti ingredienti che concorrono a definire il carattere e l’agire del personaggio stabilendo specifiche dinamiche relazionali con gli altri personaggi e con l’azione in atto. Talora i tragediografi valorizzano al massimo il motivo della paura del tiranno per inscenare una trasformazione in senso tirannico di personaggi che al principio non lo sono o per lo meno non lo appaiono. L’insorgere della paura (quella in senso soggettivo) innesta una parabola che porta dapprima ad una palese accentuazione dei tratti dispotici e successivamente all’inevitabile catastrofe personale e politica. È il caso di Creonte nell’Antigone e di Edipo nell’Edipo re, due personaggi su cui inevitabilmente si sofferma l’attenzione di Lanza in diversi momenti della sua esposizione.
Il tiranno e il suo pubblico rivela felicemente il metodo di indagine praticato da Lanza lungo la sua intera carriera di studioso, soprattutto per la capacità di interrogarsi sui fenomeni della cultura antica mettendo in gioco le competenze più svariate, sempre senza dogmatismi, adottando punti di vista originali e sovente spiazzanti.
A rileggerlo adesso quel volume non risulta per nulla invecchiato, e anzi si coglie la carica di provocazione intellettuale che sprizza da ogni pagina. È un libro “stravagante” nel senso in cui Giorgio Pasquali usava questo aggettivo, un libro in cui filologia e storiografia, analisi sociologica e critica letteraria si incrociano continuamente. È uno studio sul tiranno come topos ideologico-letterario, ma anche una lucida riflessione sull’essenza del teatro greco e un’analisi precisa dei meccanismi di funzionamento della polis ateniese. L’effetto di disorientamento che ingenera sul lettore è tanto palese quanto maieutico.
Basta pensare alle pagine del capitolo inziale (Un teatro politico): nessuno si aspetterebbe in uno studio di un grecista dedicato alla rappresentazione del tiranno sulla scena tragica del V secolo a.C. di trovare al principio pagine dense sull’esperienza del teatro di Erwin Piscator e Karl Reinhardt nella Berlino degli anni Venti.
Con appropriata documentazione delle fonti ed efficacia argomentativa, Lanza rievoca quel tentativo di costruire una forma drammaturgica che nelle intenzioni si proponeva di essere totalmente politica rinunciando alla mediazione dell’arte (considerata un orpello borghese). Ma subito dopo, dopo aver offerto l’analisi di alcuni passaggi dei manifesti teorici del teatro “proletario” di Piscator ed aver ricostruito l’atmosfera di quei vivaci anni berlinesi, ecco che Lanza con un repentino balzo cronologico all’indietro ci riporta alla realtà del V sec. a.C., alle messinscene del teatro di Dioniso, alle feste cittadine delle Grandi Dionisie, alla costruzione ideologica di una figura – quella del tiranno – creata apposta per veicolare determinati significati diretti o allusivi.
Anche quello di Atene è stato un teatro prettamente politico, ma con modalità e intendimenti completamente differenti rispetto ai progetti di Piscator e Reinhardt, modalità e intendimenti che vanno compresi nello specifico di quell’Atene e di quel periodo storico. Ecco, questo accostamento apparentemente avventato tra l’Atene di Pericle e la Berlino del primo dopoguerra è un esempio sintomatico dell’originale approccio ermeneutico di Diego Lanza: non solo collegare il passato col presente, e neppure usare l’antico per capire il presente, ma se mai partire dal moderno per comprendere l’antico tracciando suggestive reti in cui s’incrociano analogie e antitesi, al fine di marcare la specificità della cultura greca antica e la sua sostanziale estraneità rispetto alla moderna.
In tale prospettiva risultano molto efficaci le suggestioni del capitolo VI (La maschera del cattivo) in cui si traccia una sintetica storia della fortuna che l’immagine che del tyrannos ha vissuto nel corso dei secoli passando attraverso contesti disparati e mutamenti di orizzonti ideologici: l’opposizione contro l’assolutismo imperiale romano, l’egualitarismo anti-monarchico del Settecento, l’antifascismo e l’antisovietismo nel XX secolo. Tante epoche e tante visioni hanno provveduto a ridefinire di volta in volta la figura del tiranno in funzione del proprio peculiare concetto di libertà, pur mantenendo inalterati certi tratti imprescindibili quali la crudeltà, la follia e l’attitudine alla violenza sfrenata.
Ristampare oggi Il tiranno e il suo pubblico, a oltre quattro decenni dalla sua prima pubblicazione, è certamente un’iniziatica quanto mai lodevole, tanto più che il libro risulta da tempo difficilmente reperibile e fuori catalogo. Quella approntata dalla casa editrice Petite Plaisance non è per altro una semplice ristampa anastatica, bensì una vera e propria riedizione, con nuova impaginazione, arricchimento delle note a piè di pagina e degli indici.
Inoltre le otto appendici del volume, caratterizzate da un taglio più tecnico-filologico, che nell’edizione Einaudi erano stampate in corpo minore e risultavano un po’ sacrificate rispetto al resto del volume, qui ricevono il risalto che meritano trattandosi di approfondimenti tematici su singoli aspetti, ma necessariamente importanti per il quadro d’insieme offerto dal libro.
Riproduciamo qui, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, l’introduzione La tirannide come “ideologia” secondo Diego Lanza alla ristampa di Il tiranno e il suo pubblico edito da Petite Plaisance (il libro si può acquistare qui). Diego Lanza verrà ricordato alla Casa della cultura di Milano in diretta streaming il 29 gennaio alle ore 18: qui il link. Le immagini sono tratte da Ödipus, Tyrann, regia di Dimiter Gotscheff, una produzione di Thalia Theater di Amburgo della stagione 2009/2010, foto Krafft Angerer.
Su Diego Lanza e la tragedia greca vedi anche l'intervento di Anna Beltrametti, qui.
[1] D. Lanza, Le tyran et son public, traduit par J. Routier-Pucci, Belin, Paris 1997. La traduzione francese è apparsa nella collana “L’Antiquité au present” diretta da N. Loraux e Y. Thomas.
[2] La bibliografia degli ultimi decenni sul tema è amplissima. Mi limito a citare alcuni titoli di opere che hanno ripreso e sviluppato i filoni principali della ricerca di Lanza: V. Farenga, The Paradigmatic Tyrant. Greek Tyranny and the Ideology of the Proper, «Helios. A Journal Devoted to Critical and Methodological Studies of Classical Culture, Literature and Society» 8, 1981, pp. 1-31; V.J. Rosivach, The Tyrant in Athenian Democracy, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» N.S. 30, 1988, pp. 43-57; M.W. Taylor, The Tyrant Slayers: the Heroic Image in Fifth Century B.C. Athenian Art and Politics, Ayer, Salem 1991; P.A. Barceló, Basileia, Monarchia, Tyrannis. Untersuchungen zu Entwicklung und Beurteilung von Alleinherrschaft im vorhellenistischen Griechenland, Steiner, Stuttgart 1993; G. Giorgini, La città e il tiranno. Il concetto di tirannide nella Grecia del VII-IV secolo a.C., Giuffrè, Milano 1993; C. Catenacci, Il tiranno e l'eroe: per un'archeologia del potere nella Grecia antica, Bruno Mondadori, Milano 1996 (nuova edizione col titolo Il tiranno e l’eroe. Storia e mito nella Grecia antica, Carocci, Roma, 2012); J.F. McGlew, Tyranny and Political Culture in Ancient Greece, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1996; V. Parker, Τύραννος: the Semantics of a Political Concept From Archilochus to Aristotle, «Hermes» 126, 1998, pp. 145-172; A. Sanchez de la Torre, La tyrannie dans la Grece antique, Editions Biere, Madrid 1999; R. Seaford, Tragic Tyranny, in Popular Tyranny: Sovereignty and Its Discontents in Ancient Greece, a cura di K.A. Morgan, University of Texas Press, Austin (Texas) 2003; S. Lewis, Greek Tyranny, Bristol Phoenix Press, Exeter 2009; D. Teegarden, Death to Tyrants! Ancient Greek Democracy and the Struggle Against Tiranny, Princeton University Press, Princeton 2013; O.A. Ranum, Tyranny from Ancient Greece to Renaissance France, Palgrave Macmillan, Cham 2020.
[3] D. Lanza, M. Vegetti, L’ideologia della città, «Quaderni di Storia» 2, 1975, pp.1-37. Una versione con il medesimo titolo fu presentata anche nel volume miscellaneo Marxismo e società antica, a cura di M. Vegetti, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 259-288.
[4] F. Bertolini, Ricordo di Diego Lanza, «Lexis» 36, 2018, pp. 1-5, citazione a p. 1.
[5] D. Lanza, Il tiranno e il suo pubblico, Editrice Petite Plaisance, Pistoia 2020, p. 21.
[6] «In jedem begabten und ehrgeizigen Griechen wohnte ein Tyrann», J. Burckhard, Griechische Kulturgeschichte, Berlin 1, p. 178.
[7] Cfr. Aristofane, Lisistrata, v. 620: καὶ μάλιστ’ ὀσφραίνομαι τῆς Ἱππίου τυραννίδος («Soprattutto sento odore della tirannide di Ippia»).